In goal we trust
L'anima di uno sport non si compra con un volto. Altidore vale Pelé. Goal. What's it? L'America sa più di quanto immaginiamo. Il calcio che non c'era ora c'è, perché una partita può togliere i pregiudizi e oscurare le dicerie. Gli Stati Uniti corrono dietro a un pallone da prendere a calci e calciano un pallone dietro il quale correre. Rotondo e non ovale, grande e non grandissimo, bianco e non marrone (nella foto, Donovan dopo la rete contro il Brasile il 28 giugno 2009).
L'anima di uno sport non si compra con un volto. Altidore vale Pelé. Goal. What's it? L'America sa più di quanto immaginiamo. Il calcio che non c'era ora c'è, perché una partita può togliere i pregiudizi e oscurare le dicerie (nella foto, Donovan dopo la rete contro il Brasile il 28 giugno 2009). Gli Stati Uniti corrono dietro a un pallone da prendere a calci e calciano un pallone dietro il quale correre. Rotondo e non ovale, grande e non grandissimo, bianco e non marrone.
Cristoforo Colombo è sceso sulle tribune e ha piantato una bandierina: la chiameremo America e giocherà a calcio. Comincia quello che non è mai cominciato: esistono gli stadi, le squadre, i calciatori, i dirigenti, le classifiche. Non le retrocessioni: non esageriamo. Forse liberalizzano i pareggi, cioè il miracolo. Perché forse il problema del calcio è stato sempre quello: far capire che una partita può finire zero a zero. Difficile. L'America non accetta e non gradisce. La cultura della vittoria comprende la sconfitta, ma non prevede il pareggio: uno o due, l'x appartiene a un'altra dimensione. Allora il calcio c'è e questo basta: sopravvive. Spera sempre: baseball, basket, football, hockey. Prima o poi ce la farà anche il soccer. David Beckham e poi qualcun altro ad alimentare l'idea che l'unico sport incapace di sfondare in Mamma America ce la possa fare: soldi, televisioni, successo, bambini che tolgono le canottiere dei Lakers e indossano le maglie dei Galaxy. Giù il tetto salariale, ingaggi liberi, dollari senza limiti. Siamo alla frontiera: l'ultima tappa verso la verità. La dogana che trasforma un clandestino in un cittadino: il pallone deve capire se un giorno potrà cantare per davvero l'inno nazionale. Il pianeta soccer vive in bilico da trent'anni, da quando a qualcuno venne in mente di esportare la democrazia pallonara negli Stati Uniti. Scelsero campi sintetici e campioni fuori tempo massimo: Franz Beckenbauer, Giorgio Chinaglia, George Best, Pelé, Johann Cruyff.
Quelle immagini fanno ridere: un'eterna dimostrazione, uno spot girato in tempo reale per convincere un paese che il calcio poteva abitare anche lì. I Cosmos erano la sconfitta del pallone: senza passione, senza voglia, senza sportività. L'America non si fece fregare: va bene lo show, ma quello era troppo, era una presa in giro. Quel fallimento è stato un disastro: ha distrutto la possibilità che il calcio entrasse nella testa delle persone. Non piaceva neppure agli immigrati che avevano sete di goal. Oggi alla frontiera del pallone c'è un calcio che assomiglia a qualcosa di reale. Non ci sono molti campioni, però c'è lo sport. Si picchia e si segna. Uno vince, l'altro perde. L'idea della Major League Soccer è strana, ma è un'idea. Niente promozioni, niente retrocessioni, in stile con le altre leghe professionistiche. Poi i migliori giovani distribuiti con la logica delle prime scelte alle squadre più deboli. Il resto è un mezzo calciomercato fatto di pochi trasferimenti e pochi affari. Allora il calcio esiste e si porta a spasso per l'America il suo piccolo codazzo di fan: ventimila spettatori per una partita sono il massimo della vita. Fanno ridere l'Europa, ma non l'America.
