Nei cortili di Qom

Tatiana Boutourline

“Teheran è la mente, Isfahan il cuore, Qom l'anima”, dice un detto persiano. Nessuno sa dove andrà l'Iran, ma è impossibile sciogliere il dilemma persiano senza provare a dare un senso al silenzio di Qom.

    Colpo di stato, svolta pachistana, controrivoluzione. Nel moltiplicarsi di analisi e definizioni che lastricano questa estate iraniana in bilico tra ferocia e speranza c'è un luogo che più di ogni altro incarna l'enigma. “Teheran è la mente, Isfahan il cuore, Qom l'anima”, dice un detto persiano. Nessuno sa dove andrà l'Iran, ma è impossibile sciogliere il dilemma persiano senza provare a dare un senso al silenzio di Qom.

    Voci isolate, anche autorevoli, si sono levate a favore e contro il responso delle urne, tuttavia chi si augurava una fragorosa mobilitazione del clero a sostegno dei manifestanti contro Ali Khamenei e Mahmoud Ahmadinejad è stato deluso. Le ambasciate di Ali Akbar Hashemi Rafsanjani non hanno stravolto i giochi, gli ayatollah Montazeri e Sanaei non sono stati determinanti. La città santa non ha preso partito e all'apparenza nulla è cambiato.

    L'inquietudine che ha scosso Teheran, Shiraz, Esfahan, Tabriz e Ahvaz sembra aver appena intaccato la scorza di Qom. Nel Vaticano iraniano il tempo è sospeso in una girandola di riti familiari come se i fermenti di questa tumultuosa stagione persiana si fossero arenati nel lago salato di Daryache-ye-Namak. Resistono gli stessi chioschi e gli stessi chador. Nelle botteghe si vendono i soliti vasi di terracotta e souvenir con la faccia di Khomeini. I pellegrini offrono voti e invocano benedizioni, mentre una cantilena ne interrompe un'altra, i mendicanti sciamano intorno e l'aria polverosa profuma di zucchero e pistacchi. E intanto il deserto continua a mangiarsi i colori risparmiando soltanto i tappeti di seta del bazaar e i bagliori dorati del santuario di Hazrat-e-Masoumeh. Ma la rassicurante immobilità di Qom è soltanto una maschera.

    Oltre i cancelli e le mura, dentro i cortili degli ayatollah, l'anima della città santa lotta per la sua sopravvivenza e la rivoluzione per la sua identità. Le facciate dei sacri palazzi si riempiono di scritte sediziose e nell'oscurità si distribuiscono volantini che inneggiano alla rivolta. Dietro la calma apparente di Qom si celano un lento declino e una cupa disperazione. La circostanza che dietro i candidati rivali delle presidenziali Mahmoud Ahmadinejad e Mir Hossein Moussavi ci siano i decani dell'establishment clericale non deve trarre in inganno. Dopo tre decadi di khomeinismo, Qom ha perso molto del suo prestigio e Khamenei, Rafsanjani e Mohammed Khatami sono insieme sintomo e causa della sua malattia. Quando Khomeini vi fece ritorno trionfante per stabilirvi il suo quartier generale, la città santa brillava agli occhi dei mullah combattenti come il centro dell'universo. Apparivano lontanissimi allora i giorni in cui Reza Khan aveva profanato le sacre stanze con i suoi stivali. Lo scià era caduto dal trono del pavone. Qom era stata vendicata e non c'era argomento dello scibile, piano di battaglia, intrigo o programma di governo che non passasse per la corte del rahbar. Per raggiungere quei palazzi bassi e rettangolari come pezzi di un lego incolore, gli elicotteri atterravano e ripartivano da e verso Teheran più volte alla settimana.

    Anestetizzato alle emozioni, in ossequio a una psicologia clericale che considera tabù manifestare gusti, desideri e inclinazioni, un contegno che i detrattori chiamano insensibilità e gli estimatori disciplina, Khomeini si concedeva con parsimonia. Appariva alla finestra ed elargiva un cenno della mano come segno di benevolenza verso i seguaci adoranti. Qom era Khomeini e Khomeini era la Rivoluzione. Era chiaro che i suoi silenzi emanavano forza e controllo. Di questi tempi, i silenzi degli ayatollah sono la manifestazione di una cronica debolezza.

    “Questa Qom è un luogo ove, tranne che sull'argomento religione e per stabilire chi sia degno di salvezza e chi di dannazione, nessuno mai apre bocca. Chiunque vi incontri o è discendente del Profeta oppure uomo di legge”, scrisse James Morier nel 1824 nel suo “The adventures of Hajji Baba of Ispahan”. Superficialmente la Qom di oggi non è molto diversa da quella del 1824 o da quella del 1979. Tutto ruota ancora attorno al santuario, ai taleb (gli studenti coranici), ai mullah e ai loro seminari. Dentro i cortili si aprono ancora giardini profumati dove gli studenti criticano i superiori e le condizioni dei dormitori. Lontano da occhi indiscreti altri studenti si appartano per scambiarsi libri vietati mentre dagli angoli bui si levano nuvole d'oppio e tabacco. Ma il primo sguardo inganna. Basta ascoltare le barzellette e le risate di scherno di molti iraniani soltanto a nominare Qom e gli ayatollah per accorgersi che la città santa ha perso la sua aura.

