Grinzane all'ultima spiaggia

Marianna Rizzini

C'è ambizione e ambizione, e uno può anche ambire a un impero decaduto. C'è uomo e uomo, e c'è un uomo, a Capalbio, che mira a sostituire Giuliano Soria alla testa del Premio Grinzane Cavour. C'è che Capalbio è uno dei posti più nobilitati da un certo mondo cultural-politico, e la Torino del Grinzane uno dei posti più ripudiati da quel mondo cultural-politico.

    C'è ambizione e ambizione, e uno può anche ambire a un impero decaduto. C'è uomo e uomo, e c'è un uomo, a Capalbio, che mira a sostituire Giuliano Soria alla testa del Premio Grinzane Cavour. C'è che Capalbio è uno dei posti più nobilitati da un certo mondo cultural-politico, e la Torino del Grinzane uno dei posti più ripudiati da quel mondo cultural-politico (che da qualche mese vede soprattutto la macchia del guaio giudiziario: le accuse di malversazione sul capo di Soria, l'affossamento del premio e l'arresto del suo patron, ora a casa con obbligo di firma). Fatto sta che proprio da Capalbio è partita, pochi giorni fa, una specie di “opa” sul Grinzane: trecentomila euro offerti per il “know how”, i contatti e la rete internazionale del perduto universo Soria. L'uomo dell'offerta si chiama Gianni Aringoli, presidente della fondazione Epoké e organizzatore del Premio Capalbio. Un romano della generazione di Paolo Mieli e Paolo Franchi, suoi compagni di scuola al liceo Tasso – “con Mieli abbiamo fondato il premio”, dice Aringoli, “per favorire un dialogo politico-economico al di là degli steccati di parte”. “Mieli l'ho trascinato io a Capalbio, tanti anni fa, quando lui ancora passava l'estate all'Argentario”, ricorda Aringoli quasi commosso, “e ci capiamo al volo, basta una telefonata” (senonché ora Paolo Mieli, presidente di Rcs Libri, gia due volte direttore del Corriere della Sera, non è con Aringoli né al vertice del Premio Capalbio né alla radice dell'operazione Grinzane).
    Di suo, Aringoli non ha nulla che possa far indovinare una comunanza d'ambiente con Mieli e Franchi. Nulla nel sembiante e nell'eloquio, nulla nel retroterra familiare. Avvocato (per la precisione “giurista d'impresa nel campo sociale”), Aringoli è figlio di un imprenditore marchigiano, padre di due figli rifondaroli e genero di Irina Alberti – paladina dei dissidenti russi in tempi in cui ben pochi si dicevano solidali con i dissidenti russi. A un certo punto degli anni Settanta, Aringoli ha assistito, in un teatro di Milano, a una scena mai più dimenticata: “C'erano sul palco mia moglie e Sakharov, e il pubblico urlava ‘fascisti'”. Da allora l'opera di collegamento con la dissidenza nell'Europa dell'est si è fatta intensa. Nel 1979 Aringoli ha portato in Italia il film “L'uomo di marmo” del polacco Andrzej Wajda, storia antistaliniana di acciaierie, operai coraggiosi, processi e riabilitazioni (“era un duro attacco al comunismo storico”, racconta Aringoli, “e lo distribuimmo con grande rilievo mediatico, organizzando un incontro tra Wajda e i dirigenti del Pci di allora: c'erano Pajetta, Reichlin e Macaluso”. Della suocera Irina, Aringoli ricorda “l'attività di consigliera per l'est di papa Wojtyla”. Di sé ricorda invece lo “sforzo per tenere i contatti con Sakharov e Solgenitsin e l'impegno nella gestione del tessuto informativo di appoggio durante il colpo di stato in Russia del 1991: ci fu anche una diretta telefonica a più voci tra la vedova Sakarov, alcuni esponenti della resistenza e Bettino Craxi – che in quel momento era ad Hammamet, in vacanza e non in esilio”.


