L'Iran dopo la preghiera
Gli ayatollah hanno perso l'arte del “tarof” e la piazza si sente sola
Quasi tutti gli iraniani, compresi i grandi ayatollah, sono versati nell'arte del “tarof”, quell'insieme di cortesie esagerate che da duemila anni tiene insieme la loro società. Dire di sì quando si pensa no, fare offerte con la speranza che vengano rifiutate ed essere possibilisti, diplomatici ed evasivi pure nelle circostanze più difficili. Ieri alla preghiera del venerdì gli iraniani hanno avuto una conferma che questa non è una delle qualità dell'ayatollah Ahmad Khatami.
Quasi tutti gli iraniani, compresi i grandi ayatollah, sono versati nell'arte del “tarof”, quell'insieme di cortesie esagerate che da duemila anni tiene insieme la loro società. Dire di sì quando si pensa no, fare offerte con la speranza che vengano rifiutate ed essere possibilisti, diplomatici ed evasivi pure nelle circostanze più difficili. Ieri alla preghiera del venerdì gli iraniani hanno avuto una conferma che questa non è una delle qualità dell'ayatollah Ahmad Khatami. “Voglio che la magistratura punisca chi guida le proteste, senza mostrare alcuna misericordia per dare a tutti una lezione”.
Una raccomandazione superflua a giudicare dalle file di genitori terrorizzati che si allungano davanti al tribunale rivoluzionario di via Moallem.Il primo a rompere il tabù è stato Mahmoud Ahmadinejad: nessuno prima di lui aveva incarnato con meno ambiguità le intenzioni e le ossessioni di una parte della leadership iraniana. La sua distanza dall'arte della dissimulazione pareva un caso isolato, ma in due settimane le regole della Repubblica islamica sono saltate. E' un segno dei tempi che anche l'ayatollah Khamenei, che deve tutto proprio a una gestione calibrata delle punizioni e delle alleanze, abbia abdicato ogni cautela e perso, forse per sempre, il gusto del “tarof”. I seyyed sono nervosi tanto quanto sono più espliciti. E mentre Khamenei grida come un Ahmad Khatami qualsiasi, gli insider trattengono il fiato in attesa di una parola di Ali Akbar Hashemi Rafsanjani. Una sua dichiarazione è attesa da giorni e alcuni suoi collaboratori avevano dato per certo un annuncio per ieri. Ma il grande regista non scioglie il silenzio e c'è chi sostiene che dietro al suo mutismo si celi uno stallo. Crescono i dubbi intorno alla strategia di Rafsanjani, il cui feudo – il partito Kargozaran – è stato assaltato ieri dalla polizia: forse il Richelieu della nomenklatura ha mostrato troppo, troppo presto e forzato la mano.
Mentre il popolo della piazza si chiede se abbia ancora un senso farsi sparare addosso mentre il Consiglio dei Guardiani sancisce “l'elezione del 12 giugno è stata la più sana dalla rivoluzione” e Mir Hossein Moussavi cavilla di procedure; quando i bassiji continuano a sparare, i potenti che non si sono ancora schierati hanno trovato un nuovo cavallo su cui puntare. Un uomo che incarna il volto enigmatico del regime e non ha dimenticato l'arte del “tarof”. La terza via della Repubblica islamica potrebbe essere nelle mani di Ali Larijani. In questi giorni complicati in cui anche i decani sembrano persi, il capo del Majlis non ha perso il sangue freddo e la sua calma segna una strada maestra per chi si sente a metà tra Khamenei e la piazza. Larijani ha lodato l'alta affluenza alle urne, ma criticato la violenza della repressione. Ha attaccato Londra e Washington accusandole di interferenze nelle faccende interne iraniane, ha presenziato alla preghiera del venerdì seduto accanto ad Ahmadinejad (ostentando però una certa insofferenza).
Si è inerpicato in sottili distinguo tra gli hooligan e i dimostranti. E' stato tagliente nei confronti dei media di regime e ha invocato un'apparizione tv di Moussavi. Il tentativo di Larijani di ritagliarsi un profilo autonomo nella crisi non è passato inosservato e tutti si domandano da che parte penderà nella partita tra Rafsanjani e Khamenei. L'opportunismo di Larijani potrebbe rivelarsi una merce preziosa. E' figlio dell'ayatollah Amoli e il fratello Sadegh siede nel Consiglio dei Guardiani.
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