Romanzo a puntate/1

Le farfalle di Sierra Leone

Sandro Fusina

Se il padrone della locanda non fosse stato tanto parsimonioso questa vicenda non sarebbe neppure cominciata. Quando decise di dividere il grande ambiente sul retro, usato come deposito, in due stanze per accogliere ospiti paganti, il locandiere, di cui la storia non registra il nome, mandò a chiamare un muratore.

    LE FARFALLE DI SIERRA LEONE, il romanzo del Foglio per l'estate '97, sarà pubblicato a puntate quotidiane fino al 30 agosto. E' stato scritto da Sandro Fusina, già noto ai lettori del nostro quotidiano. 

    Se il padrone della locanda non fosse stato tanto parsimonioso questa vicenda non sarebbe neppure cominciata. Quando decise di dividere il grande ambiente sul retro, usato come deposito, in due stanze per accogliere ospiti paganti, il locandiere, di cui la storia non registra il nome, mandò a chiamare un muratore. Il muratore prese le misure, fece un paio di moltiplicazioni e disse un prezzo in sterline. L'oste chiese tempo, si ricordò che nello stanzone c'era già una catasta di assi recuperate da una demolizione, fece due somme, gli venne una cifra in scellini, mandò a dire al muratore che aveva cambiato idea e dedicò i ritagli di tempo a dirigere i due figli mentre costruivano un tramezzo. Ne risultò il tramezzo più sgangherato, pieno di fessure e di buchi, che si potesse trovare in tutte le terre di Giorgio III di Inghilterra, di Scozia e d'Irlanda. Era un tramezzo così sconnesso che il locandiere pensò perfino di investire qualche scellino in carta catramata per coprire le falle più vistose. Fece due sottrazioni. Optò per la colla da falegname e qualche foglio di carta di una vecchia bibbia. Non volle però risparmiare sulla calce. Per anni non ebbe a pentirsi della decisione. Nessuno degli avventori, neanche di quelli che si trattenevano a lungo alla locanda, si era mai lamentato per il crepitio della piscia che pioveva nel pitale della stanza accanto o per la varietà dei rumori notturni. Non erano cose cui si badava o se ci si badava non era con disgusto o fastidio.

    Fino alla notte tra il lunedì 31 luglio e il martedì 1 agosto 1786 il tramezzo aveva assolto perfettamente al suo compito e non aveva creato inconvenienti. La notte del 31 luglio nelle due stanze era tutto normale. In una un uomo faceva l'amore con una donna, nell'altra un uomo dormiva. Il respiro pesante dell'uomo che dormiva non distraeva la coppia che faceva l'amore. Il respiro affannato della coppia non svegliava l'uomo che dormiva. Nessuno sentì un rumore di passi in corridoio. L'uomo che dormiva non si svegliò quando si aprì la porta della sua stanza. Sognò che inseguiva una farfalla variopinta, in un terreno acquitrinoso. La farfalla spiccava brevi voli, da un fiore all'altro. Lui la inseguiva a fatica. Si rese conto di trovarsi in una posizione sfavorevole, con il sole alle spalle. Come sollevava il retino l'ombra allarmava la farfalla. Cercò di aggirarla, di mettersi di fronte al sole. Ci riuscì. Imprigionò la farfalla. Si chinò per stringere il retino con la sinistra, un ramo acuminato lo colpì alla gola. Si svegliò di soprassalto. Gli ci volle qualche istante per rendersi conto che chino su di lui c'era un uomo. Un uomo che gli puntava uno stiletto alla gola. – Non si muova, signore. Non aveva alcuna intenzione di muoversi. Non aveva intenzione di chiedere chi fosse l'uomo con il pugnale. Ciò che voleva lo intuiva. – Lei, signore, ha qualcosa che appartiene a un gentiluomo. Per averla quel gentiluomo ha pagato. Ora lei ha chiesto altro denaro. Il signore che lei conosce non ha intenzione di pagare per qualcosa che è già suo. Mi ha incaricato di venire a ritirare il fascicolo. – Non ce l'ho qui. – Non importa. Possiamo andare a prenderlo. – L'ho depositato da un amico. – Lo sveglieremo. – Non lo tiene a casa. Lo tiene in ufficio. – Dove ha l'ufficio questo suo amico? L'uomo che dormiva non rispose subito. La lama sulla gola si fece più pungente. – Alla Società reale. – Lo convincerà ad andare a prenderlo. – Di notte? – Di notte. Ho istruzioni precise. Devo tornare con le carte o con la notizia che lei ha sfortunatamente lasciato questo mondo. – Se muoio le carte saranno pubblicate. – Forse, ma l'affare lo farà il suo amico o l'editore. Lei sarà, come dire?, nel mondo dei più.

