L'ultimo scritto di don Gianni Baget Bozzo

Così Dossetti trasformò il solidarismo cristiano in ideologia politica

Maurizio Crippa

“Il secolo futuro sarà il secolo in cui la chiesa non si accorderà con i Prìncipi o con i Parlamenti, ma si accorderà con le grandi masse popolari”. Era il 21 marzo 1947 e Giuseppe Dossetti finiva tra “vivissimi applausi e moltissime congratulazioni” il suo intervento alla Costituente, citando una frase pronunciata sessant'anni prima dal cardinale James Gibbon, arcivescovo di Baltimora.

    Il secolo futuro sarà il secolo in cui la chiesa non si accorderà con i Prìncipi o con i Parlamenti, ma si accorderà con le grandi masse popolari”. Era il 21 marzo 1947 e Giuseppe Dossetti finiva tra “vivissimi applausi e moltissime congratulazioni” il suo intervento alla Costituente, citando una frase pronunciata sessant'anni prima dal cardinale James Gibbon, arcivescovo di Baltimora. Quell'accordo tra la chiesa e le masse popolari, quel “crogiuolo ardente e universale” è il centro di tutta la visione politico-religiosa del “monaco principe” Dossetti, attraverso di lui essa si incide in modo indelebile nella Costituzione repubblicana e, da lì, condiziona in modo inesorabile la storia politica e persino lo sviluppo economico dell'Italia repubblicana.

    Tutte cose che Gianni Baget Bozzo aveva già capito decenni fa, quando nel suo “Il partito cristiano al potere” (1974), riconosceva come decisiva l'impostazione data da Dossetti alla Carta fondamentale: “Andavano escluse sia la versione sia la visione individualistica che quella totalitaria… Dossetti affermava la necessaria socialità di tutte le persone destinate a completarsi e a perfezionarsi a vicenda mediante una reciproca solidarietà spirituale ed economica”. Una visione di sintesi che andava oltre il solidarismo tipico della dottrina sociale cattolica, pur rimanendo formalmente opposta al collettivismo comunista, eppure imparentata in modo spurio con ambedue. L'ibrido spiritual-economico di Dossetti è tutt'uno con la sua mistica della Costituzione e con la sua visione poltica che vedeva nel “rapporto tra cattolici e comunisti la chiave politica della storia italiana”.

    Non è per nulla strano, allora, anzi ha in sé un tocco quasi provvidenziale, che il primo scritto di don Gianni Baget Bozzo a venir pubblicato dopo la sua morte sia proprio un saggio dedicato a Dossetti, al suo mito costituzionale e a “quella sottile linea gnostica che era percepibile come il modo in cui Dossetti risolveva il conflitto tra cattolicesimo e modernità” e che colpì così tanto il futuro don Gianni da indurlo a trasformarsi dal “fervente dossettiano politico” degli esordi in “critico del dossettismo” per il resto della vita.

    “Giuseppe Dossetti - La costituzione come ideologia politica” (Ares, 272 pp., 16 euro) è in realtà un libro scritto a quattro mani. L'altro (anzi, cronologicamente il primo) autore è Pier Paolo Saleri, saggista e collaboratore di Baget Bozzo, a cui l'idea di dare organicità a comuni e decennali riflessioni sul pensiero dossettiano (e la sua influenza fino all'oggi) era balenata per primo. “Lo scriviamo assieme! –  gli rispose don Gianni – Facciamo nell'arco finale della vita quello che avremmo dovuto fare nel 1970”. Così nasce, tra fine 2008 e gennaio 2009, “in poco più di novanta giorni” questo scritto che è per certi versi l'estrema sintesi del pensiero politico ed ecclesiale di Baget Bozzo. “Costituzione e politica” nasce in realtà come sviluppo di una prefazione per lo scritto di Saleri, “Il monaco ‘Principe'”, in cui si affrontano Dossetti e il “dossettismo” nella loro storia fino alla nascita dell'Ulivo. L'originalità dei due testi, strettamente connessi, è di non fermarsi a quella che si potrebbe definire l'archeologia del problema politico italiano: il Dossetti costituente, il rapporto con la Dc, il Concilio, il Pci. Per Baget Bozzo invece il compimento del dossettismo avviene solo in anni recenti, attraverso l'Ulivo di Romano Prodi e per il tramite del magistero ecclesiale del cardinale Carlo Maria Martini: “Martini fu maestro nella chiesa italiana perché mantenne un linguaggio neutro nelle questioni che toccavano il rapporto tra chiesa e politica”, scrive. E in ciò “contribuì a disarmare la resistenza interna alla chiesa alla posizione dossettiana”.

    Non è Martini a essere dossettiano, è Dossetti a sfruttarne il ruolo: “Fu una perfetta soluzione: un vescovo autorevole si differenziava dal Papa su tutte le questioni che erano storicamente conflittuali tra la chiesa e la società”. Martini “veniva dal mondo dell'esegesi biblica, dove l'accettazione del metodo storico-critico aveva condotto praticamente a una doppia verità: una verità per la scienza storica e una verità per la fede”. Se ciò accadeva in ambito ecclesiale, “era possibile applicare questa distinzione anche alla politica e pensare a una chiesa spirituale che si riconosceva come tale proprio dal fatto che non interferiva nella secolarizzazione della politica la conferma del proprio valore spirituale”. Sono le basi culturali dell'Ulivo. In cui il “concetto del sacro costituzionale”, il mito della Costituzione, “costituì il fascino”. Prodi ne sarà il perfetto interprete: nella sua figura di non-politico, figlio diletto della chiesa “spirituale”, quella nata dal Concilio nel lavoro di Dossetti.

    La costruzione del mito dell'Ulivo (“Dossetti tenne a battesimo l'Ulivo piantandone uno a Montesole, come simbolo di unità tra cattolici e comunisti”) e la sua personificazione tecno-sacerdotale in Prodi sono per Baget Bozzo e Saleri il compimento del “fiume carsico”. Ma non di mera immaginazione simbolica si tratta: “Non si può dire quanto il gesto mitico di Dossetti di segnare Prodi come l'uomo della luce abbia contribuito a produrre nell'immaginario della sinistra l'immagine di Berlusconi come uomo delle tenebre”. L'uomo che non è nato dalla radice della Costituzione, l'uomo che ha prodotto per via consumistico-televisiva la secolarizzazione dell'Italia, l'uomo che ha sfarinato l'identità economica del paese che nella visione costituzionale dei dossettiani era “soggetta a un controllo pubblico di tipo corporativo”. L'uomo che nella sua estraneità ontologica alla Carta fondamentale si sottrae alla Legge tout-court.

    • Maurizio Crippa
    • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

      E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"