E' un cammino fatto a passettini, questo: si parte dalla Nazionale gestita come un club sperando nel padre eterno e in un buon risultato. E' la speranza dell'effetto patriottico che negli Stati Uniti funziona ancora. Ecco perché Altidore è meglio di Pelé e serve più di Beckham e di ogni altro campione al tramonto arrivato in passato. Jozy è il modello da imitare, perché l'America ha bisogno di un americano per esaltarsi. Lo fece con Mia Hamm e con il calcio femminile. La storia dell'America pallonara ha raccontato l'epopea delle soccer moms, le signore del pallone che accompagnavano le figlie agli allenamenti e alle partite. Tutto quello che non avevano mai capito i maschi lo compresero le donne una decina di anni fa: il calcio femminile è stata la cosa più seria capitata al pallone americano. Soldi, fama e un movimento fatto di quattro milioni di ragazzine praticanti. Lì l'errore è stato l'eccesso: troppo presto, troppo tutto. La bulimia ha fregato il soccer rosa, distrutto dalla rivalità tra le giocatrici, il campionato ricoperto d'oro senza la certezza che alla tv ci fosse un mercato certo. Gli ingaggi miliardari della Hamm, di Brandi Chastain e delle altre campionesse, hanno distrutto il giocattolo, fatto fallire la lega professionistica e fatto chiudere il campionato.
Gli uomini hanno avuto il problema opposto. Senza una Nazionale competitiva, la Major League è rimasta confinata nel suo piccolo mondo. Negli Stati Uniti funziona ogni volta nella stessa maniera. Ci sono due strade: o vince l'America, oppure bisogna poter dire che il campionato statunitense vale il titolo di campioni del mondo. Allora il campionato Nba non ha rivali anche se la nazionale poi va al mondiale ed esce in semifinale; il torneo di baseball è l'evento più seguito anche se l'America poi perde la Coppa del mondo in casa col Venezuela di Chavez o con la Cuba di Castro. L'America ha bisogno di essere la numero uno. Il calcio non gli ha mai dato la soddisfazione. E il paese l'ha snobbato, sempre. Non è servita neanche la seconda ondata di campioni in declino. Nel 1996, quando nacque il campionato professionistico, arrivarono gli ex fuoriclasse: Walter Zenga, Roberto Donadoni, Carlos Valderrama, Lothar Matthäus.
Quella lega nasceva con i soldi avanzati da Usa ‘94, il mondiale che doveva fare da catapulta per il soccer. I quattrini erano abbastanza per tirare qualche anno. Avevano capito che serviva qualcosa di diverso, però. L'ossessione dello zero a zero. Chiesero alla Fifa l'autorizzazione a fare qualche piccolo cambiamento alle regole: il fallo laterale da battere anche con i piedi, l'ampliamento delle porte in larghezza e in altezza e l'abolizione del fuorigioco negli ultimi trenta metri. Blatter era il principale sponsor del pallone a stelle e strisce, però concesse solo una deroga: i rigori in caso di pareggio. Nacquero gli shoot-out, i penalty con la palla in movimento: l'attaccante parte da trequarti campo e ha cinque secondi per calciare. Il portiere può anche uscire. Undici anni dopo, il campionato resiste e gli shoot-out non ci sono già più: dal 2000 si gioca con le regole di tutti gli altri. Beckham ha dato qualcosa, ma non abbastanza. Non ce l'ha fatta neanche Freddy Adu che a 16 anni era la speranza del pallone americano: la Nike ha investito su di lui quanto aveva investito alla stessa età su Michael Jordan. Freddy è stato il primo muro a crollare, è stato il ragazzo prodigio che ha permesso a quelli come Altidore di esserci. Adu è stato uno scricciolo, il punto di riferimento di una minoranza, quella che ha capito che il pallone da calciare con i piedi non è insulto, ma uno sport. I fortunati veri sono altri: LeBron James, per esempio. Mica Freddy. Lui è ancora in un limbo, in una terra di mezzo dove si vede la luce della fama, ma ci si pulisce ancora le scarpe da soli. Anche se c'è fango. Adu è l'erede di una donna, il successore in linea dinastica di Mia Hamm. Sempre loro, le donne. E con loro, sempre le soccer moms. Quelle alle quali un giorno si appellò persino l'ex presidente Bill Clinton in crisi dopo il sexgate.
