I napoleonidi/3 - Una serie dell'altro mondo
A Vincent Gambi piaceva scherzare sul suo nome. Diceva di chiamarsi Vingtcinq
A Vincent (Vincenzo) Gambi piaceva scherzare sul suo nome. Diceva di chiamarsi Vingtcinq, venticinque, che suonava come Vincent, ma indicava la percentuale di bottino che pretendeva per sé. Oppure si presentava come Juan o Jean Roux, come il composto di farina e grasso alla base di tanti piatti della cucina del delta del Mississippi.
A Vincent (Vincenzo) Gambi piaceva scherzare sul suo nome. Diceva di chiamarsi Vingtcinq, venticinque, che suonava come Vincent, ma indicava la percentuale di bottino che pretendeva per sé. Oppure si presentava come Juan o Jean Roux, come il composto di farina e grasso alla base di tanti piatti della cucina del delta del Mississippi. Non si era adattato a chiamare New Orleans, con un nome mezzo inglese e mezzo francese, Nouvelle Orleans, la città dove veniva a spendere le sue piastre quando non aveva guai troppo grossi con la giustizia. Aveva battezzato (ribattezzato) la sua nave preferita Petit Milan, che in francese era insieme il nome di una città del suo paese di origine e di un uccello da preda, il nibbio, presente sulle sponde del Mississippi con una specie nana. In tribunale sosteneva di essere un privateer, un corsaro, un capitano che conduceva la guerra di corsa contro i navigli spagnoli per conto dello stato sovrano di Cartagena, anche se, curiosamente, le lettere di marca che gli davano il diritto di portare guerra ai navigli della Spagna risultavano invariabilmente stampate da un tipografo con laboratorio a New Orleans.
Che Gambi fosse un pirata non c'erano dubbi. A Nouvelle Orleans era forse arrivato confuso tra le migliaia di coloni che avevano lasciato l'isola di Santo Domingo per sfuggire ai disordini della rivoluzione dei neri di Toussaint-L'Ouverture. Ma a scacciarlo da quelle acque erano stati piuttosto gli inglesi, decisi a ripulire i Caraibi dai pirati. Gambi non risiedeva a New Orleans. La sua base era sull'isola di Grand Terre che, insieme alla Grande Isle, chiudeva sul Golfo del Messico la baia di Barataria. Barataria era uno dei santuari della pirateria nel Golfo del Messico. Già vi aveva trovato riparo in un'occasione il pirata Edward Tech o Teach, il famoso Blackbeard, che negli arrembaggi portava micce accese intrecciate alla barba e sei pistole cariche sistemate con ordine in una apposita panciera.
Le isole di Barataria non erano disabitate né frequentate solo da pirati. Con le loro donne, occupate a intrecciare canestri e a cullare bambini su piccole amache, vi vivevano in capanne con i tetti di rami di palma certi pescatori che a quelli scarsi del loro mestiere univano i proventi più ricchi del contrabbando. Con le loro barche navigavano con disinvoltura in quel labirinto di canali che si trasformavano in laghi per ritornare canali, diversi, con andamento tortuoso tra erbe alte come un uomo, sotto le quali non si indovinava se ci fosse acqua o terra e sulle quali di tanto in tanto elevava una forêt de chênes, un querceto, ovvero un isolotto fatto di frantumi di conchiglie e terra portata dal vento su cui la corrente aveva depositato le ghiande all'origine delle macchie di querce contorte. Era gente strana, selvatica, che non amava i gendarmi che pretendevano di ispezionare cosa ci fosse sotto le ceste di gamberi, di ostriche, di pesci che portavano al mercato in città.
Perché quella laguna, così inusuale per gli europei si chiamasse Barataria, non è chiaro. Alcuni, più prosaici, affermano che il nome derivasse dalla parola spagnola barato, a buon mercato, poiché vi si potevano comperare senza tasse i prodotti della pirateria. Altri, più colti, affermavano che il nome venisse dal “Don Chisciotte”. Barataria era l'isola su cui Sancho Panza aveva governato infelicemente per una settimana. Poiché era “l'unica isola al mondo a essere circondata da terra e non d'acqua” evocava lo strano paesaggio anfibio della laguna.
Gli sconvolgimenti nei Caraibi e la vendita della Louisiana agli americani vennero a sconvolgere anche la vita dei pescatori. In cerca di un rifugio sicuro, di una base di partenza per le scorrerie, arrivarono i pirati. La vita dei pescatori non mutò però davvero finché non videro costruire sulla Grande Terre una grande casa e issare sul pennone una strana bandiera. Non era l'antica bandiera bianca con i gigli d'oro dei re di Francia, non era il tricolore della Repubblica e dell'impero francese, non era lo stendardo reale di Spagna né la bandiera bianca, rossa e blu, a stelle e strisce degli americani.
Aveva una stella bianca al centro di un campo verde inquadrato in due grandi cornici, gialla quella di mezzo, rossa la più esterna. Era la bandiera che i rivoluzionari, bianchi, neri, rossi di pelle, avevano scelto per il nuovo Estado soberano de Cartagena de India. Cartagena de India è la città che più ricorre nelle storie di pirateria e della guerra da corsa. Finché nel Settecento non fu dotata di fortificazioni capaci di irridere alle bordate dei cannoni, non ci fu corsaro francese o inglese, non ci fu pirata indipendente che si privò del piacere di andare a saccheggiarla, a fare man bassa delle ricchezze che confluivano in città dalla Nuova Granata, vale dire dall'America spagnola, in attesa di essere mandate in Europa a finanziare le guerre degli Asburgo di Spagna. Ora che una rivoluzione l'aveva resa uno stato sovrano e indipendente, la città si toglieva la soddisfazione di emettere a sua volta lettere di marca, che davano ai beneficiari il diritto di attaccare legittimamente le navi nemiche, cioè spagnole. Ad approfittare dell'iniziativa, se non addirittura a suggerirla, furono i fratelli Jean e Pierre Lafitte.
