Diana Ross lanciò Michael, che sia lei a custodirne il futuro

Perché i figli di Jacko appartengono alla dea nera che gli è stata sorella

Nicoletta Tiliacos

C'è un filmato del 1969 che spiega meglio di tante parole perché Michael Jackson, nel suo testamento, abbia affidato i tre figli a Diana Ross, il giorno in cui la loro nonna Katherine, madre del cantante, “per decesso o impedimento” non potesse più pensarci.

    C'è un filmato del 1969 che spiega meglio di tante parole perché Michael Jackson, nel suo testamento, abbia affidato i tre figli a Diana Ross, il giorno in cui la loro nonna Katherine, madre del cantante, “per decesso o impedimento” non potesse più pensarci. In quel filmato, lei ha venticinque anni ed è già la stella più brillante della Motown, la prima e inconfondibile voce delle Supremes. Dopo l'immenso successo con il suo gruppo – secondo, subito dopo i Beatles, come vendite discografiche di tutti i tempi – Diana Ross (nata Diane Earle Ross a Detroit nel 1944) sta meditando di abbandonarlo per diventare la solista popolare e sofisticata che ancora oggi conosciamo. L'artista femminile del secolo, secondo Billboard, “una delle maggiori risorse naturali dell'America”, come si dirà di lei.

    Lei, infatti, ha tutto quel che serve: voce, presenza, classe, grinta. La vediamo padrona di casa nello show del sabato sera della Abc, “Hollywood Palace”. Sovrastata dalla cotonatura d'ordinanza nei Sixties, il minivestito luccicante che scopre gambe esili, le mani in tasca, si china su Michael, che non le arriva alla spalla, per dirgli qualcosa di incomprensibile. Lui di anni ne ha appena undici ma canta da sei, insieme con i quattro fratelli. E' il bambino prodigio dei Jackson Five, per niente intimidito da quella che sembra una sorella maggiore, più che una madre. La Fata turchina di Detroit che alla fine di tutto, dopo quarant'anni di sodalizio e amicizia, non riuscirà a salvare – ma nessuno ci poteva riuscire – quel burattino che aveva voglia, al contrario di Pinocchio, di smettere di essere umano. Lei è tuttora uno dei rari miti del pop capace di governare la propria vita aggirando tragedie, devianze, catastrofi e tracolli, tanto fatali quanto decorativi nel mondo del divismo assoluto al quale Diana Ross appartiene di diritto, dall'epoca in cui cantava “Baby love” con voce da soprano lirico temperata dal soul. Unica vera disavventura in linea con gli stereotipi rockettari, due giorni in guardina per guida in stato d'ebbrezza in Arizona. In fondo c'è di peggio.

    Fragile e nevrotico lui, determinata e solida lei, Diana e Michael sono stati accomunati dal bisogno di essere i primi. Fu lei, nel 1969, a mettere il suo marchio come viatico per il disco d'esordio dei cinque fratelli Jackson (“Diana Ross presents the Jackson 5”, etichetta Motown). Ancora lei, nel 1978, vorrà Michael per la parte dello spaventapasseri nel remake nero del “Mago di Oz” diretto da Sidney Lumet (“The Wiz”), nel quale Diana interpreta Dorothy, ruolo che era stato di Judy Garland nel film di quarant'anni prima. Poi, con il tempo, Diana Ross sarà sempre meno prigioniera delle forme stilizzate che l'avevano caratterizzata all'inizio, quando cantava “Where did our love go” con le Supremes – eyeliner drammatico, capelli liscissimi, gonfi, paralizzati dalla lacca, abiti geometrici sul corpo gracile – per diventare sempre più Fata turchina: morbida, luccicante, femminile, vaporosa, i capelli africanamente lasciati crespi. Negli stessi anni, in Michael Jackson avverrà la trasformazione inversa. Sempre più artefatto e incorporeo, si avvierà verso una bidimensionalità da fumetto: asessuato, sbiancato, scheletrico, prosciugato.

    In questo movimento simmetrico e contrastante, i due continuavano tuttavia – o forse proprio per questo – a specchiarsi l'uno nell'altra. Anche a cantare insieme, finché lui c'è riuscito. Si è favoleggiato di un amore impossibile di Michael per Diana, che non lo avrebbe voluto per via della differenza d'età, ma probabilmente sono storielle. Lui non aveva bisogno di un amore ma di incantamenti, di modelli da adorare, e Diana Ross, come Liz Taylor, era perfetta per questo scopo. La regina della Motown la cui effigie è finita sulle banconote da un dollaro, arrivata a un passo dall'Oscar come migliore attrice per la sua interpretazione di Billie Holiday in “Lady sings the blues” (nel 1972, quando vinse Liza Minnelli con “Cabaret”), ha invece avuto veri amori e cinque figli da due diversi matrimoni, entrambi finiti con il divorzio. Il primo con il produttore musicale Robert Silberstein, all'inizio degli anni Settanta, il secondo con il miliardario norvegese Arne Naess nel 1986 (morto nel 2004 durante una scalata sui monti Franschoek, in Sudafrica).

    Ieri l'ex moglie di Jacko, Debbie Rowe, ha annunciato che intende battersi per ottenere la custodia dei bambini che portano il cognome di Jackson, e che in queste ore sembrano davvero i figli di nessuno. Ma noi facciamo il tifo per Diana Ross. In grado di insegnare maternamente e divinamente la lezione che le Supremes cantavano nel 1966 in “You can't hurry love”: “Ho bisogno d'amore, ma mamma dice di non mettergli fretta, bisogna aspettare, non succede facilmente che arrivi qualcosa di speciale. Arriverai alla verità, dice la mamma, dagli tempo”.