Boicottaggio a mezzo libertà di stampa

Giulio Meotti

Ha scritto Alan Dershowitz, il grande avvocato che rivendica da sinistra la solidarietà con Israele, che “la battaglia contro il boicottaggio è l'aspetto più urgente della guerra contemporanea contro l'antisemitismo”. La decisione della Federazione internazionale dei giornalisti di espellere i colleghi israeliani è il culmine di una campagna ideologica che va avanti da cinque anni.

    Ha scritto Alan Dershowitz, il grande avvocato che rivendica da sinistra la solidarietà con Israele, che “la battaglia contro il boicottaggio è l'aspetto più urgente della guerra contemporanea contro l'antisemitismo”. La decisione della Federazione internazionale dei giornalisti di espellere i colleghi israeliani è il culmine di una campagna ideologica che va avanti da cinque anni. Triste sincronia, l'espulsione arrivava mentre il direttore d'orchestra israeliano Daniel Barenboim e il cantante canadese Leonard Cohen, impegnati per la pace, dovevano cancellare i concerti a Ramallah dopo che i palestinesi ne avevano chiesto il boicottaggio.  Intanto un grande giornale europeo di sinistra, El País, pubblicava indisturbato una vignetta di Romeu. “Come fa Israele a violare nella totale impunità ogni legge umana e internazionale?”, chiede una donna. Risponde un ebreo ortodosso con il nasone: “Ci costa molti soldi”.
    La Federazione non sollevò un sopracciglio quando la National Union of Journalists, il potente sindacato britannico, boicottò Israele nell'aprile di due anni fa con questa rivendicazione: “Lavoriamo con i palestinesi attraverso la Federazione internazionale dei giornalisti e il boicottaggio è un'azione di sostegno al popolo palestinese”.

    Dalla Federazione non ci fu condanna dell'odioso paragone fra Israele e il Sudafrica dell'apartheid. Dissero che non era la loro posizione ufficiale. Fu la luce verde a una parte dei suoi iscritti (35 mila) per il boicottaggio. L'attuale presidente della Federazione, Jim Boumelha, è iscritto allo stesso sindacato inglese. Mentre si bandiva Israele, i giornalisti che provenivano da regimi dove si praticano massicci crimini contro i diritti umani venivano accolti nella Federazione. Sul sito della stessa, alla voce “medio oriente” e già prima dell'espulsione, non compariva Israele (mentre appare la Palestina, e con Gerusalemme per capitale).
    Lo scontro fra la Federazione e Israele risale a un'epocale sentenza del Consiglio di stato francese, che ha ordinato l'oscuramento di al Manar, l'emittente di Hezbollah che chiama Israele “ascesso purulento da estirpare”. Proteggendola in nome di una dolciastra “libertà di stampa” mentre tutta Europa stava per bandirla, la Federazione si è resa connivente di al Manar.
    In uno dei suoi video più popolari c'è un professore dall'aria simpatica che insegna alla classe questo ritornello: “Sion, la peccatrice, sarà sterminata”.

    I telegiornali, le interviste e i videoclip di al Manar avevano suscitato un'ondata d'indignazione in Francia per il contenuto antisemita e l'esaltazione dei kamikaze palestinesi, tanto che l'allora primo ministro, Jean Pierre Raffarin, parlò di “messa in scena dell'odio”. La messa al bando di al Manar nell'autunno del 2004 fu una decisione storica, sulla linea della decisione presa a Norimberga di processare la propaganda della Germania nazista elevando l'incitamento all'odio a crimine contro l'umanità. In nome dello stesso principio nel 1999, durante la guerra in Kosovo, gli aerei della Nato bombardarono la tv serba di Slobodan Milosevic che chiamava alle armi contro i musulmani del Kosovo. L'occidente avrebbe perseguito i discorsi che inneggiano alla violenza giudicandoli alla stregua di crimini di guerra anche nei processi della Corte internazionale in Tanzania, quando tre giornalisti ruandesi vennero condannati per aver gestito una radio e pubblicato un giornale che inneggiavano allo sterminio dei Tutsi. Anche il giornalista italobelga Giorgio Ruggiu fu condannato. Dalle onde di Radio Mille Colline lanciava appelli agli Hutu perché trucidassero quanti più Tutsi possibile: “Che aspettate? Le tombe sono vuote”.