Era il giorno della finale dei mondiali del 1999. Si giocava nel Rose Bowl di Pasadena, in California. Mister President era in tribuna, accanto a Hillary, con lo sguardo dell'uomo dispiaciuto di aver ferito l'amore delle signore d'America. Quattro anni prima per la Coppa del mondo degli uomini allo stadio non c'era mai andato. Eppure quello era un evento: la prima volta del soccer globale in terra nordamericana, un affare da un miliardo di dollari. Per le donne la quota era appena di trenta milioni. E però c'erano gli stadi pieni di assatanate ultrà, che avevano appena preso confidenza con la novità e però vedevano già le figlie dieci anni dopo sullo stesso prato a imitare Mia e le altre, a mettere sotto persino un'icona nazionale come Michael Jordan e magari finalmente a guadagnare più di lui. E allora Clinton era lì a fare il tifo per l'America, anche se fondamentalmente non è che ci capisse un granché. Ma vuoi mettere la vittoria, vuoi mettere tutte quelle donne elettrici deluse dalla vicenda Monica, vuoi mettere l'entusiasmo e la possibilità di cercare una riabilitazione: “E' stata una partita fantastica, una vittoria storica. Sono orgoglioso del successo delle nostre ragazze e della riuscita del Mondiale. E' bello vedere che le donne americane abbiano potuto esultare. Sono il futuro di questo paese”. Un futuro così possibile che a un certo punto la Gatorade si inventò una pubblicità unica. La Hamm metteva al tappeto Michael Jordan. Mia e Mike si sfidavano prima a basket, poi a calcio, poi a tennis, poi a scherma e poi a judo. Alla fine vinceva lei: “Tutto quello che fai tu lo so fare anch'io”.
Oggi le ragazze si sono mangiate quel futuro. Tocca ai maschi, stavolta. Tocca perché forse la maturazione è arrivata e la storia della Confederations Cup può dare l'ultimo slancio. Non dev'essere per forza lo sport numero uno. Basta solo che sia considerato uno sport vero. Le facce non contano poi tanto, allora. Quest'anno sembra che nessuno voglia comprare un nome, un titolo, un ideale: è sufficiente Beckham e poi tutta la marmaglia comune e anche mediocre. Per qualcuno non serve neanche David. L'ha detto Landon Donovan, il capitano della nazionale e dei Galaxy: “Mi sembra uno che si è solo solo approfittato dei Los Angeles Galaxy e non ha mantenuto i suoi impegni”. Il gusto della polemica forse è la chiave per capire che il calcio americano ha un'identità autonoma che noi non conoscevamo. Donovan non critica solo Beckham, ma anche i suoi dirigenti come Alexi Lalas. E' lui l'uomo che ha aspettato Beckham per dare al calcio degli Stati Uniti un'altra chance. S'incazza quando lo provocano: “E' un insulto dire che Beckham è venuto negli Usa per fare l'attore o per la sua vita fuori dal campo. E' venuto perché questo campionato sta crescendo ed è uno dei migliori del mondo”. Mente sapendo di mentire, Alexi. E però non riesce a fare diversamente: Lalas s'è fissato con l'idea che lui debba essere la salvezza dell'America. Qui è rimasto davvero quello che era quando i capelli gli scendevano lungo il collo e quando qualcuno lo paragonò a Forrest Gump. Perché cominciò a correre con un pallone tra i piedi e a gruppi gli andarono dietro attraverso l'America: pochi, poi qualcuno in più, poi altri ancora. “Per voi italiani ero solo uno stopper con la chitarra, vi siete fermati al folclore, peccato perché io ero un atleta, forse un campione. Se nel Michigan sanno dov'è Padova, guardate che il merito è mio”. Con Lalas gli Stati Uniti allora provarono a capire il pallone.