    Lo stereotipo corrente disegna un mullah sovrappeso che guida solo Mercedes e Bmw, porta valigie di dollari in Svizzera e guarda le donne con occhi peccaminosi. I mullah ovviamente sono dappertutto, ma la città santa li rappresenta e nemmeno gli ayatollah sono immuni dalle caricature. Molta acqua è passata sotto i ponti da quando Morier illustrava stupefatto il prodigioso ascendente della città santa e dei suoi seyyed: “Forse amico Hajii tu non sai che qui risiede il celebre Mirza Abdul Qossim, il primo divino di Persia, uomo che se si desse abbastanza da fare porterebbe la gente a credere qualunque dottrina dovesse decidere di diffondere. Tale è la sua influenza che molti sono convinti che egli sia in grado di sovvertire persino l'autorità dello scià e di indurre i suoi sudditi a considerare vili come carta straccia i suoi firmani”. Nell'Iran pre rivoluzionario i mullah amministravano un capitale consistente ricavato in parte dai contributi erogati degli scià per blandirli e in parte dalle donazioni dei fedeli. Erano potenti ma riuscivano a evitare di essere identificati con il potere. Governavano un'economia parallela che beneficiava larghi settori della società e rappresentavano un'autorità alternativa a quella dello shahanshah. Erano uno stato nello stato. “Non è facile descrivere una persona – scriveva alla fine dell'Ottocento il perspicace capitano inglese John Malcolm – che non ricopre alcun incarico, non è nominata, non ha doveri particolari e che è chiamata, in ragione di conoscenze superiori, carità e virtù, nel silenzio unanime degli abitanti a essere il loro protettore contro la violenza e l'oppressione dei governanti, ricevendo dalle stesse persone i cui sentimenti lo elevano rispetto e devozione”. Con un misto rassicurante di retorica religiosa e senso comune gli ayatollah parlavano una lingua che tutti gli iraniani potevano afferrare, una lingua più immediata di quella degli intellettuali che durante la Rivoluzione costituzionale (1905-11) come nel '79 dovettero bussare alla porta dei mullah per farsi capire.

    Poi però, imbastardito dalle logiche del potere di Teheran, il farsi dei seyyed è divenuto capzioso, vuoto e ripetitivo. E allo zenith della sua gloria, il simbolo del trionfo degli ayatollah ha iniziato a morire a poco a poco. La crisi di Qom inizia nel '79 quando il conflitto tra i turbanti e la corona si trasforma in una guerra feroce tra mullah. Le dispute teologiche sono il sale dello sciismo, ma fino ad allora non avevano superato i confini del seminario. Poi Khomeini ha irriso la tradizione e il suo successore ha completato l'opera fagocitando i seminari. La trasformazione del canone della città santa non si è prodotta senza contestazioni. I primi ad accorgersi che la Repubblica islamica avrebbe ucciso Qom sono stati gli ayatollah. La scelta di Khomeini di affidare la massima autorità religiosa a un singolo uomo indignò molti venerabili maestri. Il “velayat-e-faghih” (il potere assoluto di un giureconsulto) minaccia il pluralismo sciita. I grandi ayatollah riconobbero subito l'attentato alla loro libertà: come potevano esercitare “l'ejtehad” (interpretazione) quando un loro pronunciamento avrebbe potuto contrastare con gli interessi della Guida Suprema? “Il ruolo del clero è spirituale. Non credo che dovremmo essere coinvolti in prima persona nel governo – sentenziò l'ayatollah Shariatmadari in un'intervista a The Middle East nel settembre 1979 – Il clero deve combattere le minacce di qualsiasi nuova tirannia”. Alleato di Khomeini nell'opposizione allo scià, Shariatmadari divenne uno dei suoi critici più agguerriti. Dalla roccaforte di Tabriz guidò il fronte tradizionalista che voleva i mullah lontani dalle seduzioni di Teheran.

    I “mullah politici” risposero a modo loro. Nel dicembre 1979 i seguaci di Khomeini e Shariatmadari si scontrarono nelle strade di Tabriz. Il più autorevole avversario dell'imam andava neutralizzato. Nel 1982 Shariatmadari fu accusato di aver ordito un piano segreto per rovesciare la Repubblica islamica. Non c'erano prove. Il regime ignorò il parere contrario dei seminari, mise Shariatmadari agli arresti domiciliari e gli strappò il titolo di grande ayatollah. Lo stesso destino è toccato ad altri marja-e-taqlid (grandi ayatollah, fonti di emulazione) come Hassan Tabatabai Qomi, mentre più di mille seminari ribelli sono stati chiusi, altri ayatollah hanno subito terribili pressioni, trecento mullah e studenti di teologia sono stati condannati a morte e migliaia sono finiti nelle prigioni del regime.

