Vecchia Europa, addio

Marco Burini

Non sempre la Chiesa è apparsa così malridotta come nell'Occidente europeo degli ultimi trenta anni. Dopo le tre rivoluzioni del Concilio, del 1968 e del 1989 sembra che essa non vada più a genio a nessuno: per i devoti non è devota e sacrale, per i liberali non è liberale, per gli impegnati non è sufficientemente sociale, per quelli delle comunità di base è ancora troppo funzionaria, per gli amanti della vita troppo moralistica, per gli esoterici ed i ricercatori di senso troppo sobria.

    Non sempre la Chiesa è apparsa così malridotta come nell'Occidente europeo degli ultimi trenta anni. Dopo le tre rivoluzioni del Concilio, del 1968 e del 1989 sembra che essa non vada più a genio a nessuno: per i devoti non è devota e sacrale, per i liberali non è liberale, per gli impegnati non è sufficientemente sociale, per quelli delle comunità di base è ancora troppo funzionaria, per gli amanti della vita troppo moralistica, per gli esoterici ed i ricercatori di senso troppo sobria. In generale appare straordinariamente antiquata e contemporaneamente ritoccata in modo moderno, così che quasi nessuno vi si senta a casa. Rabbrividiscono tutti coloro che pensano ad essa, preti, laici, femministe, vecchi devoti e nuovi illuminati; ci si inizia quasi a scusare di essere ancora cattolici”.
    Sono le prime, accattivanti righe di una raccolta di saggi appena pubblicata da Cittadella, “Passi e passaggi nel cristianesimo. Piccola mistagogia verso il mondo della fede” di Elmar Salmann. Per capirci qualcosa di più siamo andati a trovarlo al Collegio Sant'Anselmo, sull'Aventino, fondato nel 1887 da Leone XIII come scuola internazionale di teologia per i benedettini. Queste mura, infatti, ospitano l'omonimo Ateneo Pontificio in cui questo “monaco, intellettuale e prete” – il suo autoritratto in tre parole – insegna teologia e filosofia. Un innamorato del nostro paese che parla un italiano ricercato, un tedesco di Westfalia (è nato a Hagen nel 1948) che trent'anni fa ha trovato in Italia una seconda patria in cui insegna (anche alla Gregoriana), predica, tiene conferenze e, cosa cui tiene assai, “cura le anime”. Ma è l'anima stessa della chiesa che soffre il kairos della modernità, l'oggi in cui Dio si rivela. Eppure, scrive Salmann nel suo libro, “il Medioevo non era più vicino a Dio e a Cristo che la modernità. Il cristianesimo puro non si dà, in nessun tempo – forse si è dato nel momento in cui Cristo è salito in croce e dopo ciò il cristianesimo è fermento, sale, orizzonte, idea regolativa, rimemorazione, schematismo ermeneutico del mondo. Nello stesso tempo scompare anche e sempre nell'incredibile minestra della normale esperienza del mondo”.