    Commentando la sentenza francese, Reed Brody, il consigliere legale di Human Rights Watch, ebbe a dire: “Se uno soffia sul fuoco, deve affrontare le conseguenze”. Un sindacato internazionale dell'informazione libero e votato ai principi democratici, come dice di essere la Federazione internazionale dei giornalisti che ha espulso gli israeliani, avrebbe dovuto salutare la decisione del Consiglio di stato come un fondamentale punto di non ritorno per chi avesse deciso di propalare impunemente odio sui giornali, sull'etere e sul satellite. Invece la Federazione commentò così la sentenza il 15 dicembre 2004: “A rash decision with serious implications for free expression”. Tradotto: “Una sconsiderata decisione con gravi implicazioni per la libertà d'espressione”. Il segretario generale dell'Ifj, Aidan White, che ieri ha duramente attaccato il Foglio per l'articolo in cui denunciavamo l'espulsione di Israele dalla Federazione, disse che “la censura non fa che aggiungere intolleranza e alimentare ulteriore risentimento e incomprensione”. White commentò anche che “si tratta di provvedimenti sproporzionati e inadeguati, che non aiuteranno a superare le distanze che dividono ancora i media arabi dal mondo occidentale”. Non una parola per l'incredibile propaganda antisemita rovesciata da al Manar.
    Subito dopo la lettera firmata nel 2006 dalla maggioranza del Senato americano, tra cui Barack Obama e Hillary Clinton, e diretta all'allora presidente George W. Bush, il dipartimento del Tesoro bollò al Manar come un'entità “Specially designated global terrorist”. Per la prima volta uno strumento mediatico finiva nella stessa lista di cui fanno parte al Qaida, Hamas e Hezbollah, i principali fattori di morte nel mondo. Quel riconoscimento mise in evidenza il ruolo di al Manar come qualcosa di più che una mera emittente tv dai contenuti discutibili.

    La tv di Hezbollah era coinvolta nel reclutamento e nella raccolta di fondi per il gruppo islamista. Il sottosegretario Usa al Tesoro, Stuart Levey, osservò che al Manar è una “entità mantenuta da un gruppo terroristico”, è quindi “colpevole così come quello stesso gruppo terroristico”. I giornalisti di al Manar sono presi dai ranghi armati della milizia libanese, in molti casi partecipano a operazioni di guerriglia contro la vecchia “Fascia di sicurezza” israeliana nel Libano meridionale (poi smantellata nel 2000). Dall'estate 2003, al Manar diventa portavoce della guerriglia in Iraq, mentre saltavano in aria centinaia di cittadini musulmani, le sedi delle Nazioni Unite e della Croce rossa.
    Non fu un'isolata decisione americana. Anche l'Europa avrebbe adottato numerose misure contro al Manar. L'Unione europea e i governi di Francia, Spagna e Olanda indicarono che al Manar aveva violato la normativa che proibisce di incitare all'odio in tv. La decisione incoraggiò i provider satellitari europei, come Eutelsat, Globecast, Hispasat e New Skies Satellite, a far cessare la trasmissione della tv di Hezbollah. Lo scorso dicembre anche la Germania ha messo al bando al Manar. Secondo il ministro degli Interni tedesco, Wolfgang Schäuble, “le attività di al Manar mirano a difendere, sostenere e promuovere l'uso della violenza come mezzo per raggiungere obiettivi politici e religiosi”.
    Si replica nell'estate del 2006, durante la guerra fra Israele ed Hezbollah. Non appena iniziò la guerra, gli aerei israeliani presero di mira al Manar, che diffondeva i proclami antisemiti del leader di Hezbollah Nasrallah. “Una chiara dimostrazione di come Israele utilizzi la politica della violenza per mettere a tacere i media dissidenti”, fu il commento lapidario di Aidan White e della Federazione internazionale dei giornalisti.