    Dall'altro lato del tramezzo la scena era meno melodrammatica. Una ragazza dai capelli biondo paglia raccolti in trecce oscillanti, coperta da una camicia stropicciata, da un buon quarto d'ora cavalcava ansando un giovanotto bruno supino con gli occhi chiusi che sembrava non partecipare al gioco se non per strizzare pigramente i capezzoli con le dita infilate sotto la camicia. La ragazza non si risparmiava. Alternava movimenti sussultori a movimenti circolari, momenti lenti a momenti frenetici. Le pareva che la cosa durasse da ore. Le pareva che il giovanotto, che non si era neppure spogliato, che si era limitato ad aprire la braghetta e a sollevare la camicia, non dovesse venire mai. Decise di dargli il buon esempio. I movimenti si fecero più rapidi, l'ansito più frequente, i colpi più radi e più forti. Cominciò a gemere prima piano, poi sempre più forte, finché non si abbatté sul ragazzo, lanciando un urlo modulato che andò a spegnersi in un sospiro. Come per risonanza dall'altra parte del tavolato arrivò un urlo. «Aiuto». Un urlo soffocato in un rantolo. Quando estrasse il pugnale dalla gola dell'uomo che sognava le farfalle, il visitatore notturno fu investito da un fiotto di sangue. La cosa lo contrariò. Ma non al punto di non avvertire che nella stanza accanto il grido d'aiuto aveva creato agitazione. Non al punto da non rendersi conto di avere parlato a voce troppo alta. Di sospettare che tutto quello che era stato detto poteva essere stato udito. Era sicuro di non avere fatto nomi, ma era meglio non rischiare. Si precipitò nella stanza accanto. Girò la maniglia. La porta era chiusa a chiave. Ma la chiave non era nella toppa. Guardò dal buco della serratura, vide la ragazza di spalle inginocchiata sul letto e un giovanotto che si infilava la giacca. Sentì che la ragazza diceva al giovanotto: «Faccia presto, c'è qualcuno. Se mi scoprono in questa stanza il padrone mi caccia via». Vide il giovanotto che guardava verso la porta. Il visitatore notturno si sollevò, pescò in una tasca della giacca un anello di chiavi, scelse un passe-partout e aprì la porta.