    A un primo sguardo e a un primo ascolto, Aringoli fa però venire in mente, più che un esperto di est comunista, uno stropicciato corrispondente inglese di stanza in Vietnam. Il suo ufficio romano facilita il paragone: ventilatori a pala lenta, faldoni ammuffiti, tavoli in legno chiaro e scuro, libri ammassati, rumori di famiglie e stoviglie che salgono dalla finestra aperta, un ascensore cigolante non toccato dalla modernità, un collaboratore straniero di poche parole, un anziano signore che passa, saluta e si mette a leggere il giornale, una giovane e rapida collaboratrice, pile sconnesse di giornali, buste mezze aperte, penombra e afa stagnante. Il resto lo fa Aringoli con le sue pause lunghissime, la bionda pinguedine, l'aria sdrucita, gli occhi socchiusi, il tono nostalgico, i pantaloni corti. L'effetto Vietnam svanisce per incantesimo proprio sui bermuda, ché l'organizzatore del premio Capalbio pare giustificarsi per l'abbigliamento: “Noi al mare vestiamo così”, dove “noi” sta per capalbiesi d'adozione (e d'antan).
    Chi sia stato a Capalbio più d'una volta, a dire il vero, faticherà a ricordare qualcuno che vesta e parli come Aringoli, ché Aringoli pare un estraneo in mezzo ai signori brizzolati che, freschi nella camicia di lino, leggono quotidiani sulla terrazza dello stabilimento “Ultima spiaggia” – ma solo durante le ore calde, non appena la massa dei gitanti mordi e fuggi abbandona i tavoli del pranzo, perché alle sei c'è l'aperitivo. In teoria, la Capalbio di Aringoli è quella descritta in “L'era del cinghiale rosso”, il libro di Giovanna Nuvoletti (moglie di Claudio Petruccioli e frequentatrice del luogo da innumerevoli anni, assieme ai Marramao e ai Colombo). In pratica, Aringoli non è citato per nome nell'empireo nuvolettiano, e cioè tra quelli che Nuvoletti mostra di voler punzecchiare, sì, ma solo per poi santificarli – tanto che alla fine, a un lettore non capalbizzato, tutti i citati nel libro potrebbero sembrare dei poveri, semplici, frugali amatori di Maremma assaliti dal “burinal cafonal” e dai progetti autostradali, fatta eccezione per le categorie di persone attaccate senza santificazione alla pagina successiva: i ricchi milanesi con accesso privato al mare (di nome Puri e Tronchetti), e i parvenu che hanno riempito di borse Prada e bocche rifatte le vite dei pionieri, elitarie e rarefatte come l'aria sopra piazza Magenta, sede del premio Capalbio. Mistero vuole che il premio, e non Aringoli, compaiano nel libro per ben tre volte. A pagina quindici il premio, e non Aringoli, viene punzecchiato: si parla della piazza “dove adesso gli intellettuali capalbiesi si presentano l'un l'altro i loro libri, e fine estate si consegnano l'un l'altro il premio Capalbio”. A pagina centodiciassette il premio, e non Aringoli, viene ripreso per la collottola: “Avevamo il premio Capalbio, fondato già nel lontano 1987, che era andato sviluppandosi man mano, e diventava sempre più prestigioso”.

