Proseguono gli scontri a Teheran

"Ecco perché la piazza grida mentre l'occidente rimane dietro le quinte"

Amy Rosenthal

La scrittrice di origini iraniane ha appena pubblicato il racconto autobiografico “Honeymoon in Teheran” (Random house), in cui racconta la storia d'amore con il figlio di un tycoon iraniano del ricchissimo settore tessile. Sullo sfondo c'è l'ascesa al potere di Mahmoud Ahmadinejad in una società attraversata da enormi contraddizioni. L'opinionista del Times racconta al foglio.it lo spirito del popolo iraniano, facendolo reagire con la farsa elettorale e le sue ricadute sulla piazza di Teheran.

    Azadeh Moaveni è una firma del Times e del quotidiano The Daily Beast ed è l'autrice del bestseller “Lipstick Jihad” (Pisani, 2006), che l'ha resa nota in tutto il mondo. La scrittrice di origini iraniane ha appena pubblicato il racconto autobiografico “Honeymoon in Teheran” (Random house), in cui racconta la storia d'amore con il figlio di un tycoon iraniano del ricchissimo settore tessile. Sullo sfondo c'è l'ascesa al potere di Mahmoud Ahmadinejad in una società attraversata da enormi contraddizioni. Moaveni racconta al Foglio lo spirito del popolo iraniano, facendolo reagire con la farsa elettorale e le sue ricadute sulla piazza di Teheran. 

    Il racconto di Moaveni  parte dal 2005, quando in veste di giornalista ritorna a Teheran dall'America per seguire le elezioni presidenziali che porteranno Ahmadinejad al potere. “C'era una grande apatia fra gli iraniani”, spiega Moaveni sottolineando la contraddizione con le immagini che arrivano in questi giorni da Teheran. Una contraddizione che per Moaveni si spiega in modo semplice: “Innanzitutto, sotto Ahmadinejad il livello di povertà degli iraniani è invariabilmente cresciuto; poi credo si sia sviluppato nel popolo iraniano un sentimento di profonda avversione per un regime che disprezza la legge e ignora i bisogni elementari della popolazione”.

    Secondo l'autrice, Ahmadinejad si è conquistato definitivamente l'inimicizia del popolo nel 2007, quando ha reintrodotto quel rigido sistema di controllo sociale che gli iraniani considerano come un pezzo di storia antica. “In quella estate – spiega Moaveni – le autorità hanno rastrellato i sobborghi di Teheran per confiscare le antenne paraboliche, e hanno lanciato una campagna intimidatoria contro i vestiti occidentali ampiamente diffusi fra i giovani iraniani”. Negli ultimi giorni, però, abbiamo assistito a segnali contraddittori all'interno della leadership iraniana, come se quel monolite degli anni più duri di Ahmadinejad fosse in qualche modo entrato in conflitto con se stesso. “Il regime non è un monolite – dice la scrittrice – perché all'interno alcuni sono politicamente dei pragmatici, mentre l'altra fazione è fatta di fondamentalisti che non tollerano nessun negoziato”.   

    Per interpretare i fatti di Teheran non si possono non considerare gli sviluppi della diplomazia internazionale: come interpretano gli iraniani la diplomazia del presidente degli Stati Uniti Barack Obama dopo i giorni di proteste nelle strade di Teheran? “Mi aspettavo che gli iraniani – dice Moaveni – invocassero un aiuto diretto dell'occidente in questo momento difficile. Invece, parlando con i miei parenti e gli amici che abitano a Teheran mi è stato detto l'esatto opposto: la chiara coscienza che l'America dovrebbe rimanerne fuori. Un coinvolgimento diretto degli americani verrebbe usato come pretesto da Ahmadinejad per gridare al complotto occidentale”.