    Quando entrò la ragazza stava con le spalle davanti alla finestra aperta. Il ragazzo era scomparso. – Ah, è lei –. Disse la ragazza con sollievo, contenta di non vedere il padrone. – Salve Mary. Chi c'era con te? L'uomo le si avvicinò. Gli sorridevano gli occhi. Inciampò nel pitale che si rovesciò. La piscia gli bagnò le scarpe con le fibbie d'argento. Imprecò. La ragazza si mise a ridere. Smise di colpo quando l'uomo entrò meglio nel cerchio di luce della candela. Quando vide il volto sorridente coperto di sangue. Quando vide nella destra il pugnale insanguinato. Pensò di supplicare, pensò di gridare, pensò di pregare. Non fece tempo a dire «ah». Penetrando sotto la mammella sinistra lo stiletto arrivò al cuore. Mary giacque tra il letto e la finestra, a gambe larghe, con la camicia arrotolata sulla pancia. L'uomo si chinò, sfiorò con i polpastrelli i peli biondi del pube, scese fino alla vagina, la sentì bagnata, portò l'indice al naso, lo annusò, lo portò alla bocca, lo succhiò. Abbassò la camicia sulle gambe della ragazza. Non sentiva rumori nella locanda. Andò a chiudere la porta. Estrasse il pugnale. Lo pulì con cura nella camicia della ragazza. Lo infilò nel bastone. Dalla brocca versò l'acqua nel catino. Si lavò la faccia. Gettò l'acqua sporca fuori dalla finestra. Ne versò dell'altra pulita. Si risciacquò. Cercò, senza trovarlo, uno specchio. Vide sul comodino un orologio che il ragazzo aveva dimenticato, una sterlina che il ragazzo aveva lasciato per la ragazza. Intascò l'orologio. Soppesò la sterlina. La rimise sul comodino. Per le spese di pulizia. Prese il candeliere. Passò nella stanza accanto. Posò il candeliere su un tavolo. Fece rotolare il morto giù dal letto. Sollevò il materasso impregnato di sangue. Lo sventrò. Guardò nei cassetti, sotto il marmo del comò. Rovistò nell'armadio. Frugò nella giacca posata su una sedia. Sfogliò i libri. Strappò le rilegature. Scostò dal muro i mobili. Cercò dietro le tende. Si arrese. Uscì senza spegnere la candela. Chiuse la porta. Percorse il corridoio. Attraversò la sala. Sotto il lampione, appoggiato al muro, con una gamba sollevata come una cicogna, lo aspettava un uomo vestito in grigio. L'uomo lo raggiunse scuotendo la testa. «Non c'era» disse, mentre il buio li inghiottiva.

    Non aveva capito bene quale fosse la funzione ufficiale di quel John Dewey che l'aveva convocato. Due cose aveva capito, però, che il motivo era il macello della notte prima e che la convocazione era perentoria. Non sapeva come comportarsi. Non sapeva se dire che la notte prima era stato in quella stanza con Mary. Se raccontare quello che aveva udito oltre il tramezzo. Sapeva che gli inglesi non erano pazienti con gli stranieri, che era facile finire sulla forca. Temeva soprattutto che il suo inglese approssimativo lo tradisse. Provava a immaginare le domande, a formulare le risposte. La casa di Dewey era lontana, dalle parti del Covent Garden, gli aveva detto l'oste. Aveva piovuto tutta la mattina. Le strade erano piene di fango. Quando un nero gli offrì una portantina, fu tentato di prenderla. Proseguì a piedi. Quando un nero fermo a un angolo gli chiese l'elemosina, lasciò cadere nel suo cappello uno scellino. Per scaramanzia. Quando un nero gli porse un volantino, lo accettò e lo mise in tasca. Quanti neri. Lasciò con sollievo che il nuovo filo di pensieri lo distraesse dal problema senza risposta che lo angustiava. Come mai c'erano in giro tutti quei neri? A Milano sarebbero stati assunti tutti a servizio. Era elegante avere un lacchè nero. Cercò di pensare a un'agenzia di collocamento internazionale. Durò poco. La stessa domanda che lo tormentava si ripresentò. Doveva dire di essere stato nella stanza? Chi aveva preso il suo orologio? L'oste o l'assassino? Chi poteva sapere che l'orologio era suo? Pensò alla dedica all'interno della cassa. Era in francese, anonima. A mon fils. Niente poteva indicare che fosse suo. Pensò alla cassa smaltata. A la Watteau, gli aveva detto il padre, quando glielo aveva regalato. Due settimane prima di morire. Era affezionato a quell'orologio. Non era alla Watteau. In un negozio a Parigi aveva poi visto la stampa da cui era stata tratta la scena. Una signora sul letto, in camicia, sollevava le gambe, sollevava un cagnolino dalla lunga cosa pelosa che scendeva fino... J. Fragonard invenit, c'era scritto. Aveva mostrato con orgoglio l'orologio al mercante di stampe, che aveva sorriso per cortesia. Ma era a Parigi.