    Alla riga successiva il premio, e non Aringoli, è di nuovo messo sotto torchio: “Era fonte di fitte chiacchiere fra addetti ai lavori, le quali finivano sempre in generose premiazioni che, anno dopo anno, riuscivano ad accontentare a turno tutti gli autori disponibili”. Pur non citato, Aringoli è assai preoccupato. Ha messo in cantiere una seconda presentazione del libro della Nuvoletti, il dodici agosto (la prima era stata all'Ultima Spiaggia, in luglio), e spera con questa di far svaporare il “lieve risentimento”, così dice, di qualche nominato (non salvato) nel libro della signora Petruccioli.
    Aringoli, in compenso, viene citato da tutti gli scontenti che si sono trovati a verificare sul campo la sua proverbiale fama di pagatore ritardatario, fama che, messa a confronto con l'idea che Aringoli ha della sua gestione del Premio (“a Capalbio spendiamo poco e ci teniamo lontani dagli sponsor”, fa dire a un osservatore romano della vita culturale maremmana: “Te credo che spende poco, aspetta che paghino prima gli altri”. C'è chi, in paese, ricorda che Aringoli “risparmia anche grazie al ricorso agli stagisti stagionali per l'attacchinaggio”. Un altro, più benevolo, dice che “tutti hanno degli stagisti e li pagano poco o non li pagano per niente, e allora?”. Un altro ancora definisce Aringoli, in mezzo dialetto, “simpatico ma intrafalcione, insomma un po' arraffone quando organizza”. Un quarto, infine, ne parla come di un uomo “intraprendente, cordiale ma disordinato nella scansione dei pagamenti, tranne quando lo aiutava a gestire la baracca la signora Meriggioli, bravissima”. Qualcuno ricorda qualche ristoratore irritato per qualche intoppo nel saldo del conto, qualcun altro ha “sborsato di tasca”, come dice un capalbiese doc, nel mentre che Aringoli aspettava un finanziamento. Di certo c'è che Christian Rocca, corrispondente da New York di un piccolo quotidiano d'opinione, vincitore anni orsono del Premio Capalbio per un suo libro sull'Onu, al momento dell'invito (in pompa magna) si sentì dire: “Fai venire anche tua moglie, mi raccomando. Ah, se puoi anticipa tu i soldi dei biglietti dell'aereo che poi te li ridò”. Aspetta che ti aspetta, Rocca non ricevette alcun rimborso. L'anno successivo, richiamato per far parte della giuria (come ogni vincitore del Premio), il giornalista si permise di porre una condizione: “Volentieri, se mi pagate l'aereo dell'anno scorso”. Ne seguì un silenzio infinito (ed ecco perché Rocca non fu mai giurato).


    A interrogare sul tema i capalbiesi acquisiti,
    si evince che l'atteggiamento preferito dei risentiti con Aringoli è in stile “libro Nuvoletti”: accusa con salvataggio incorporato. Chi, alle spalle, imputa ad Aringoli arruffoneria e dimenticanze nel saldo dei conti, e magari si spinge fino all'esclamazione (“vergogna!”), poi, faccia a faccia con Aringoli, non si sogna di cambiare abitudini. Se c'è Aringoli a cena va bene così, se la festa nel casale prevede l'incontro al vertice pure – siamo gente di mondo, in fondo, i crostini al cinghiale sono buonissimi, oggi c'è vento, a fine mese vado al Festival di Venezia. E poi c'è il Premio e come si fa a non fare un salto nella piazza dove Asor Rosa era solito sedere in prima fila, pullover color pesca, intento ad ascoltare i vincitori del premio Capalbio economia?
    Ci sono anche le eccezioni: gente che si è adombrata con Aringoli e pure con quelli che prima sparlavano di lui e poi continuavano a inciuciare. Ci furono giorni – narra un secondo osservatore romano della vita culturale maremmana – in cui Paolo Franchi dovette ascoltare lamentele inferocite su qualche “aringolata”. Furono momenti di “intensa mediazione” che finirono, ohimé, “con un nulla di fatto”: gli offesi restarono offesi, Aringoli restò Aringoli, le cene restarono le stesse e tutti ci andarono lo stesso. E insomma oggi non si capisce fino a che punto la riprovazione resista alla complicità insopprimibile di chi in piazza Magenta e all'Ultima Spiaggia – accanto ad Aringoli – ci ha passato (almeno) una ventina di estati.


