Il regime e i “terroristi”

Morti, feriti, elicotteri e arresti non fermano la rivoluzione d'Iran

Tatiana Boutourline

Molti tetti a Teheran sono piatti. Nelle sere d'estate diventano salotti all'aperto per chi cerca refrigerio. Ma in queste ore di passione e paura non si sale a guardare le stelle. Chi alza gli occhi al cielo vede elicotteri sciamare come avvoltoi, fucili spianati da altri tetti, i bassiji che sparano nel mucchio e i “terroristi” disarmati che corrono in cerca di salvezza in una nebbia di lacrimogeni.

    Molti tetti a Teheran sono piatti. Nelle sere d'estate diventano salotti all'aperto per chi cerca refrigerio. Ma in queste ore di passione e paura non si sale a guardare le stelle. Chi alza gli occhi al cielo vede elicotteri sciamare come avvoltoi, fucili spianati da altri tetti, i bassiji che sparano nel mucchio e i “terroristi” disarmati che corrono in cerca di salvezza in una nebbia di lacrimogeni. Sono studenti, operai, ragazzine, mercanti, sono giovani e meno giovani, borghesi, intellettuali, globetrotter e gente dei quartieri popolari. Corrono tra colonne di fumo, inseguiti da luccicanti suv neri e motociclette giapponesi mentre catene e manganelli tintinnano nell'aria pesante. “Sono terroristi”, ha sancito la tv di stato. Terroristi al soldo degli inglesi, ha precisato il ministro degli Esteri, Manuchehr Mottaki. Sono “khash-o-khashak”, polvere e spazzatura, ha sentenziato Mahmoud Ahmadinejad. Dieci sono già morti, un centinaio sono stati feriti, è stato l'ammonimento dei mezzi d'informazione di regime.

    Ma dopo un sabato di sangue, domenica a Teheran la rivolta non ha accennato a placarsi. Secondo le autorità, “i terroristi” hanno dato fuoco a due pompe di benzina e attaccato una postazione militare. Secondo i “terroristi”, le autorità hanno ucciso molto più di dieci persone. I testimoni parlano di 30-40 cadaveri e su YouTube ci sono sprazzi di cronaca in differita delle atrocità. Ma si continua a rischiare. Le coppie con figli si dividono. Un genitore va e l'altro resta perché non si sa mai. Prima dei saluti una raccomandazione: “Giurami che se succede qualcosa ti fai portare dal dottor X e non in ospedale”. Negli ospedali i feriti vengono schedati e arrestati e poi non se ne sa più niente. Per salvarsi c'è chi cerca rifugio nelle ambasciate straniere e circola un appello affinché restino aperti i cancelli. Ma dall'estero i familiari supplicano: non uscite. La risposta è quasi sempre la stessa: “Andremo, perché vogliamo vivere e non soltanto esistere”. E c'è chi prima di chiudere la porta di casa ascolta le sue canzoni preferite e bacia le foto delle persone amate perché chi va mette in conto che potrebbe non tornare.

    In città si comunica a singhiozzo. I blog, Twitter e Facebook sono passati al setaccio dalle spie governative e bisogna trovare modi creativi per capirsi: un'allusione dentro il verso di una poesia, o un indirizzo tra molti evidenziato in una rubrica telefonica. C'è incertezza sul luogo degli appuntamenti. Ieri una marcia era in corso a Forsat-e-Shirazi. “Saremo ordinati – ha detto al Foglio un manifestante prima di uscire – e il nostro inno sarà khash-o–khashak”. E se la repressione si facesse ancora più feroce? “Alcuni di noi si dovranno sacrificare per tutti”, risponde il manifestante e ripetono in molti, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Sabato pomeriggio la polizia era dotata di lacrimogeni speciali che, oltre a bruciare gli occhi, causano dolori terribili allo stomaco. C'è anche chi racconta di uno strano liquido ustionante piovuto sui manifestanti dagli elicotteri. Ed è difficile per gli iraniani accettare che queste violenze vengano perpetrate da altri iraniani. “Alcuni sono altissimi, dove li hanno trovati? Sono vestiti di nero. Ti dico che parlano arabo: sono hezbollah libanesi”, si racconta di blog in blog. Mentre le strade bruciano la resa dei conti tra i turbanti e i fucili si svolge sulla pubblica piazza e, comunque vada, niente sarà più come prima.

    La figlia di Rafsanjani arrestata
    La sfida all'autorità dell'ayatollah Khamenei ha rotto tutte le regole. Mir Hossein Moussavi si è schierato contro il Vali e con i dimostranti e ha convocato per domani uno sciopero generale. Forse non è Gandhi come suggerisce il regista Mohsen Makhmalbaf, ma non è più un insider ortodosso. Mohammed Khatami è stato più cauto: “Impedire alla gente di esprimere le proprie istanze attraverso metodi civili avrà conseguenze pericolose per la nazione”. Nel pomeriggio di ieri si è diffusa la notizia dell'arresto della figlia e di altri cinque membri della famiglia di Hashemi Rafsanjani. Il grande decano dell'establishment non scioglie il silenzio e da Qom arrivano notizie contrastanti sulla trattativa all'interno del Consiglio degli Esperti. Il castello di carte protetto negli ultimi trent'anni dall'establishment rischia di cadere. Si formano alleanze impossibili tra religiosi-nazionalisti, baazar, mullah pragmatici, businessmen e laici. Moussavi non è un leader ideale, ma è quello che c'è e per vincere bisogna giocare con le fiches che si hanno, non con quelle che si vorrebbero possedere. Nel frattempo, lontano dai calcoli, il volto di Neda, la ragazza uccisa in via Amirabad, è già diventato un simbolo e il regime trema perché sa che le rivoluzioni hanno bisogno di simboli. Si odono cori inauditi come “Marg bar Khamenei”, morte a Khamenei, e inni di speranza come “Natarsin, natarsin, mah hameh baham hastim”, non abbiate paura, non abbiate paura, siamo tutti insieme. E la polizia invece di sparare comincia a trattenere i proiettili nei fucili.