La campagna intontita

Marina Valensise

Butteri, cinghiali, maremma maiala, molto mare, lunghe spiagge deserte, grandi spazi a cielo aperto, biondi campi di grano, colline di lecci e querceti a vista d'occhio, sciami di zanzare, i 25 casali della SACRA (Società Anonima Capalbio Redenta Agricola) immersi nel verde intorno alla laguna di Burano, e quel paesino aggrappato su una montagnola come un presepe medievale. Capalbio è tutto questo o perlomeno è stato tutto questo.

    Butteri, cinghiali, maremma maiala, molto mare, lunghe spiagge deserte, grandi spazi a cielo aperto, biondi campi di grano, colline di lecci e querceti a vista d'occhio, sciami di zanzare, i 25 casali della SACRA (Società Anonima Capalbio Redenta Agricola) immersi nel verde intorno alla laguna di Burano, e quel paesino aggrappato su una montagnola come un presepe medievale. Capalbio è tutto questo o perlomeno è stato tutto questo. Un'immensa campagna intontita, teatro di un'avventura mentale di libertà assoluta fatta però di intimità e sicurezza; il laboratorio sociale di un conformismo non conforme che per alcuni lustri ha unito nello stesso spazio, chiudendoli entro lo stesso orizzonte, intellettuali e ricchi borghesi, comunisti romani e nouveaux riches milanesi, radical chic ed esteti tenaci, tutti assorti nello stesso ossequio al gusto anni Settanta dell'estate in libertà, della vacanza selvaggia, elegantemente rozza, scomoda, salsicciosa, ma divertente da pazzi, con ore e ore passate indolenti sulla spiaggia di Chiarone, a ciacolare fra eletti sulla striscia di Macchiatonda, che ogni anno diventa più striminzita, fra lunghe cavalcate nei boschi della Sgrilla, sfide culinarie a base di zuppa di pesce, scorfano all'acqua pazza, pesce al forno in salmoriglio – esemplare la ricetta di Achille Occhetto, l'ultimo segretario del Pci artefice della svolta della Bolognina: scaldare l'olio a bagnomaria, lasciarlo intiepidire, aggiungere il succo di due limoni più prezzemolo, aglio, origano, sale e pepe e volendo rosmarino – grandi cene culminanti in estemporanee battaglie di bucce d'anguria, o in scaramucce a colpi di misticanza in testa, con finale dionisiaco di danze improbabili fra ballerini filosofici come Giacomo Marramao e Gabriella Bonacchi, liberalcomunisti come Claudio Petruccioli e Giovanna Nuvoletti, o archetipici come Elena e Philippe Daverio, o esibizionisti come Achille Occhetto e Aureliana Alberici, immortalati da Elisabetta Catalano nel loro bacio bucolico per una copertina del Venerdì di Repubblica 21 anni fa.

    I capalbiesi doc e non doc, di antica genìa come Maria Cattaneo e Stella Leonetti, di antichissimo lignaggio come i Caracciolo e la loro erede, Jacaranda Falk Borghese, di genia meno antica ma più costruttiva come Marisa Garito e Claudio Pancheri, genitori della nostra Giovanna, di natali incerti ma sicura fama come Alberto Asor Rosa e mille altri, possono finalmente leggere il loro Bildungsroman, “L'era del cinghiale rosso” (Fazi editore). L'ha scritto in stile epico e radicalchiccherrimo, usando il semplice artificio della confessione in prima persona di Libera, un'adolescente stronza, Giovanna Nuvoletti, che Capalbio e i capalbiesi li conosce come le sue tasche e dopo avere contribuito in prima persona a edificarne il mito, si è divertita a smitizzarli e sbeffeggiarli, raccontandone come un'etologa i vezzi da poveri snob, i lazzi becero-oriented, e l'allegria malinconica del loro strenuo tentativo di resistere alle masse danarose e rumorose di turisti e gitanti.