    I capalbiesi autoctoni invece trasecolano
    ed esprimono ammirazione per “l'Aringoli che ha portato tre ministri alla Cantina, e non è cosa di tutti i giorni, eh. E poi c'era Napolitano quando era senatore, e Tronchetti sul palco”. “Aringoli, nel bene e nel male, è un istrione che le cose le porta avanti, veloce come un tornado”. “Aringoli ha sempre pagato i pacchi di Natale”. “Non è che Aringoli tarda a pagare, è che molte cose sono sponsorship”. “Aringoli ha un'eccezionale capacità di entratura nelle mondo delle banche. Sfido io a trovare un Geronzi e portarlo al premio”. Un anziano signore, pilastro del paese, molto noto per le sue attività nella ristorazione e nell'imprenditoria, minimizza sul fronte “ritardi nei pagamenti”: “Non potrei mai farne una questione personale se una volta non ha pagato una cena per cento persone. Figurarsi, sono piccolezze. E poi se uno non ha la disponibilità del dare, pazienza. Certo, noi lavoriamo per vivere, e il conto alla fine lo chiediamo”. L'ipotesi “opa su Torino” non convince il signore capalbiese: “Mi scusi, eh, ma cosa vuole che combini Gianni Aringoli a Torino? E chi ci mette i soldi, poi? Il Monte Paschi? L'Europa?”. Aringoli che compra il Grinzane gli sembra “una boutade”, dove il francese è la mannaia che piomba sul sogno di gloria: “Lì si parla di contributi sostanziosi. Uno si porta dietro il nome Capalbio, e si sa che apre tutte le porte, ma poi le cose rischiano di essere un po' arrangiate, nella realtà. Vabbe' che tanto 'sto Grinzane va a perdersi. Magari nessuno lo vuole e Aringoli ci riesce, a prenderselo”. Da Torino, in verità, assicurano che “altri acquirenti” sono nell'aria e che “qualcosa si muove” – cosa che Aringoli con orgoglio rivendica: “Ho smosso le acque, l'interesse degli altri è venuto dopo”.
    Un altro anziano capalbiese si interroga, invece, su una questione “di metodo”. Vorrebbe che il Premio Capalbio fosse “come alle origini, meno privatistico, meno sulla scia della popolarità di questo e quello”. Vorrebbe che Aringoli “valorizzasse anche i talenti locali e non solo i quindici che ogni estate salgono e scendono dal palco, stasera io domani tu, e tutte le sere c'è qualcuno che legge le storie di un altro, a turno. La comunità che se ne fa? Siamo andati un po' oltre. Facciamo una figura da pollai”.