    Doveva dire quello che aveva udito? Doveva dire di essere stato nella stanza? Si chiese che ore fossero. Entrò da un profumiere. Comprò sei paia di guanti profumati alla lavanda. Chiese l'ora. Era in anticipo di venti minuti. Voleva arrivare puntuale. Se fosse arrivato troppo presto avrebbe tradito la sua ansia. Ci teneva davvero all'orologio? Doveva dire di averlo lasciato nella stanza? Sul comodino. Accanto alla sterlina per Mary. Mary che avrebbe finto di non accettarla, che avrebbe fatto la manfrina che facevano sempre le serve delle locande, che avrebbe finto di offendersi. Che si sarebbe affrettata a fare scomparire la moneta nella scollatura. Un altro nero gli chiese l'elemosina. Più sfortunato del primo, si trovò in mano un penny. Mary era morta. Con i suoi fianchi volenterosi. Mary era morta. Ecco la casa. Fece il gesto inutile di estrarre l'orologio dal panciotto. Si guardò in giro in cerca di qualcuno che potesse dirgli l'ora. Non si accorse che qualcuno lo osservava dalla finestra d'angolo. Decise di aspettare ancora un poco. Di arrivare fino in fondo alla strada. Camminare non era piacevole con tutto quel fango. Si guardò gli scarpini. Avrebbe dovuto mettere gli stivali. Fece il giro dell'isolato. Si ritrovò davanti alla porta. Era un edificio in mattoni. Sembrava una casa privata. Salì i gradini. Batté il martello. Notò che era a forma di pesce. Come quello del portone di casa sua. La casa era molto più modesta della sua. La con- ROMANZO - LE FARFALLE DI SIERRA LEONE Jazz e rock La psichedelia dei nuovi Pink Floyd, lo Stravinskij del Sertao e il “son” cubano statazione lo rinfrancò. Non c'era la porta carraia. Da dove passeranno le carrozze, dove terranno i cavalli, si chiese. Gli aprì un servo in livrea che lo introdusse in un atrio. Spazioso, non enorme. Nel mezzo c'era un tavolo. Lungo le pareti erano allineate le sedie. Rivestite di pelle spellata. Con lo schienale alto. Antiquate. Di quello che biascicò il cameriere capì solo le parole attenda e sedia. Si mise a sedere e attese. Non aveva ancora deciso se dire di essere stato nella stanza. Non riusciva a decidere. Infilò la mano in tasca. Trovò il volantino che gli aveva dato il nero. Che cazzo di inglese è, si disse. Era questo che intendeva il cameriere del Dog and Duck quando gli aveva detto che parlava come un negro. Il volantino era anche stampato male. Era un appello. L'appello di un bovero negro che soffriva la miseria e la fame per le strade di Londra, che chiedeva la grazia di essere rimandato in Africa. Perché non li mandano in America?

    Si ricordò che gli inglesi avevano perso la guerra in America. Ricordava l'entusiasmo di suo padre. A Parigi a una cena una sera aveva conosciuto Lafayette. L'apprensione era scomparsa. La modestia della casa lo aveva messo a suo agio. Le sedie e il tavolo avevano le venature della quercia, il lucido dell'uso. Niente oro. Niente mogano. Si alzò per leggere le didascalie delle stampe appese alla parete. Era il suo modo di imparare un inglese diverso da quello dei libri. Era una serie. Intitolata la carriera del libertino. Era lui il libertino? Gli venne in mente Mary che si agitava sopra di lui. Gli venne in mente una signora francese che lo aveva stuzzicato e poi gli aveva riso in faccia. Guardò qualche stampa a caso. Poi cercò la prima della serie. Per seguire con ordine la storia. Era una storia triste. Per il libertino. Scendeva sempre più in basso. Si trovava impelagato in situazioni sempre peggiori. C'era un riferimento? Anche a lui piacevano le donne e il vino. Il gioco non lo attraeva particolarmente. Era un modo di stare con la gente, di conoscere gente. Le incisioni non erano proprio belle. Lesse il nome dell'autore. W. Hogarth. Lesse l'editore e l'anno dell'edizione. Le avrebbe cercate, per la sua collezione. Doveva comperare anche un orologio. Una porta si aprì. Ne uscì il corvo. Era Mary a chiamarlo così. Probabilmente perché non ricorreva ai suoi servizi. Era uno svedese. Alloggiava alla locanda. Era vestito di nero come al solito. Gli fece un cenno con la testa. Il solito cenno. O un cenno d'intesa? Lui rispose con un mezzo inchino. Con uno sguardo interrogativo. Lo svedese lo fissò finché il cameriere non l'ebbe accompagnato alla porta d'ingresso. Si aspettava di essere introdotto subito. Invece il cameriere infilò un'altra porta. L'ansia lo riprese. Si sedette e tirò fuori dalla tasca un libriccino rilegato. Sul piatto della copertina, inciso in oro, sotto una corona di marchese, c'era uno leone gracile, con un fagotto da pellegrino sulle spalle. Il suo stemma. Il grasso del polpastrello aveva quasi cancellato l'impresa. Donec redeat. A casa sua era scritto dappertutto. Si guardò in giro. Non c'erano stemmi, imprese. Aprì il libriccino. Era stampato con caratteri minuscoli. Conteneva tutto il “Paradiso perduto”. Su quel poema, trovato nella biblioteca del padre, aveva deciso di imparare l'inglese. Anche se aveva verificato che era un inglese antiquato. Aprì a caso. Cercò di tradurre a fatica un paio di versi. La porta si aprì. Il cameriere tornò a biascicargli qualcosa. Capì che poteva entrare.

