Prima di Jacko una giovinezza a mollo in un bagno sonoro
Difesa inutile (non ne ha bisogno) ma appassionata della musica rock
Se nel 1966, a dodici anni, non andavo a dormire con il transistor nascosto sotto il cuscino per bearmi dei Kinks e dei Beach Boys, degli Who e degli Hollies, di Otis Redding e dei Moody Blues – così come fanno i ragazzini inglesi di “I love Radio rock”, il film di Richard Curtis uscito da poco anche in Italia – era soltanto perché, la sera, le stazioni italiane quella musica non la trasmettevano.
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Se nel 1966, a dodici anni, non andavo a dormire con il transistor nascosto sotto il cuscino per bearmi dei Kinks e dei Beach Boys, degli Who e degli Hollies, di Otis Redding e dei Moody Blues – così come fanno i ragazzini inglesi di “I love Radio rock”, il film di Richard Curtis uscito da poco anche in Italia – era soltanto perché, la sera, le stazioni italiane quella musica non la trasmettevano, e perché le nostre frequenze non potevano intercettare le radio pirata che trasmettevano illegalmente il rock da navi al largo del Mare del Nord. Per gli adolescenti italiani quella era musica da merenda pomeridiana: “Per voi giovani” dal lunedì al venerdì” e “Bandiera gialla” il sabato, e basta. Ma non bastava mai, perché quella musica era pura felicità. Era il suono che faceva girare il mondo, che ti faceva agitare e cantare, che scacciava la paura e ti faceva arrovellare sui testi, creativamente reinventati quando non si sapevano le parole vere.
“Estasi prematura” (vedi il Foglio di ieri), l'ha chiamata il filosofo Allan Bloom nel 1987, in un feroce bilancio fatto quando il rock era ormai diventato istituzione, con Michael Jackson ricevuto da Reagan alla Casa Bianca.
Bloom era convinto, e altri lo sono con lui, che quella musica avesse rovinato “l'immaginazione dei giovani” e compromesso il loro “rapporto appassionato con l'arte e il pensiero che sono l'essenza di una cultura liberale”. Mick Jagger? Un diavolaccio androgino e furbacchione. Il rock e i suoi eroi? Imbonitori a buon mercato, senza cultura e senza passione… Io però non posso dimenticare – e chissà quanti potrebbero raccontare qualcosa di simile, cambiando qualche particolare – il pomeriggio del 1963 in cui incontrai i Beatles e “Please, please me”: suoni inauditi, provenienti dalla grande radio quasi sempre accesa in casa. Non era solo una canzonetta. Era il richiamo della foresta, era l'inizio del grande bagno di musica in cui i nati tra i Cinquanta e i Sessanta sono rimasti a mollo, ma non in apnea, per parecchi lustri. Perché quelli del rock sono stati anni in cui non si ascoltava semplicemente la musica ma ci si viveva “dentro”, la si respirava quasi, con strane branchie mai osservate in precedenza in esseri umani.
Una strana mutazione. Fu una strana mutazione, resa possibile da circostanze la cui analisi si può lasciare volentieri a sociologi e storici. C'era certamente l'immenso pubblico dei baby boomers, c'erano le nuove vie di contaminazione musicale che mescolavano tutto e producevano suoni mai ascoltati, che sembravano direttamente generati dalla pancia e dal cuore di chi li ascoltava. C'era che quello fu uno dei modi in cui Dioniso aveva deciso di manifestarsi nel mondo tra gli anni Sessanta e i Settanta del Novecento, servendosi di giovanissimi e geniali sacerdoti, spesso finiti a pezzi come il dio che, forse senza che loro lo sapessero, li ispirava. Non sarebbe stato possibile, altrimenti, per quattro ragazzi proletari e autodidatti di Liverpool (i Beatles) o per un gruppo di fratelli, cugini e amici di Hawthorne, California, che strimpellavano insieme dai tempi della scuola (i Beach Boys) lasciare per sempre la loro impronta nel gusto e nei sentimenti delle generazioni dei loro coetanei e oltre, fino a oggi. Prima di loro, c'era stato tutto il mondo che ruotava attorno a Phil Spector. Uno che ebbe il mondo ai propri piedi e che ora, a sessantanove anni, appare come una maschera impressionante, la faccia malamente ricostruita dopo un incidente, zombie patetico con la parrucca, così come dicono fosse ridotto Michael Jackson.
Spector è finito in galera per aver ucciso una donna, praticamente senza motivo (lui però si proclama innocente, anche se i giudici che lo hanno condannato a diciannove anni non si sono fatti convincere dai suoi avvocati). Quel fantasma tragico a ventun anni era già miliardario (“il primo magnate dell'adolescenza”, lo definì Tom Wolfe), e aveva inventato, prodotto e arrangiato canzoni come “Stand by me”, “Be my baby” (la cantavano le Ronettes, pettinate quarant'anni fa come Amy Winehouse adesso) e “Unchained Melody” (la colonna sonora di “Ghost”, per chi avesse bisogno di riferimenti più recenti).
Un tessuto ruvido, caldo e resistente. Attraverso le cure musicali di Spector sono passati tutti – Beatles e Rolling, Leonard Cohen e Ramones, Carole King e Beach Boys – e dopo il suo “muro di suono”, strati e strati di sovraincisioni che abbracciano (non assordano) chi ascolta, nulla è stato come prima. Porta la sua firma – Allan Bloom non si stupirebbe – una delle trame del tessuto resistente, ruvido e caldo che si chiama musica rock, e che ha vestito i pensieri e i gusti di mezzo secolo. L'unica musica capace, nel bene e nel male, di trasformarsi nella Colonna Sonora Unica della felice e infelice giovinezza di quei e di tutti i tempi.
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