Ricreazione finita
La ricreazione è finita. In quattro mesi gli iscritti al Pd parleranno, voteranno per le mozioni presentate dai candidati alla segreteria, eleggeranno i delegati al congresso che a sua volta restringerà la rosa dei concorrenti e passerà la palla alle primarie a cui, oltre gli iscritti, parteciperanno, con un peso specifico molto maggiore di quello degli iscritti, anche i cittadini elettori.
La ricreazione è finita. In quattro mesi gli iscritti al Pd parleranno, voteranno per le mozioni presentate dai candidati alla segreteria, eleggeranno i delegati al congresso che a sua volta restringerà la rosa dei concorrenti e passerà la palla alle primarie a cui, oltre gli iscritti, parteciperanno, con un peso specifico molto maggiore di quello degli iscritti, anche i cittadini elettori. E' una procedura farraginosa, un miscuglio nazionalpopolare di democrazia delegata e diretta ma come suole ripetere il candidato Bersani cosa fatta capo ha.
Le novità sono due. La prima è che si scontrano apertamente due o più candidati sulla carta di egual peso. La seconda è che le primarie saranno una gara a tutti gli effetti e non lo stucchevole omaggio del vizio alla virtù come avvenne per Prodi e poi per Veltroni. E' un passo avanti, altra cosa che sia sufficiente per la guarigione da una malattia sulla cui diagnosi non c'è accordo alcuno. I democratici non soffrono oggi per l'assenza di un programma. Non ne ha nessuno in Europa né tra i partiti di destra né tra quelli di sinistra e solo un fesso potrebbe perdere tempo a scriverne nella situazione data. La fine ingloriosa delle 264 pagine color cacchina edite a suo tempo dall'Unione ha vaccinato gli elettori e ogni persona di buon senso. Bastano quindi due o tre idee, magari quattro e se proprio ci tenete e usate pure la parola “piattaforma” che almeno è flessibile e non sa di gros plan sovietico.
Contrariamente a un altro cliché molto diffuso il Pd non ha nemmeno il problema delle alleanze. Coloro che sono fuori dal Parlamento sono per forza di cose inservibili. Tra quelle invece rappresentate in Parlamento la scelta sarebbe tra l'Idv e l'Udc, entrambi oggi riottosi per ragioni di bassa cucina. Si può credere che la legittimità e l'avvenire del più forte partito d'opposizione possano discendere da un patto preliminare con Di Pietro, capo di una forza barbara che mai si è promessa alla civilizzazione e per questo condannata a ridimensionarsi nel giro di un quinquennio. Oppure con Casini, che crede di prosperare in quanto titolare della licenza del terzo forno? Nelle società ricche e complesse le forze di destra rappresentano la maggioranza in termini elettorali e sociologici. Una regola che ha le sue eccezioni: quando la destra è divisa, è logorata da troppi anni al potere, quando ha leader impresentabili o è profondamente divisa, allora la sinistra può vincere.
Dire perciò che il Pd debba andare per la sua strada e lasciare che siano gli altri, piccoli o nuovi ricchi, a scegliere, è tanto ovvio da sembrare banale. La forza della cosiddetta vocazione maggioritaria stava proprio nel considerarsi ambiziosi e autosufficienti, proprio per questo capaci di aggregare “dopo” e guidare altre forze. Fossi un militante democratico quelle quattro cifre le terrei sotto vetro a lampeggiare: 33,19 per cento, dopo il tracollo della coalizione di governo più rissosa e inconcludente della storia di due repubbliche, è stato il miracolo con cui la sinistra italiana riusciva a tornare ai livelli del vecchio Pci ma con voti spendibili per un governo democratico del paese. Fossi un militante democratico farei un mezzo giro d'orizzonte in Europa e vedrei che quel 33,19 per cento se lo sognano non solo i socialdemocratici tedeschi, i laburisti inglesi, i socialisti francesi ridotti addirittura alla metà ma anche non poche forze della destra, a cominciare dal partito di Sarkozy e del cancelliere Merkel. E, siamo pronti a scommettere, anche il Pdl in versione post berlusconiana. Che poi Veltroni non sia riuscito a trasformare la meta favolosa è un'altra storia.
Il problema del Pd non è quello del programma né quello delle alleanze: era e rimane quello del leader. Non del segretario, che un segretario si trova sempre. Ma di un leader che sappia interrompere questa filastrocca senile del “je te tiens, tu me tiens par la barbichette”, si comporti da primo senza pari, imponendosi come candidato alla premiership. A quelli che, come il presidente dell'enciclopedia italiana che ancora si fidano dei gruppi dirigenti coesi, dei “sette piccoli indiani che lavorano insieme” per il bene della tribù, sappia rispondere che gli indiani devono essere almeno dieci. Ed essere fatti fuori l'uno dopo l'altro. Finché “solo uno alla fine ne resterà”.
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