    Il cameriere gli chiuse la porta alle spalle. La stanza era stretta e lunga. Accanto alla parete di fondo, dietro una scrivania, un uomo con una parrucca striminzita non aveva alzato gli occhi dalle carte che stava leggendo. Il ragazzo si fermò in attesa di un cenno. Ebbe il tempo di chiedersi se avesse fatto bene a indossare il suo vestito più elegante di seta, alla francese. L'uomo dietro alla scrivania era vestito di panno nero. Ebbe il tempo di notare che le gambe della scrivania terminavano negli artigli di un rapace che stringeva un globo. Davanti c'era una sedia che lo attendeva. Anche la sedia aveva gli stessi piedi. L'uomo alzò la testa. Appoggiandosi al tavolo accennò ad alzarsi dalla poltrona. «Oh, mi scusi, non l'avevo sentita, prego si accomodi». Indicò la sedia, con un sorriso freddo. A Lorenzo sembrò di fare i pochi passi che lo dividevano dalla sedia sulla corda di un equilibrista. Con l'uomo dietro la scrivania che si aspettava che precipitasse. Arrivò sano e salvo alla sedia. Si sedette. Era più bassa del normale. Anche se di poco doveva alzare lo sguardo per guardare negli occhi il suo interlocutore. – Mi chiamo John Dewey – disse l'uomo dietro la scrivania, senza specificare la sua posizione ufficiale. Lorenzo fece un inchino con la testa. – Lei è Lorenzo Bravo, marchese di Biandronno. Viene dal ducato di Milano. E' suddito dell'imperatore d'Austria – . Non erano domande. Erano constatazioni. Tutto giusto, pensò Lorenzo. Tranne il marchese. Marchese era suo fratello gemello. Per pochi minuti.

    Non ritenne di dovere esprimere il suo disappunto al proposito. Prese da una tasca interna della giacca un portafoglio con impresso in oro il solito stemma, scelse il passaporto, le credenziali. Esitò sulle lettere di credito. Decise che non era elegante mostrarle. Si rese conto che per porgere le carte a sir Dewey attraverso la scrivania doveva alzarsi. Si alzò. Dewey prese le carte e le appoggiò sulla scrivania senza guardarle. – Mi scusi – disse e suonò il campanello. Una porta laterale si aprì. Entrò un uomo che Lorenzo avrebbe potuto riconoscere. Se si fosse voltato quando scappava dalla finestra della stanza con cui stava con Mary. Se avesse scorto l'uomo che lo osservava nascosto dietro la tenda della finestra quanquando era arrivato davanti alla porta di quella casa. – Sono arrivate le carte della Società reale? – chiese in un tono più alto del necessario John Dewey. – Non ancora. Andrò alla Società reale a prenderle. Questa sera stessa – rispose l'uomo come se parlasse su un palcoscenico e dovesse farsi sentire nelle ultime file. (1. continua)