    Se Aringoli non assomiglia al mondo che a Capalbio va agli eventi da lui organizzati, neppure sembra avere qualcosa in comune con il mondo dell'ex-post-neo azionismo torinese, quello che Aringoli ha in mente di conquistare, stiracchiando i tentacoli maremmani fino al Piemonte, non pago di aver rilevato – defunta – la casa editrice Editori Riuniti (con in mente “un gran rilancio”). “Rilevamento” è parola che piace molto ad Aringoli. La ripete con gusto ogni volta che si riferisce all'offerta fatta ad Enrico Stasi, commissario liquidatore del patrimonio Grinzane. Ma chissà come la pacata, raffinata, severa, logicissima società culturale torinese accoglierà un “rilevatore” così ruspante – quanto di più distante possa esistere da un Galante Garrone. Aringoli non mostra cenno di complesso e dice di avere, a Torino, “molti amici, tutte brave persone”. Le brave persone sono, nell'ordine: “Piergiorgio Odifreddi, Marco Travaglio e Paolo Granzotto”. Non si capisce che cosa andranno a fare i tre amici nell'eventuale Grinzane bis capalbizzato, ma si sa che in autunno ci sarà un bando ufficiale. Solo allora si saprà se ci sono altri offerenti (e quanti sono). Non si capisce neanche che cosa esattamente voglia fare Aringoli – che parla di “fondazione” e non si cura degli amici che gli chiedono “ma perché ti immischi?”. Qualche giornale, dice Aringoli, “ha scritto che ero pilotato dal centrodestra, ma io ho detto a Repubblica.it di non aver mai nascosto il mio essere uomo di sinistra. Mi avevano persino affibbiato parenti piemontesi per cercare di radicarmi sul territorio, che esagerazione. Non dico che si debba essere globalizzati, ma un minimo di apertura al mondo ci vuole”. Il bersaglio di Aringoli sembra essere la regione Piemonte che, con piemontesissima cortesia, ha cercato di mascherare l'iniziale attacco di schifiltosità che aveva colpito le autorità preposte all'idea che un forestiero in bermuda mettesse le mani sul Grinzane (seppur decaduto, seppur lontano dai fasti dei viaggi in Africa e dei tartufi di massa). Intanto, però, la regione ha avviato un percorso parallelo a quello aringoliano, per recuperare il Grinzane attraverso un premio collegato alla Fiera del libro.
    Ora la regione, nella persona dell'assessore alla Cultura Gianni Oliva, dice “ben venga se qualcuno vuole rilevare alcune iniziative”, ma qualche mese fa lo sconcerto regnava nel regno di Mercedes Bresso, donna che ama dire “faccio io” (e in qualche occasione si è per questo scontrata con le alte sfere del Pd, quelle che da Capalbio spesso transitavano). Sorte vuole, poi, che la regione sia anche uno dei principali finanziatori del vecchio Grinzane, e quindi un possibile catalizzatore di azioni risarcitorie (per pagare i creditori di Soria). L'offerta di Aringoli, in qualche modo, ha scongiurato l'eventualità. L'assessore Oliva e Aringoli si sono incontrati di sfuggita, all'aeroporto, su richiesta di Aringoli. Aringoli ha chiesto a Oliva “se c'erano pregiudiziali” a che il Premio Capalbio lanciasse un'offerta, Oliva ha detto no. E' seguito contatto via mail: Aringoli assicurava che la proposta “non era concorrenziale”, Oliva rispondeva “c'è spazio per tutti”. Oggi Aringoli la butta sulla gara di filantropia: “Riassumerò gli ex dipendenti di Soria non riassunti dalla regione. Tutta gente che aveva stipendi miserevoli e orari impossibili”.


    Aringoli ci tiene a descriversi come una specie di babbo natale che punta “a recuperare il buono del Grinzane, e soprattutto la sua finalità culturale” (oltre a una parte della mobilia, e cioè un ex ufficio del Premio): “Il Grinzane esiste da quasi trent'anni, peccato buttarlo. Noi potevamo dare una mano, eccoci qui”. Il patron del Premio Capalbio sfoggia una specie di paterna comprensione verso l'ex patron del premio Grinzane: “Speriamo che per Soria si risolva tutto, l'anno scorso l'ho incontrato e appariva preoccupato per la gestione di quella macchina enorme. Gli avevo detto di passare da Capalbio. Poi ho letto dell'arresto. E' chiaro che se si costruisce sulla magniloquenza poi si è costretti alla dipendenza. Forse si era perduta in gastronomia l'idea originaria, ma l'idea del Grinzane era buona. E qualcuno a Soria i soldi li dava”.
    Il garantismo aringoliano raggiunge Soria mediante comunicato del cronista che vorrebbe interpellarlo sulla questione “marchio del Grinzane” (che ancora gli appartiene). Soria non ha voglia di parlare, ma vorrebbe tanto ringraziare al telefono Aringoli, di cui ha perso il numero, per le parole gentili che ha speso – e per fortuna lo scambio di cortesie non avviene sotto gli occhi di Travaglio, “l'amico torinese” di Aringoli (un po' meno garantista di lui).

    • Marianna Rizzini
    • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.