L'accento Forte

Francesco Forte

La proposta di istituire un esame di dialetto regionale per poter insegnare nelle scuole, venuta dall'onorevole Roberto Cota (Lega Nord), è gravemente discriminatoria per noi apolidi lombardi. Supponiamo che fosse applicata alle università. Come avrei potuto passare la prova di dialetto pavese, quando feci l'esame per assistente ordinario  all'Istituto di finanza dell'Università di Pavia?

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    La proposta di istituire un esame di dialetto regionale per poter insegnare nelle scuole, venuta dall'onorevole Roberto Cota (Lega Nord), è gravemente discriminatoria per noi apolidi lombardi. Supponiamo che fosse applicata alle università. Come avrei potuto passare la prova di dialetto pavese, quando feci l'esame per assistente ordinario  all'Istituto di finanza dell'Università di Pavia? Il professor Griziotti, oriundo di Groppello Cairoli – e anche lui di famiglia fieramente garibaldina come quella che dava il nome al suo comune natale – poteva avere conoscenza della parlata dialettale di Pavia. Ma io, nato a Busto Arsizio, che avevo studiato dal ginnasio in su a Sondrio, con madre di Crema e padre di Salerno, che dai ventiquattro anni in poi come magistrato aveva girato l'Italia dalla Toscana in su, capivo i dialetti lombardi ma facevo confusione fra loro. Lo stesso dialetto di Sondrio, quello che conoscevo meglio ma non parlavo, era diverso dal dialetto di montagna. Nella parola “pane”, in dialetto “pan”, mano a mano che si saliva, la “a” si tramutava in una “e” sempre più corta, sino a sparire. A circa mille metri era “pn”, pronunciata a bocca chiusa.

    Figurarsi poi quando Ezio Vanoni mi nominò suo supplente come professore alla cattedra di Scienza delle finanze della facoltà di Giurisprudenza di Milano. Il milanese, celebre per le poesie di Porta con cui avevo sbadigliato a scuola, mi era alieno psicologicamente perché molle, con birignao. Lì avrei potuto passare un esame di traduzione dal milanese in italiano, ma non di lingua parlata. Cota si contenterebbe di una  prova di traduzione? Lo spero. Ma poi chi sarebbe stato in grado di farmi l'esame? Il Rettore De Francesco era napoletano. Il cattedratico di Economia Vinci era siculo, il preside Candian era veneto. E quando Luigi Einaudi mi chiamò alla sua cattedra a Torino, là sarei stato bocciato se lui, invece che chiedermi su che cosa stavo scrivendo, mi avesse fatto la prova di dialetto. Sia in cuneese, che in torinese, io sarei rimasto confuso. Sarebbe andata perfino peggio nel 1984, quando ottenni, su insistenza di Federico Caffè, la cattedra a Roma. Non so se lui sapesse il romanesco, ma a me Roma piace senza questo dialetto sciamannato, che non mi pare che la rappresenti né nel passato, né nel presente cosmopolita. Immagino che l'onorevole Cota la sua prova di dialetto non la pretenda per le carriere universitarie. Tuttavia gli esempi che ho fatto su di me, apolide lombardo, mi paiono sufficienti per dimostrare che la sua impostazione è errata.

    Non esistono molti dialetti regionali, ma al massimo dialetti provinciali. La tesi di Cota è che tramite il dialetto si conoscono la storia e i costumi locali. Ma ciò non è affatto vero. La  storia e il diritto romano hanno le loro fonti in latino. Ma non è così per la storia locale. Essa di solito non è scritta in dialetto, ma in italiano o in latino. Ad esempio così quella di Bormio, di cui, quando ero  sindaco, i processi alle streghe, spigolando nei faldoni degli archivi del comune. E lì mi sono imbattuto anche nei reperti dei Camuni. Che non usavano un dialetto per corredare di spiegazioni i loro disegni, ma dischi di varie dimensioni. Oltre alla storia dei luoghi ove si dimora e lavora, conviene conoscerne l'arte. Fra la Gelmini che vuole che i professori e aspiranti professori universitari scrivano in inglese e Cota che vuole le prove di dialetto, l'idioma gentile rischia di sparire.

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