Il Thriller di Jackson ha dato a Obama la Casa Bianca

Stefano Pistolini

Pensate che la mattina che Michael Jackson è morto Lou Ferrigno era in volo per Los Angeles, dove l'ultimo Peter Pan aveva stabilito il quartier generale della sua rinascita professionale. Sì, Ferrigno, il vecchio “Hulk”, quello che appartiene indissolubilmente all'immaginario televisivo di fine secolo, insieme al successo planetario di “Thriller” e ai telefilm delle “Charlie's Angels”.
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    Pensate che la mattina che Michael Jackson è morto – assecondando l'arresto irreversibile del suo cuore e gettando in subitaneo sconforto legioni transgenerazionali di fans in disarmo – Lou Ferrigno era in volo per Los Angeles, dove l'ultimo Peter Pan aveva stabilito il quartier generale della sua rinascita professionale. Sì, Ferrigno, il vecchio “Hulk”, quello che appartiene indissolubilmente all'immaginario televisivo di fine secolo, insieme al successo planetario di “Thriller”, ai telefilm delle “Charlie's Angels”, la cui icona bionda Farrah Fawcett s'è anch'essa spenta ieri, sempre nella città degli angeli, anche lei prematuramente, 62 anni, mentre MJ si è fermato addirittura a 50.

    Ferrigno, che adesso di mestiere fa il trainer di divi arruginiti – quelli come Madonna, coetanea di Jackson, come lui infatuata del proprio corpo al punto di modificarlo instancabilmente e di chiedergli performance sempre sublimi, a dispetto dell'età, degli acciacchi, dei limiti che vanno ammessi come conseguenza della natura umana – insomma il vecchio Hulk casereccio doveva aiutare Michael a rimettersi in sesto per affrontare questi 50 show alla Q Arena di Londra, già esauriti in prevendita, un pastiche in stile Las Vegas grazie al quale l'artista si sarebbe rappresentato nel massimo splendore tecnologico, allo scopo di mostrarsi finalmente – dal vivo e in carne e ossa – a quei fans più giovani che non hanno mai avuto occasione di vederlo ballare e cantare, di sentire dal vivo chi ha saputo inventare, mescolando innocenza ed erotismo, cartoon e voyeurismo, una formula originale e potentissima. Una produzione però che doveva anche turare le falle finanziare, cosparse come buchi nel gruviera lungo il viale del tramonto di Jackson, disseminato di fiaschi, slavine giudiziarie, scandali, spese legali, eccessi e stupidaggini (ma talmente connesse col personaggio da essere inevitabili: si va dall'edificazione su una collina spelacchiata della California meridionale di Neverland, il ranch delle fantasie realizzate, fino a quelle deliziose notiziole anni Ottanta, quando MJ in visita a Londra, pretendeva l'apertura a mezzanotte del più famoso negozio di giocattoli in città, su Regent Street, per dilettarsi in ore di shopping in solitudine assoluta – capite la perversione? – tornando in albergo con pupazzi, pelouche e trenini per decine di migliaia di dollari).