Privilegio degli avventurieri è vivere in biografie nebbiose, dove quasi nulla è documento e molto è leggenda. Dei fratelli Lafitte non si conosce neppure il luogo di nascita. Alcuni affermano, senza fornire documenti, che provenivano dalla città marinara e commerciale di Bordeaux. I più, sulla scorta di omonimie difficili da valutare per un tempo in cui la grafia dei nomi variava con facilità, sostengono che fossero creoli di Santo Domingo. Di loro non esistono ritratti. Ogni volta che a un antiquario della Louisiana, dell'Alabama o del Texas capita un disegno o una miniatura con il ritratto di un giovanotto vestito alla moda degli anni Dieci dell'Ottocento, i giornali locali annunciano il ritrovamento del vero e unico ritratto di Jean Lafitte. Di Jean Lafitte si diceva generalmente che fosse un bell'uomo, elegante, ma anche i concetti di bellezza ed eleganza sono molto soggettivi. Poiché a un personaggio di cui si è raccontato e scritto molto è giocoforza dare un volto, si è finito per accettare come suo il ritratto postumo e immaginario che l'illustratore E. H. Suydam disegnò nel 1930 per l'edizione originale, se non della più attendibile, della più piacevole delle biografie di Lafitte: “Lafitte the Pirate” di Lyle Saxon. Con i capelli lunghi e riccioluti, i baffi spioventi, con un cappello alla Buffalo Bill e la giacca dal taglio indefinibile, stretta da un cintura indiana, il Lafitte fittizio non assomiglia a nessuno dei suoi contemporanei e conterranei d'elezione di cui abbiamo un ritratto. Anche se il suo abbigliamento ricorda quello del curioso costume “all'indiana” che Costantino Giacomo Beltrami, il bergamasco che raggiunse pressappoco in quegli anni le sorgenti del Mississippi, indossa nel ritratto a figura intera pubblicato nell'antiporta dell'edizione inglese della sua “Découverte des Sources du Mississippi et de la Rivière Sanglante”.
Nella nebbia biografica e iconografica due tratti psicologici di Lafitte possono essere accettati con tranquillità, la prontezza di cogliere il senso degli avvenimenti e la capacità di volgerli a suo favore. Con gli americani nel Golfo del Messico la pirateria avrebbe avuto vita difficile. Se non avevano ancora approfittato dell'abbondanza delle loro belle querce, la Quercus alba di Linneo, per costruire una grande flotta oceanica, gli americani già avevano messo in funzione una flotta di imbarcazioni armate più piccole, che chiamavano battelli delle imposte e avevano il compito di controllare il contrabbando. Quanto alla pirateria, il problema era risolto con le lettere di corsa di Cartagena; per lo smercio dei prodotti della corsa bastava aprire un grande emporio sulla Grande Terre, facendo delle due isole che separavano il verde della laguna di Barataria dall'azzurro del Golfo del Messico – la Grande Terre e la Grande Isle, più una Chèniere Caminada – una specie di porto franco e di repubblica dei corsari.
Si racconta di una conferenza di pirati dove Jean Lafitte illustrò il suo progetto di holding. Chi voleva partecipare all'impresa di Barataria doveva accettare regole di comportamento che riguardavano la divisione del bottino e l'assunzione di responsabilità nei confronti del gruppo, come in qualsiasi rispettabile impresa a fine di profitto. La prima regola era che da quel momento in poi tutti dovevano considerarsi e dichiararsi corsari. Il che significava che da quel momento, almeno ufficialmente, si potevano assalire solo le navi dei paesi nemici dell'autorità che emetteva le lettere di marca. Quindi, poiché l'autorità in questione era l'Estado sobrano de Cartagena de India, le sole navi che potevano essere arrembate erano quelle spagnole. Non tutti gli intervenuti colsero il senso della proposta. Vingtcinq Gambi, per esempio, che a Barataria c'era da prima dei Lafitte e ed era piuttosto fiero della nomea di pirata spietato, non accettò le decisioni della maggioranza che a muso duro e reclamando ad alta voce. Tant'è che un suo uomo sfidò Jean Lafitte a un duello sui due piedi, senza padrini e senza i riti d'uso. Sui due piedi Lafitte estrasse la pistola, che a ogni buon conto portava carica anche alle conferenze organizzative, alzò il cane e spaccò il cuore all'energumeno ancora prima che finisse di vomitare improperi. Almeno così raccontano le agiografie.
Altri sodali furono più pronti a capire il progetto di Lafitte. Lo fu l'altro italiano di spicco della repubblica di Barataria, il genovese Chighizola, detto Nez Coupé perché un colpo di sciabola gli aveva portato via una fetta di naso. Lo fu soprattutto colui che, se si esclude il fratello Pierre, sarà l'uomo più vicino a Lafitte, il suo luogotenente, secondo alcuni addirittura un terzo fratello o un fratellastro, Dominique You. You era nato a Port-of-Prince, a Santo Domingo. Era andato per mare da ragazzo. In Francia si era arruolato nelle armate repubblicane, era partito con Leclerc per l'isola dove era nato per combattere Toussaint-L'Ouverture. Nella spedizione avrà di certo conosciuto il generale Humbert. Sopravvissuto alla febbre gialla, dopo la morte di Leclerc, invece di tornare in Francia si era messo in proprio sul mare. Fu probabilmente lui, insieme all'architetto Lacarrière-Latour, a organizzare la festa di compleanno di Humbert. Al generale, oltre che l'esperienza Santo Domingo, lo legava l'appartenenza alla massoneria.
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