Serracchiani abbatte De Gregorio 1 a 0

Marianna Rizzini racconta il match tra Debora e Concita

Marianna Rizzini

Doveva essere una tranquilla intervista per Youdem. Concita De Gregorio, direttore dell'Unità, e Debora Serracchiani, neo-eurodeputata del Pd, sedute a chiacchierare nel caldo pomeriggio del Democratic party (festa democratica) di Roma. Invece è stato un match (vinto da Debora) in cui De Gregorio cercava di educare Serracchiani e Serracchiani rifiutava di farsi educare e De Gregorio ritentava e Serracchiani recalcitrava.

    Doveva essere una tranquilla intervista per Youdem. Concita De Gregorio, direttore dell'Unità, e Debora Serracchiani, neo-eurodeputata del Pd, sedute a chiacchierare nel caldo pomeriggio del Democratic party (festa democratica) di Roma. Invece è stato un match (vinto da Debora) in cui De Gregorio cercava di educare Serracchiani e Serracchiani rifiutava di farsi educare e De Gregorio ritentava e Serracchiani recalcitrava. E se Concita dava suggerimenti non richiesti – dimmi come hai selezionato chi appoggiare al congresso, ma senza dare voti che ne hai già dati e ti consiglio di non darne – Debora diceva che invece i voti voleva darli, “perché dobbiamo prenderci meno sul serio” (e intanto però lei, Debora, si prendeva sul serio da morire mentre ripeteva “dobbiamo migliorarci” o “dobbiamo trovare la sintesi” e mentre raccontava di aver preso “la decisione più coraggiosa” scegliendo di non candidarsi e prepararsi “alla delusione di chi mi aveva chiesto di candidarmi”).

    L'esito dello scontro non era scontato. Serracchiani, aspra fin dal cognome sferragliante come un ingranaggio non oliato, è stata appena soprannominata “maestrina” dal compagno di partito Francesco Boccia, “giovane” più o meno quarantenne come lei, per via della suddetta abitudine di dare i voti come a scuola a tutti i notabili del partito: e una volta tocca a D'Alema beccarsi l'insufficienza, e una volta a Franceschini la patente di simpatia. Non solo. Ora Debora si è innamorata del centralismo democratico. Se qualcuno vota contro la linea del partito, recita il Debora-pensiero, il segretario intervenga e lo mandi in punizione a fare attacchinaggio. Concita De Gregorio, dal canto suo, non viene chiamata maestrina – e d'altronde è un'illustre firma della Repubblica (il giornale su cui ha scritto fino all'anno scorso) – ma sicuramente ha allarmato con i suoi editoriali travaglieschi e i suoi modi tranchant più di un compagno e più di uno spettatore di Michele Santoro.

    E pensare che Concita aveva cominciato l'intervista con Debora con domande bonarie e con il sorriso di chi pensa “coraggio, povera ragazza”: voglio sapere, Debora, quanto è stato difficile affrontare l'uragano che ha sconvolto la tua vita (dopo il discorso ai circoli del Pd con cui Serracchiani è uscita dall'anonimato). E Debora rispondeva conciliante che sì, era stato difficilissimo ma le aveva dato tanta adrenalina. E però subito buttava lì un altro voto mascherato (di insufficienza per il Pd prima di lei, ovviamente): io eccederò pure nella sintesi, ma questo è un modo di parlare a cui non abbiamo abituato i nostri elettori (e dovremmo farlo). Parliamo girando attorno alle cose, e invece serve la sintesi. E se Concita le chiedeva “dove andrete?” e con chi, Debora rispondeva di “no”, interrompeva, guardava il pubblico e diceva “l'identità del partito non va prelevata da chi ci sta intorno” e si dava del “noi”, autocriticandosi al plurale: noi non abbiamo sbagliato a chiamare ai gazebo i cittadini, ma poi non abbiamo più parlato con loro, non abbiamo speso bene il credito.

    Concita però non ci stava e voleva “tornare alla questione delle alleanze”: “Tu Debora hai detto ‘voglio un partito dove c'è posto per Grillo e per la Binetti', ma stavolta sono io che non sono d'accordo con te, secondo me non è possibile”. E Debora rispondeva con un altro dei suoi inderogabili “non dobbiamo”: non dobbiamo avere paura di esprimere la diversità, e dobbiamo imparare a votare con disciplina e spirito di servizio. Concita provava a dire qualcosa non appena Debora nominava “il centralismo democratico da recuperare”, ma Debora interrompeva. “Intendo dire”, esclamava perentoria mentre Concita la guardava allibita, “che se vogliamo essere un partito di governo dobbiamo parlare con una sola voce”. Concita, non si sa se più sconsolata o seccata, la buttava sulla laicità. Solo che parlando di Eluana Englaro faceva un po' innervosire l'intervistata. “Debora tu hai seguito bene il dibattito, in quei mesi?” (e dal tono sembrava il professore che ti chiede: hai studiato bene o no?). E Debora diceva“ Eluana era a Udine, l'ho seguita per forza” – fosse stata un fumetto, dalla sua testa sarebbe potuta uscire una nuvoletta che diceva: “Concita, ma che mi vai a chiedere?”. Perché Debora vuole domande formulate come più le aggrada, e giornali fatti come più le aggrada, e lo dice pure: i giornali dovrebbero parlare del Pd così e cosà, e chissà il direttore Concita che cosa ne pensa.

    “Se non facciamo le premesse la risposta a questa domanda risulta parziale e inutile”, diceva Debora, e non si capiva se ce l'aveva con la domanda o soltanto con la necessaria brevità della risposta che Concita cercava di imporre per necessità di palinsesto. Che vuol dire laicità nel Pd?, diceva Debora incurante dell'orologio. Diamo prima contenuti alla laicità. E mostrava la faccia feroce del suo centralismo democratico: sui temi etici al diavolo la libertà di coscienza, si voti come la maggioranza del partito vota. Concita puntava allora sul tema Marino: “Debora tu hai detto che il Pd ha bisogno di un segretario e non di un chirurgo. Non pensi che questo sia un atteggiamento che porta il conflitto all'interno e ricostituisce le correnti?”. Ma Debora parlava già d'altro: discutiamo ora, in questi mesi, ma diamo legittimità a chi uscirà dopo dal congresso. E sbottava quando Concita, infine, chiedeva: “Chi pensi lo vinca, il congresso?”. La risposta era quasi più tranchant di un intervento di Concita in tv: non chiedermi chi penso vincerà, chiedimi che tipo di partito penso possa uscire dalla vittoria di questo o quel candidato.

    • Marianna Rizzini
    • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.