    Adesso era indispensabile portare quattrini freschi nei conti bancari prosciugati, e perciò il clan Jackson aveva stretto le file attorno al suo miglior prodotto e aveva preparato la rentrée del ragazzo stanco, di cui solo pochi mesi orsono, in un presagio e in una prova generale, s'erano già diffuse voci di morte imminente, vittima di malattie incurabili, condannato dalla bizzarria che gli aveva fatto manomettere il pigmento, i lineamenti, la scala cromatica, vetrificando chirurgicamente l'immagine dell'eterno ragazzino triste, quella con cui l'abbiamo visto affrontare la resa dei conti dei processi per pedofilia, con cui l'abbiamo visto accusato d'irresponsabilità, allorché rischiò di far cadere il figlio neonato dondolandolo da un balcone, col quale abbandonò l'America (riparando negli Emirati Arabi!), l'America che l'aveva insultato, facendone un mostro da prima pagina, l'astro sinistro e declinante, non più il campione della leggiadrìa che aveva inventato il “moonwalk” e il ripensamento del rhythm'n'blues.
    Perciò il quadro di questa giornata d'inizio estate a Los Angeles era questo: nella villona in affitto Michael provava a rimettere insieme i cocci e a convincersi d'essere ancora capace di diventare magico su un palcoscenico a 50 anni suonati, dopo che ne erano trascorsi 40 dai suoi esordi. In cielo un vecchio culturista, ex attore per caso, elaborava i modi per ridare al corpo del divo quell'elastica fluidità a cui doveva tanto successo. Nel suo letto di morte Farrah, “ragazza d'America” semmai una ne è stata prodotta dalla tv anni Ottanta, si congedava dal mondo. Nel frattempo a Londra il management di Jacko faceva i conti con la pretesa d'ennesimo rinvio che l'entourage dell'artista aveva appena recapitato: ci vuole almeno una settimana in più, il debutto va spostato dall'8 al 13 luglio.

    Ecco: fermate i fotogrammi. Michael incerto, stranito, pauroso. Hulk stretto dalla cintura di sicurezza in atterraggio per ridargli un pizzico di gioventù. La Fawcett disfatta, che muore. I fans che ci credono ancora, perché gli idoli di ieri sono rimasti senza degni sostituti, e perciò hanno comprato tutti i biglietti di Londra e aspettano di vedere la leggenda coi propri occhi. Pare un film di tristezze postmoderne, no? Degne di “Magnolia”. Ed ecco che, in tanto profondersi di malinconiche ripartenze e di latenze di entusiasmo, Michael va giù, cade, il suo cuore smette di battere e il suo mondo di girare. Beh, dal momento che siamo al cospetto di un sommo artista, va detto che MJ ha selezionato la migliore uscita di scena possibile. Appena un attimo prima di sancire la propria zoppicante sopravvivenza. Prendendo sottobraccio Farrah come ha fatto negli ultimi vent'anni con un'altra vestigia del passato, Liz Taylor, la dama in compagnia della quale gli piaceva frequentare qualche raro red carpet – estrema, assoluta, intoccabile quanto lui, altrettanto seppellita nel neoclassico americano. Perciò, consideriamo la scomparsa di Michael come una gran dipartita da artista e, in quanto tale, concediamogli dignità e serenità. Sgomberiamo il paradosso dalle cronache pettegole che l'hanno avvolto negli ultimi anni, descritto come cacciatore di bambini, fissato con la reclusione e la contaminazione, ossessionato da fantasmi polverosi e vediamo cosa va tenuto di Jackson, cosa lo sintetizza e lo rende potente storia americana.

    Partendo dalle esibizioni all'Apollo Theatre sulla 125ª strada e dalla Motown, l'etichetta discografica dei suoi ruggenti esordi, quando coniugava l'irruenza ruspante del ragazzino prodigio dell'Indiana, con il predominio che la nuova musica nera di cui era esponente stava riscuotendo dai transistor della nazione: “I Want You Back”, cantava con la vocetta stridula del pre adolescente, assecondato da fratelli, parenti e furbacchioni montati sul treno in corsa dei Jackson Five. E poi il suo precoce zenit artistico, quello che gli valse il titolo di Re del Pop e lo rese l'artista più famoso del mondo, in anticipo sulla globalizzazione, ovvero il botto di “Thriller” motivato dal suo ormai maturo talento compositivo ed esecutivo e dal folgorante incontro con Quincy Jones, stratega del decollo del fattore “black” nei consumi americani. E' qui il punto di svolta: “Don't Stop ‘Til You Get Enough”, “Wanna Be Startin' Something”, “Beat It”, il megaclip della canzone che dava il titolo all'album firmato da John Landis (maestro del demenziale cinematografico americano, eminentemente bianco e borghese), i suoni creati da Quincy, levigati, memori dell'ubriacatura disco, pronti a lasciare l'Apollo Theatre e il cuore di Harlem per sbarcare tra gli effetti speciali dello Studio 54. In una parola: il “superamento”.