Quinto sport nazionale, il soccer. Clandestino, snobbato, a volte umiliato. E però sempre un pelo in crescita definitiva. L'ultimo ostacolo, l'orizzonte a Ovest, in un paese dove oggi cresce il Lacrosse che è un incrocio tra hockey, pallamano e calcio. Non ha il pareggio. Sempre la stessa storia. Alexi, però, ha spiegato nelle interviste, negli spot, da David Letterman e da Jay Leno: “Nello sport è bello anche quando non vince nessuno, quando due squadre si equivalgono e finisce in parità”. Lalas ha fatto il pioniere romantico, il cowboy in testa alla carovana dei pellegrini. S'è pure vestito da generale Custer in uno spot: andiamo a prenderci il nostro West. E il soccer ha piantato bandierine in giro per l'America, fino a diventare quello che è oggi: un campionato che va avanti senza problemi economici e con la spinta dei Latinos che crescono e si portano dietro i ricordi dei padri e dei nonni innamorati della palla da prendere a calci. Viva il calcio.
A dispetto di quello che immaginiamo nella nostra mentalità europeocentrica e convinti che in fondo quei barbari degli americani almeno nel calcio non potranno mai batterci. Il soccer, invece, resiste. Stretto e piccolo, in un mondo di giganti: sport di nicchia che di nicchia non è, se Franklin Foer, direttore del New Republic, giura al mondo che non è vero affatto, che la crescita c'è eccome, si vede nei parchi, negli stadi, nelle tv, su Internet. E' arrivato anche un derby: Los Angeles ha due squadre, i Galaxy e i Chivas. Una Wasp, l'altra messicana e trapiantata in California. Il soccer forse ha trovato la strada lungo la frontiera: guarda a Est, Ovest, a Nord e soprattutto al Sud. I latinos sono la massa che mancava. Loro capiscono che una partita può finire zero a zero. Sono giovani: l'età media è di 27 anni, contro i 40 dei bianchi. Detestano il football e la pallacanestro. Amano il calcio e non lo chiamano soccer. Cercano l'Eldorado. Il nuovo sogno americano ha le loro facce e può giocare con una palla in mezzo ai piedi. Vede i Mondiali, quelli del 2018 o del 2022.
Li vede di nuovo in casa, come fu nel 1994. Obama è lo sponsor con il benestare di Joseph Blatter che 15 anni fa era convinto di poter sfondare col pallone rotondo e far fare al calcio gli stessi milioni che macinano football e baseball e basket. Fallì e però non ha smesso di crederci. La Confederations Cup l'ha riportato al pensiero iniziale. L'ha letto pure lui il New York Times del giorno dopo la vittoria degli Usa con la Spagna. Prima pagina: “Il miglior risultato di sempre nella storia del calcio americano”. Paragoni. Il più frequente quello con la vittoria del 1980 contro l'Unione Sovietica nel girone di finale del torneo olimpico di hockey su ghiaccio. L'America piena di giovani universitari e dilettanti vinse contro l'Armata Rossa. Il miracolo sul ghiaccio, dissero allora e trasformarono quella partita in un film di successo. Ecco, il New York Times, ma anche Usa Today e tutti gli altri quotidiani americani adesso parlano del “miracolo sull'erba”. Non c'è confronto, ovviamente. La vittoria del 1980 era impregnata di patriottismo da Guerra fredda, il sentimento collettivo suscitato da quella partita poco aveva a che fare con l'hockey, e molto con la politica. L'emozione suscitata dal 2-0 sulla Spagna e' invece per l'America qualcosa di inedito, come se per la prima volta l'America scoprisse davvero cosa significa il tifo nel calcio. E' una corda, un'altra. Suona e se non smette forse può permettere all'America di arrivare da qualche parte. Dove non si può dire. Però si comincia con una foto di Jozi Altidore sui giornali e poi su internet e poi sulla copertina di un videogame. E' un inizio: Tiger Woods ha cominciato così. LeBron James anche. Michael Phelps pure. Il calcio parte svantaggiato, però può solo guadagnarci. E non ha l'obbligo di arrivare primo.
Il Foglio sportivo - in corpore sano