Diario di Pace
Tutti muti nel Partito democratico
Ho come l'impressione che l'enciclica papale un primo risultato, collaterale e assolutamente non voluto, ma non per questo meno perfido, l'abbia già ottenuto: avere rimesso in braghe di tela e tubini neri i candidati alla segreteria del Partito democratico e i loro mentori.
Ho come l'impressione che l'enciclica papale un primo risultato, collaterale e assolutamente non voluto, ma non per questo meno perfido, l'abbia già ottenuto: avere rimesso in braghe di tela e tubini neri i candidati alla segreteria del Partito democratico e i loro mentori, che anziché esprimersi nel merito della “Caritas in veritate” si comportano come quegli studenti secchioni ma limitati che alla vigilia dell'esame di maturità, interrogati fuori dal seminato, si smarriscono e prendono quella certa espressione vagamente bovina.
E' vero che nulla è più stressante e auto-referenziale di un congresso, è vero che per una parte del Pd la chiesa oggi è una legnosa, scomoda controparte più che fonte d'ispirazione. Ciò non di meno questa reazione di imbarazzata afasia è quanto meno singolare. Muti i candidati, muti i leader, mute le decine di fondazioni e associazioni amiche, muti anche iscritti e simpatizzanti, nelle migliaia di circoli in arme e persino in rete dove pure di solito si spandono con esuberante prolissità. Per un partito che rifiuta di trasformarsi in partito di patronato, in macchina che seleziona i migliori candidati alle varie cariche pubbliche e si ostina invece a mantenere “una certa intuizione del mondo”, una situazione così non è solo grave, è anche seria.
Quando la sinistra era fatta di socialisti e comunisti, di donne e uomini tosti, vogliosi di teoria e testardi nella dottrina anche quando palesemente fallaci, di encicliche papali si discuteva. Certamente più che delle considerazioni finali della relazione del governatore della Banca d'Italia.
Lo si faceva perché almeno dal Concilio Vaticano II sembrava naturale a chi voleva cambiare la società, il mondo, essere attenti alle parole del capo della cristianità pronunciate e presentate in modo solenne, dopo una lunga gestazione. Lo si faceva perché stimolavano una salutare critica e magari si sperava di poterle meglio controbattere. E perché ci si rendeva conto dei tanti spunti offerti da una visione del mondo strana proprio per essere alta e terrena, particolare e universale. Si discuteva dunque con piacere, tra scazzi e nuvole di fumo, ma sempre con rispetto perché la vecchia solfa del compagno Stalin, “il Papa, quante divisioni?”, era per il comune sentire di credenti e atei non solo volgare ma anche una colossale sciocchezza. Oggi la sinistra non c'è più. Al suo posto c'è l'incompiuta di due che faticano a creare il terzo da sé, un gruppo dirigente che arranca e per tirarsi d'impaccio s'inventa il passe-partout dei socialisti e dei democratici europei, un corpaccio che non sta tanto bene e avrebbe più che mai bisogno di darsi un semplice principio di vita, un embrione di teoria.
Papa Ratzinger parla del nostro tempo, della crisi, della ricchezza e della giustizia, dell'uomo che lavora, produce, crea, scambia, accoglie, procrea, educa, può e deve sentirsi solidale, dell'uomo che coltiva nella mens eugenetica i germi della distruzione di sé. Parla di vita e di politica nel senso più pieno. Per dirla con il brutto neologismo coniato da intellettuali guarda caso di sinistra, parla di bio-politica. Si può capire che la stupefacente esperienza del dono, la caritas insomma, susciti una certa diffidenza ma la veritas, ne vogliamo parlare?
Da più di trenta anni, avi ed eredi delle culture in un modo o in un altro ascrivibili alla sinistra cercano strade che non trovano e se trovano un sentiero lo scoprono con un treno di ritardo. Archiviata l'analisi della crisi come momento della rottura e della fuoruscita possibile del sistema capitalistico, sono stati keynesiani di un keynesismo addomesticato e distorto quando la crisi fiscale costringeva gli stati a spendere meno per poter ridurre la pressione fiscale, hanno difeso la fabbrica come fonte inesauribile e inviolabile dei diritti del lavoro, quando la stessa si stava disarticolando in mille pezzi, hanno individuato come centrale il passaggio “da sfruttati a produttori” quando la produzione si de-localizzava, si inabissava in circuiti sotterranei creando il terreno di coltura per il popolo delle partite iva. Poi al centro della riflessione e dell'azione, hanno messo il passaggio dal produttore al consumatore, cinquanta anni dopo Ralph Nadar ma tardi è senz'altro meglio che mai. Hanno difeso il settore pubblico quando bisognava liberalizzare e privatizzare, hanno privatizzato senza liberalizzare, si sono messi all'ora della deregulation invero molto timida quando sarebbe stato utile semmai un dirigismo più grintoso.
Hanno parlato di terza via quando ne era rimasta una sola e le altre erano già morte. Dalla caduta del Muro in poi, sono sistematicamente sulla difensiva, non agiscono, non prendono iniziative, si limitano a reagire. Senza neanche accorgersene sono al traino di quanto avviene nei paesi anglosassoni, gli unici oggi che sappiano ancora produrre teoria politica, nel bene e nel male.
Per carità, tanto agitarsi così “so vain” va lodato comunque: è segno di vitalità, di voglia di movimento. E allora per sudare di meno e trovare magari uno spuntino utile, una sbirciata alla “Caritas in veritate”, proprio no?
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