La stella Marino

La solitudine di Bettini cominciò il giorno in cui Dario gli disse: “A te no”

Stefano Di Michele

Tra afa e lampi, nell'estate del suo scontento, Goffredo Bettini ha una recente buona abbronzatura, una persistente ottima stazza e una acquisita pessima opinione di quasi tutto il resto. Dice (e sorride): “In questo momento sono un solitario…”. Spiega (e la bocca prende una piega amara): “Certi comportamenti prepolitici, una certa rozzezza, modi di fare che si scontrano, diciamo, con la mia formazione familiare… Non sono né per Bersani né per Franceschini.
Leggi Ecco il manifesto congressuale del terzo uomo, parla Ignazio Marino

    Tra afa e lampi, nell'estate del suo scontento, Goffredo Bettini ha una recente buona abbronzatura, una persistente ottima stazza e una acquisita pessima opinione di quasi tutto il resto. Dice (e sorride): “In questo momento sono un solitario…”. Spiega (e la bocca prende una piega amara): “Certi comportamenti prepolitici, una certa rozzezza, modi di fare che si scontrano, diciamo, con la mia formazione familiare… Non sono né per Bersani – una persona che stimo, ma la sua è una candidatura datata – né per Franceschini – che certo non è nuovo, casomai è l'ultima coda della crisi del Pd”. Chiude la copia di Repubblica, dopo aver scorso, tra sospiri e imprecazioni trattenute, l'intervista a Debora Serracchiani. “Offensiva con D'Alema quando dice che con lui è l'apparato. Si vede che con Franceschini ci sono tutti gli spiriti liberi… Non ci sono solo i creativi, ma anche i fattivi, per fortuna. Parte di questo rinnovamento molte volte è più furbizia da politicanti che altro, rispetto a tanti compagni e amici che hanno dedicato la loro vita al lavoro nelle sezioni, senza chiedere nulla in cambio: né seggi europei né posti in segreteria”.

    Circola una battuta maligna, in attesa dei prossimi sviluppi sul terzo candidato che dovrebbe entrare in scena: un pazzo guidato da un pazzo. Il primo potrebbe essere il professor Marino, se accetterà la sfida; il secondo di sicuro è Bettini. E lui, argomentando e spiegando, piuttosto è disponibile a credere che i matti sono gli altri. Dicono che D'Alema abbia commentato così la possibilità: “Ma è solo un chirurgo…”. C'è Marini (Franco) che ha rapidamente certificato: “Se si candida Marino (il prof. ndr) vuol dire che il Pd è in sala operatoria”. Bettini alza le spalle – un tentativo impercettibile, come fa nei gialli, che affollano gli scaffali della sua libreria, quel “settimo di tonnellata” di genio investigativo di Nero Wolfe: “Se alla gente chiedi che cos'è un chirurgo, sa rispondere benissimo; se gli chiedi che cos'è un politico è più imbarazzata nelle risposte. Se Marino fa tanto ridere i politici, tanti politici fanno ridere alla maggior parte degli italiani”. E' dunque davvero Bettini il pazzo che vorrebbe Marino pronto a scontrarsi con le falangi di Bersani e Franceschini? “Viva Marino!”, scatta il diretto interessato. “La mia è solo un'invocazione, potrei dare un appoggio con le mie idee”.

    L'ombra bettiniana come quella guerriera di Kagemusha? “Come ombra sarei troppo ingombrante – replica tentando un complesso allungamento sul piccolo divano bianco – Però, una battaglia per amore del progetto del Pd…”. E sarebbe Marino il candidato ideale? “Intanto, è molto più abile politicamente di quanto si possa pensare. Poi è portatore di due cose fondamentali: l'idea di pienezza di libertà di scelta da parte di uomini e donne, e una visione del partito senza correnti, fondato sul potere di iscritti ed elettori”. Raccontano gli avversari nel Pd, molti di più degli amici dei giorni gloriosi, che fa tutto questo per rancore contro Franceschini, per ferite aperte da poco e che aperte forse resteranno per sempre. “Sono lontani mille miglia, c'è fortissima antipatia personale”, spiegano. Ha preso a sanguinare ai tempi del tramonto veltroniano, quella ferita, è diventato un taglio irreparabile con la vicenda della candidature alle europee.

