Piazza di sangue

Tatiana Boutourline

I bassiji picchiano sempre più forte. I manifestanti “sono polvere e la polvere non si muove”, dicono. Ieri la metropolitana di piazza Baharestan era chiusa e i “terroristi” – come il regime definisce i manifestanti – non hanno trovato vie di fuga. Le grida sono rimbombate tra gli spari.
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    Ieri la metropolitana di piazza Baharestan era chiusa e i “terroristi” – come il regime definisce i manifestanti – non hanno trovato vie di fuga. Le grida sono rimbombate tra gli spari e i pasdaran hanno onorato la promessa di dare una lezione ai rivoltosi. “Aiutateci! Aiutateci!”, ha gridato una studentessa al telefono con la Cnn. Ci sono bastoni, fucili, pistole, urla la ragazza con tutta la voce che ha in gola. “Stanno picchiando tutti. Ci stanno ammazzando. E' un massacro”. Nella nebbia di lacrimogeni e sangue a qualcuno è parso di intravedere Mir Hossein Moussavi, ma probabilmente era soltanto una speranza. I leader della rivolta non si vedono da tempo.

    Nonostante un messaggio di incoraggiamento ai manifestanti della moglie e musa ispiratrice Zahra Rahnavard, Moussavi non è apparso in piazza Baharestan e nemmeno a Vanak, Tarjish, Sadeghieh, Enghelab o agli indirizzi dell'insubordinazione dell'orrore. Aveva invocato la disubbidienza civile e per dare il buon esempio aveva assicurato di essere disposto al martirio. Nessuno però lo vede da giorni – alcune fonti lo danno agli arresti domiciliari – e se questa assenza si associa al silenzio del grande regista, Hashemi Rafsanjani, il segnale diventa funesto: i leader hanno abbandonato la piazza.
    Il regista Mohsen Makhmalbaf ha spiegato: Moussavi è braccato 24 ore su 24 dalla polizia segreta, la sua casa è circondata , un arresto potrebbe essere imminente. Dell'arresto però non si è saputo niente. Il cosiddetto Gandhi iraniano non si è materializzato e a Lalezar è andata in scena la stessa furia e la stessa disperazione di piazza Baharestan.

    Sul quotidiano dei falchi Keyhan ieri mattina capeggiava un avvertimento: la vendetta della Repubblica islamica potrebbe essere durissima contro “il candidato degli estremisti”. Moussavi non pensi di salvarsi “nascondendosi dietro le candele”, ammoniva il bollettino dei fondamentalisti alludendo alla commemorazione di qualche giorno fa in onore di Neda Soltan. E altrettanto minaccioso è parso il richiamo dell'ayatollah Ali Khamenei: “Ho insistito e insisterò affinché venga applicata la legge riguardo alla questione elettorale. Le istituzioni e la nazione non si piegheranno alle pressioni”. Ma quando è arrivato il momento oscuro da molti vaticinato Moussavi ha dimostrato di non aver niente a che spartire con Mandela. Nell'ora del giudizio gli unici a pagare sono stati i “terroristi”. Diecimila i bassiji schierati. Freddati agli incroci e nelle piazze, massacrati nelle loro automobili inseguiti ovunque fin sotto i letti, giustiziati persino sui tetti mentre invocano la grandezza di Allah perché dire “dio è grande” non basta e non serve, non è un salvacondotto in una repubblica che non è una repubblica e in cui l'islam non rappresenta l'islam ma soltanto la sopraffazione.

    Mentre il sangue bagnava i vestiti di quel che restava dei terroristi rannicchiati sulle piazze, il sito dell'uomo del momento puntualizzava che il raduno di piazza Baharestan non aveva nessun legame con l'onda verde di Moussavi. “C'è un tempo per le armi e un tempo per la riflessione. Noi non siamo più quelli di un tempo”, aveva risposto il giornalista ora editore Atrianfar a una signora incerta del pedigree democratico del “fondamentalista riformista Moussavi”. Loro – Mahmoud Ahmadinejad e i suoi falchi – sono come gorilla, sentenziò Atrianfar accampando un'acclarata superiorità morale e intellettuale.
    Eppure a piazza Baharestan non c'erano intellettuali e non c'erano modernizzatori, non c'erano i vati del cambiamento graduale. Nel pomeriggio di Teheran c'erano soltanto le braccia forti dei gorilla di Ahmadinejad con i manganelli veloci, le moto lucide e la gioia di picchiare duro. Ragazzi dagli occhi neri con le ciglia lunghe come quelle dei “terroristi”, ragazzi disposti a uccidere altri ragazzi come loro per dare lustro a un'uniforme che vuol dire anche due milioni di rial al giorno (millesettecento euro in dieci giorni). Una fortuna per uno che vuole sposarsi, magari anche più volte, un giovane uomo devoto che sogna di partire per l'Haji (l'annuale pellegrinaggio alla Mecca), un giovane di pochi mezzi e grandi illusioni, cresciute lontano dalle seduzioni intellettuali delle grandi città, un ragazzotto del Khuzestan o del Mazandaran che all'improvviso si sente importante, riceve pacche sulle spalle e pensa di avere il mondo tra le mani come il suo presidente. Sono uomini ma anche poco più che bambini questi esecutori: “Ci sono ragazzi anche di 13 o 14 anni che prendono in mano un'ascia per sentirsi più grandi – racconta chi c'era – Usano tutta la forza che hanno, dicono la polvere non deve parlare, la polvere non si muove”. “Khash-e-Khashak”,  sono polvere e spazzatura aveva detto Ahmadinejad. 

    Lo hanno preso sul serio. Tutti ora si interrogano su che cosa succederà oggi alla manifestazione indetta al mausoleo di Khomeini, che pare più una trappola che un appuntamento. Il nervosismo è palpabile, senza leader e senza voci di incoraggiamento restano soltanto i simboli della morte, i video dei manganelli, Neda e tutti gli altri. L'aspetto più scoraggiante per molti iraniani è questo: “Ci saranno anche i sudanesi, gli hezbollah libanesi. Ma questi mostri a piazza Baharestan  sono iraniani! – si è sgolato un testimone disperato – Dio mio Dio mio come faremo?”. Come farà l'Iran dei mistici e dei poeti, l'Iran che la sera sale sui tetti a bere succo di melograno e guardare le stelle, come farà questo Iran che si illude di poter cambiare da solo senza cannoni e senza stranieri a resistere ai pretoriani e ai gorilla?

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