    Nel frattempo mullah minori nella gerarchia del sapere e del carisma sciita come Khamenei, Rafsanjani e Khatami scalavano le vette del potere. I turbanti politici hanno umiliato tutti gli altri e persino i curricula dei taleb sono stati stravolti. Un tempo c'erano anzitutto la logica, la retorica, l'arabo, la grammatica, la giurisprudenza islamica, la filosofia islamica, le scienze islamiche, le biografie degli imam, le genealogie, le tradizioni sul profeta. Ora tutto è assoggettato al verbo rivoluzionario e molte ore di studio sono sottratte ai classici e dedicate al pensiero politico e agli atti di Khomeini. L'indottrinamento degli studenti coranici è soltanto un aspetto della vampirizzazione di Qom. Privo di solide credenziali teologiche Khamenei tiene in pugno ayatollah teologicamente più influenti di lui con l'unica freccia al suo arco: il denaro. Con la scusa di modernizzare l'organizzazione dei seminari, la Guida Suprema ha creato un centro per la gestione delle madrasse, un centro che naturalmente è sotto la sua diretta supervisione e che, oltre a stabilire i criteri per i curricula, controlla le entrate e le uscite nonché la direzione politica delle sacre stanze. (E' stato il direttore di questa organizzazione uno dei primi religiosi di Qom a congratularsi per la vittoria di Ahmadinejad). E' con questa strategia economica che Khamenei tiene sotto scacco la città santa. Chi gode della sua benevolenza non vuole perderla, chi resta escluso come alcuni grandi ayatollah è spesso impotente.

    A Qom non tutto è spirito e secondo l'analista del Washington Institute for Near East Policy Mehdi Khalaji il silenzio del grande ayatollah Ali Sistani dinnanzi alle violenze del regime nelle piazze iraniane è condizionato dal ricatto di Khamenei. Pesano insomma sull'assenza di Sistani considerazioni quietiste di opportunità politica ma anche preoccupazioni pratiche: anche lui ha un ufficio a Qom e riceve i fondi governativi. In passato Khamenei ha tentato la scalata teologica verso la marjayat, ma l'ostilità al progetto è stata imponente e Khamenei ha capitolato. Tuttavia, fallito l'assalto diretto, il troppo sottovalutato successore di Khomeini non ha rinunciato alle ambizioni di dominio sulla galassia sciita. Secondo Khalaji, il grado di politicizzazione e radicalizzazione esercitato da Khamenei e dalla sua rete è tale che ci avviamo ad entrare in un'era “post marja”. L'ultima “fonte di emulazione” identificata attraverso l'acclamazione dei fedeli e il riconoscimento dei suoi pari potrebbe essere l'ayatollah Ali Sistani.

    Nel frattempo i turbanti politici hanno iniziato a cannibalizzarsi tra loro. Lo scontro che oppone Khamenei a Rafsanjani e Khatami rievoca le lotte che opposero Fazollah Nuri, Muhammed Tabatabai e Abdullah Behbehani negli anni della Rivoluzione costituzionale. Qom era divisa tra religiosi modernisti e tradizionalisti. I primi erano per la scienza, la separazione dei poteri e la sharia aperta, i secondi per un'impostazione islamica rigorosa. Nuri si mise alla guida dei tradizionalisti. Sentenziò che il governo costituzionale poteva essere definito soltanto dalla sharia. Invocò un governo islamico. Quando fu promulgata la costituzione disse che era contraria alla sharia, che la sovranità appartiene solo a Dio, al dodicesimo imam e in sua assenza ai mullah. Nuri propose addirittura che tutta la legislazione fosse rivista da un consiglio di ulema che ne avrebbe decretato la legalità secondo i principi della sharia. Il suo sogno si realizzò nel '79 e Nuri siede nel pantheon islamista-rivoluzionario iraniano e ricorda più Khomeini che Khamenei. Come Khomeini giocò d'astuzia e annichilì i suoi nemici.

    Il futuro di Khamenei, invece, appare incerto. Le promesse del mondo sciita – come Mohsen Kadivar – lo disprezzano e i taleb più promettenti vogliono coniugare nazionalismo, islam e democrazia. Il silenzio-assenso di Qom è frutto della paura e i mullah mercenari che tengono in piedi il suo impero potrebbero un giorno anche girare i tacchi e virare verso la pragmatica riforma sciita ventilata da Rafsanjani. Mentre i pasdaran marciano nelle stanze dei bottoni e gli studiosi avvertono che la teocrazia mascherata da repubblica potrebbe trasformarsi in un regime di fatto militare con Khamenei relegato al ruolo di custode, Qom, ignorata e vilipesa, osserva la catastrofe come Cassandra.