    Tutti sapevano che a Bettini sarebbe piaciuto andare in Europa. E tutti a garantire che sarebbe stato il capolista. Poi cominciano ad apparire altri nomi: la Costa, Mori, infine (e risolutivo) Sassoli. Bettini chiama Franceschini. “Figurati, Goffredo, risolviamo la questione”. Così la candidatura di Sassoli diventa ufficiale. “Walter non si è speso”, mormorano gli amici di Bettini. Lui richiama il successore di Veltroni: “Mando una lettera al Messaggero per dire che non mi hanno candidato”. Franceschini: “Pensaci”. Bettini: “Ci ho pensato anche troppo, ci vediamo al congresso”. E allora raccontano che ogni danno che potrà fare, Goffredo, innanzi tutto lo farà alla candidatura di Franceschini. Quando dopo le dimissioni fu scelto da Veltroni (“Voglio Franceschini ed evitiamo liti”), Bettini rispose: “Bene, ma deve dire che non si ricandida”. Secca replica di Franceschini: “A te questa risposta non la do”. Così ora c'è Marino che scalda i muscoli, l'antica dissonanza da D'Alema, la perfetta antipatia messa a punto con Franceschini. E Veltroni stesso. Perché per anni e anni, Walter e Goffredo a Roma sono stati una cosa sola, dal Campidoglio fino alla (effimera) gloria iniziale del Pd.

    Un sospiro si leva dal divano bianco: “Con Walter abbiamo sognato le cose insieme e insieme le abbiamo realizzate. Ecco, da un po' di tempo non facciamo più progetti comuni… Questo mi manca molto, ma siamo adulti e s'impara che le strade si possono anche dividere”. E se quella di Veltroni va verso Franceschini (non lui in prima persona, ma quasi tutti i suoi sì), quella di Bettini sempre e comunque contro. “Il rapporto tra noi è fortissimo, fuori discussione. Naturalmente, la sua scelta è stata una scelta che io ho subìto dolorosamente e che mi ha lasciato molto solo”. C'è molto di più – nel tono, nello sguardo – di un dissenso politico, di una simbiosi finita. Bettini ricorda i lunghi giorni in cui cercava di convincere l'allora sindaco di Roma a buttarsi nell'avventura del Pd – e un po' andava a parlare con D'Alema, un po' con Marini, parecchio con il diretto interessato. “Ho molto spinto su Walter. La mattina decisiva vado nel suo ufficio e vedo che ha davanti un foglietto diviso in due colonne: da un lato tutti i motivi per dire sì, dall'altro tutti i motivi per dire no, questo secondo lato era molto più lungo del primo. Soprattutto aveva una paura, Walter: quella di lasciare la guida della città. Gli dissi che in politica i treni passano una volta sola. Adesso ho anche qualche rimorso, se penso a come è andata…”.

    Ha gli occhi che luccicano di felicità quando ripensa al primo anno del suo Pd: “Un sogno”. Poi, un affanno nella voce quando ripensa al secondo anno, le beghe interne, i battibecchi quotidiani: “Un calvario”. Walter non lottò. “C'è un dato psicologico: lui è fortissimo nella battaglia esterna, fragilissimo e restio nella battaglia interna. Per Walter il partito è come la famiglia, e una lacerazione in famiglia per lui è una cosa faticosissima”. Così Walter scrive romanzi facendo finta di non occuparsi di politica; Goffredo scrive un libro e intanto si ributta nella battaglia. Uno solo, l'altro solo. E adesso, per la prima volta, anche dolorosamente divisi.

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