    I giornalisti israeliani si dimisero in segno di protesta: “Non ho intenzione di far parte di un'organizzazione disposta a tesserare militanti di Hezbollah”, disse uno dei reporter, Yaron Enosh. “Un terrorista non è un giornalista e se un'organizzazione internazionale preferisce averne tra le sue fila allora noi ce ne tiriamo fuori”.
    La Federazione scelse di schierarsi per partito preso con al Manar. Anche Khaled Fouad Allam, islamologo e deputato della Margherita, disse che “al Manar non è una televisione indipendente ma di propaganda di un partito, di una milizia islamica e in tempi di guerra è normale che venga distrutta”. Non la pensava così White: “L'attacco fa parte di un piano, quello di centrare i media, e ciò minaccia le vite di giornalisti e operatori, viola le leggi internazionali. E' una strategia che significa catastrofe per la libertà di stampa e non dovrebbe mai essere appoggiata da uno stato che si dice democratico”. Parole non certamente amiche di Israele. Quando i giornalisti di Gerusalemme chiesero a White di ritrattare la condanna, il segretario della Federazione condannò nuovamente Israele per gli attacchi alla stampa, senza fare alcun accenno ai tentativi di omicidio di giornalisti israeliani da parte dei sicari di Hezbollah. Al Manar aveva appena ospitato una coproduzione siriano-palestinese dedicata a Yehie Ayyash, il famoso “ingegnere” responsabile della serie di spaventosi attacchi terroristici che a Tel Aviv e a Gerusalemme, fra il 1994 e il 1966, uccisero più di cento innocenti. Ayyash usava il perossido di acetone, l'esplosivo conosciuto come “Madre di Satana”. Così dilaniava donne, vecchi e bambini ebrei.

    Il portavoce del dipartimento di stato americano, Adam Ereli, ha commentato così la messa al bando di al Manar: “Un tale velenoso antisemitismo non deve avere alcun posto nel mondo civilizzato”. Oggi la Federazione internazionale dei giornalisti, se vuole tener fede ai suoi nobili principi, deve fare i conti con questa pioggia acida con cui è compromessa da troppo tempo, un movimento culturale razzista contrario a ogni libero scambio di informazioni e di idee, che chiude la bocca a Israele e che espelle fisicamente le persone che la rappresentano e che fa da copertura a un ricco antisemitismo islamista che rende la prospettiva di annichilire gli ebrei realistica, viva. Come ha detto l'ex refusnik sovietico Natan Sharansky, nel chiedere ai ministri europei di oscurare al Manar, “quando milioni di arabi e musulmani nel medio oriente e in Europa vengono preparati con questo tipo di propaganda dell'odio, non meraviglia che alcuni di loro attacchino e uccidano gli ebrei nelle sinagoghe durante lo shabbat. L'antisemitismo uccide e chi non lo combatte attivamente è suo complice”.

    Mentre la Federazione dei giornalisti era impegnata a Oslo nell'espulsione degli israeliani, i giornalisti della tv di Hamas, al Aqsa tv, difesa dalla stessa Federazione quando Israele ne bombardò le infrastrutture a gennaio nonostante i suoi giornalisti fossero miliziani armati di Hamas, erano impegnati a produrre uno dei loro cartoni animati. Si vede il caporale israeliano Gilad Shalit incatenato, in ebraico implora la madre, “ima”, “ima”. Un bambino palestinese gli domanda perché lo stato d'Israele sia insensibile alle sue sofferenze. Il caporale risponde: “Chi ha detto che Israele è uno stato? Ciascuno di noi è venuto da un paese diverso, dalla Gran Bretagna, dall'Italia, dall'America, dalla Francia”. Il bambino gli chiede cosa farebbe se venisse liberato. Shalit risponde che andrebbe a vivere in Francia o in Italia. Inutile cercare sul sito della Federazione internazionale o della Fnsi di Paolo Serventi Longhi una condanna di questo tipo di giornalismo. Sarebbe stato un bel gesto, visto che Gilad Shalit è cittadino onorario di Roma.

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    • Giulio Meotti
    • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.