E' il 24 luglio
Oggi è il 24 luglio. Domani non sarà un Venticinque luglio. L'assalto svolto per settimane con alla testa la Repubblica (che eroicamente continua) e l'impero mediatico di Rupert Murdoch, non ha minato “sensibilmente” il peso politico di Silvio Berlusconi: se ne è rallentato lo slancio, se ne è logorata l'immagine, si sono aperte contraddizioni. Ma niente ko.
Oggi è il 24 luglio. Domani non sarà un Venticinque luglio. L'assalto svolto per settimane con alla testa la Repubblica (che eroicamente continua) e l'impero mediatico di Rupert Murdoch, non ha minato “sensibilmente” il peso politico di Silvio Berlusconi: se ne è rallentato lo slancio, se ne è logorata l'immagine, si sono aperte contraddizioni. Ma niente ko.
Alcuni osservatori, tra questi l'intelligente Stefano Folli (che insiste un po' ossessivamente sull'argomento), hanno deciso che un risultato la campagna l'ha portato: ha tolto Berlusconi dalla corsa per il Quirinale. Mettersi a profetizzare quel che avverrà tra quattro anni è azzardato. E' evidente che in certi ambienti, innanzi tutto della magistratura e dei mondi “laici” collegati, la scelta del presidente della Repubblica appare fondamentale. Ed è da tempo che certe agende della politica sono determinate da questa scadenza incombente: c'è chi dice che persino l'accelerata liquidazione di Romano Prodi (con protagonisti pezzi di magistratura impazzita ma anche settori meno irresponsabili) nasceva dall'ansia d'impedire che una legislatura inevitabilmente dominata da Berlusconi fosse quella che avrebbe scelto il successore di Giorgio Napolitano. Da qui la spinta ad andare a votare nel 2008.
Secondo le regole politiche della Prima repubblica, il presidente del Consiglio non avrebbe chance di essere eletto presidente della Repubblica, così come non ne avrebbe Gianfranco Fini. E non è illogico prevedere che continui la prassi instaurata dalla Seconda Repubblica di cercare candidati ottantenni, dal profilo rassicurante, al di fuori delle parti. L'Italia, però, vive una fase di incerta stabilizzazione in cui prassi consolidate vengono improvvisamente meno, e in certe condizioni (specie se continuasse – senza risultati – il tentativo di crocifiggere Berlusconi) un qualche moto dell'opinione pubblica potrebbe rovesciare previsioni oggi non infondate. Naturalmente – come fanno notare fini conoscitori della psicologia berlusconiana – non è indifferente che l'attuale premier rinunci all'obiettivo di scalare il Colle. Il leader del centrodestra ha dimostrato sin dalla stagione dei successi industriali di essere mosso da grandi obiettivi, che se entrano in campo lo spingono a dare tutto di sé, mentre nella pura gestione pare annoiarsi. Comunque al di là della posta strategica, i venticinqueluglisti hanno fallito l'obiettivo tattico di farlo uscire azzoppato dal G8.
E' vero che non ha acquisito quel solido consenso popolare che sembrava delinearsi dopo il 25 aprile della Maiella, quando mettendosi il fazzoletto partigiano al collo sembrava sulla soglia di avere pacificato gli italiani, ma la partita resta aperta. Così a occhio Berlusconi ha qualche carta in più degli avversari. Quella della Repubblica, oltre che un'ottima campagna giornalistica, è una disperata campagna politica. Secondo voci abbastanza accreditate, il direttore di Repubblica Ezio Mauro doveva essere sostituito da Ferruccio de Bortoli, che Carlo De Benedetti aveva fermato sulla soglia di diventare presidente della Rai, per fare del quotidiano di Largo Fochetti un giornale più moderato e autorevole. L'operazione non è scattata, Mauro vuole dimostrare non solo di potere conquistare nuove copie ma di essere un king maker come lo fu Scalfari. Notevole la sua determinazione, però la strada è impervia. Una debolezza emerge nella difficoltà di fare una scelta nel Partito democratico, e un giornale che si impanca a king maker se non è capace oltre che di infastidire la maggioranza, anche di organizzare l'opposizione, è indebolito.
La debolezza di Mauro è esplicitata dall'essersi affidato a un D'Avanzo, che privo dei legami negli apparati dello stato che l'avevano reso impareggiabile, deve destreggiarsi tra le puttane che riesce a raggiungere per mantenere alta l'iniziativa, con però l'inevitabile destino del troppo che stroppia. Ma la debolezza di fondo è data da De Benedetti, a cui tutto il cielo (dalla Cir a M&C) cade in testa, a cui il figlio “industriale” Rodolfo rimprovera gli eccessi politicisti e di speculazione finanziaria. Insomma non è il miglior clima per condurre campagne politiche mortali. Tanto più quando l'alleato della prima manche, Murdoch, sta riflettendo su quanto la sua parte di offensiva sia stata fruttuosa. Il “pestaggio” murdocchiano è stato determinato, secondo lo stile del Times di Londra, un giornale che – come ha ricordato un testimone non sicuramente berlusconiano come Bill Emmott – sa perfettamente colpire dove vuole il padrone. Ma il bersaglio è sopravvissuto, e si sa che le traversie quando non ammazzano, possono rafforzare.
Quello che ha potuto constatare il tycoon australiano è che alla fine sia Obama sia Brown hanno preferito Berlusconi a lui. Non solo perché il padrone di Fox, Sky, Wall Street Journal, non è tanto nelle grazie della Casa Bianca, e a Downing Street nello stato di stress in cui si trovano con alle porte un Cameron che detesta l'editore australiano, non hanno tempo di pensare agli interessi dell'editore del Times. Ma non solo per questi motivi. Alla fine Obama e Brown hanno sostenuto il gioco berlusconiano, perché – nonostante i pareri di tanti nostri scettici osservatori di cose internazionali (a parte il perfetto Napolitano) – l'Italia tra Washington e Mosca, tra Goldman Sachs e Bundesbank (come nel '600 i generali dei due schieramenti in campo, Giulio Tremonti e Mario Draghi sono entrambi italiani e ciò offre una buona chance a Palazzo Chigi), tra Obama e Gheddafi svolge un prezioso e al momento insostituibile ruolo di mediazione.
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