    “Thriller” non è più un disco di musica nera, non è un album soul, non è una raccolta di hit in stile Motown. E' una formidabile macchina musicale postrazziale che si connetteva direttamente con Elvis Presley e i Beatles, ecumenica totalità di consumo. Jackson, prima di schiarirsi la pelle mandava in soffitto l'eccitante apartheid del suono afroamericano, lo addolciva e ne correggeva il sex appeal, sorrideva invece di mordere, stregava invece di ipnotizzare. Un quarto di secolo prima che Obama rendesse questo procedimento un'epifania nazionale, dichiarava che adesso non era più questione di “Black or White”, non era più bianco/nero il dualismo motore della sua società, sostituito da successo/insuccesso, ovvero dentro/fuori, perché cominciava la stagione dell'individualismo, della rincorsa edonistica, e il campionato apriva le iscrizioni a tutti, neri inclusi, se dotati del genio di Michael, o come l'altro Michael, Jordan, personaggi oltre la contrapposizione razziale e la concezione di “altre Americhe”. Ecco: la rivoluzione di Jackson è questa, e lo connette proprio col prodigio dei nostri tempi, Obama, perché sancisce che sono figure come loro a liquidare d'impeto la principale questione di colpa americana. La Casa Bianca di Jacko, quella da cui promulgava i suoi messaggi, si chiama Mtv, ed è stata la chiesa dei suoi trionfi, l'altare della sua liturgia e il luogo comune della sua condivisione planetaria.

    Poi subentra la rottura del meccanismo, il tracollo. Il rifiuto di invecchiare, la battaglia col tempo, il nascondiglio nei suoi sogni, compresi quelli inconfessabili. La faccia-maschera. La disintegrazione. L'anormalità. Il bello è che questo declino andava in scena mentre nel mondo continuavano a risuonare le sue canzoni, in un benzinaio di Dubai, in un centro commerciale in Russia, in un aeroporto sudamericano. Michael impallidiva, stentava, boccheggiava, sbagliava, si vergognava, si avvolgeva la testa in un velo che lo rendeva uno spettro. Ma le sue canzoni continuavano a pompare ormoni e ritmo, intatte, conoscendo il segreto dell'immortalità, emanazione di una storia meravigliosa: quella di un ex ragazzo prodigio che seppe esaltare il piacere di vivere dentro la musica, sognando l'amore, carezzando i corpi, seguendo pensieri lievi. Già, perché c'è stato un tempo durante il quale molte persone vivevano letteralmente “dentro” la musica.

    Ma adesso questa epoca appare superata. E quando il ramo ormai secco della vita di Jackson s'è spezzato a Los Angeles, in contemporanea con Farrah e mentre Ferrigno atterrava al Lax, tutti i conti erano già chiusi, la psiche nazionale era altrove, i problemi sono cambiati e il pop è un ricordo, fatto di telefilm, permanenti bionde e prodigiosi passi di danza. Resta quel suono che continua a ricominciare, come un juke box incantato. La frase che Michael continua a ripetere è “Dico che tu hai voglia di far cominciare qualcosa / che tu devi far cominciare qualcosa / ma che è troppo in alto per scavalcarlo e troppo in basso per passargli sotto / ma tu non devi restarci incastrato dentro / altrimenti il tuono ti assorderà”. Epitaffio di un'epoca. Ma non un funerale. Perché si va avanti, i figli crescono, “Thriller” glielo spieghiamo noi, e di cose belle ne succedono tante altre.
    Stefano Pistolini, collaboratore del Foglio, è un americanista ed è il massimo esperto italiano di pop culture. Il suo ultimo libro s'intitola “Mr Cool - Come funziona il metodo Obama” ed è edito da Marsilio.

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