    Una minestra ricca di ingredienti ma con un sapore inconfondibile. “C'è un agnosticismo di fondo della nostra società europea – riconosce Salmann – Non sappiamo vivere la religiosità e la fede nel quotidiano. I temi forti del cristianesimo – Trinità, rivelazione, incarnazione, croce, grazia, peccato, redenzione, eucarestia, sacramento, preghiera – hanno perso la loro forza incisiva. Al limite, sono presenti come citazione. Ma la citazione, come diceva Benjamin, è la morte della tradizione. Non sappiamo più come vivere la fede nell'economia della nostra anima e dei nostri rapporti. Questa è la grande difficoltà oggi in Europa: né i protestanti né noi cattolici abbiamo una soluzione per questo agnosticismo, viviamo come se Dio non esistesse. Questo processo di derealizzazione della religione è camuffato, circolano tante false monete o senza valore. E già parlare di valore è una svalutazione della verità. Mi meraviglio che la chiesa usi questo termine senza notarne l'ambiguità evidenziata da tanti autori, a partire da Carl Schmitt e Eberhard Jüngel. I valori hanno una specie di imponenza fittizia, non significano niente ma servono a imporsi in modo spudorato e inefficace. Valore è una parola prostituta che copre tutto e dice niente”.
    In effetti è da un pezzo che la chiesa non batte moneta e, per citare un passaggio del libro, “accoglie della modernità proprio quelle cose che i contemporanei lasciano andare o che giudicano equivoche”, come la scienza o l'illuminismo. “Anacronismo comprensibile – precisa Salmann – Anzitutto l'anima è più lenta della mente e la chiesa si prende cura dell'anima, cioè dell'intimità dell'uomo. L'anima è un fondista, non un velocista. Esteriormente sappiamo adeguarci a tutto e la nostra intelligenza è molto duttile mentre nell'anima, dove siamo soli con noi stessi, dove si annidano le reazioni spontanee al dramma della vita, la sapienza e l'umorismo, lì siamo più lenti. Ma è anche un gioco di compensazione: abbiamo perso la competenza religiosa ma vogliamo salire anche noi sul treno. Questo però ci priva di forza profetica”. Per questo il teologo benedettino è critico su una certa retorica ecclesiastica della vita. “Non mi risulta che classicamente la chiesa abbia difeso a oltranza la vita biologica. Siamo in questo mondo, almeno così si diceva, di passaggio, per la gloria di Dio e per prepararci alla morte e salvare la nostra anima. Oggi da un lato la chiesa contesta, giustamente, una stramba necrofilia della società che sembra essere l'esito di un altrettanto falso sogno di onnipotenza tecnica; dall'altro potrebbe dare l'impressione di favorire il vitalismo, un'enfatizzazione dei diritti dell'uomo – cose confutate fino all'altro ieri”. Oscillazioni vistose. “La falsa frenesia nel voler essere attuali dimostra il nostro anacronismo. Forse ci manca qualcosa nel transfert tra i tempi. Con un sorriso sofferto e con un umorismo venato dalla sapienza della contraddittorietà potremmo invece commemorare le nostre posizioni tramontate. Non per reimporle con arroganza, ma per relativizzare i parametri di allora e di oggi. Lieve resistenza e forte empatia. Uno stile di cortesia e di competenza che spetta a una chiesa umile ma non debole, di minoranza”.

    Lo stile profetico va bene, ma a volte pare che sia necessario salvare il salvabile. “Ogni uomo, come ogni civiltà, è segnato da tanti strati geologici, da tempi e spazi diversi. Ci sono atavismi, nostalgie medievali, la realtà delle fiabe accanto alla comunicazione moderna. Nell'uomo coabitano tanti impulsi, non è mai solo contemporaneo. Ciò non vuol dire che l'atavismo sia di per sé buono. Il fascismo e il comunismo sono due movimenti atavici sorretti dalla tecnica moderna. Sangue e terra, ma anche l'atavismo di una società senza differenze. Sono illusioni prospettiche, quasi una rivolta anti moderna. Comprensibilissima, perché forse la modernità con tutte le sue differenziazioni ci chiede troppo. La democrazia stessa richiede tanta cultura. Perciò ci saranno sempre ricadute ataviche che puntano a una sicurezza tribale o sostanziale. L'uomo è sempre segnato da questa convivenza di parametri diversi e anche i tempi si stratificano in lui. Anche nella chiesa potrebbero benissimo coesistere, se solo potessimo dar loro voce in modo sciolto e colto. Ricordando la grande cultura cristiana: architettura, pittura, musica, letteratura, liturgia, devozione, le diverse opzioni politiche. Una storia di trasformismi strepitosi, una riserva di ricordi da rappresentare. Certo, alle nostre condizioni”.
    Nel mondo ecclesiale non mi pare ci sia tutto questo entusiasmo per il trasformismo e la varietà. “Forse privilegiamo una lettura troppo lineare della tradizione – dice Salmann – mentre la chiesa contiene molte tradizioni di devozione, teologia, scuole, stili di vita, ma anche opzioni sociali. Questo relativizzerebbe il carattere monolitico della presenza ecclesiale ma gli darebbe maggiore charme e apertura, senza metterne in pericolo la fisionomia”. Una chiesa monolitica è funzionale al sistema della comunicazione. “Perché contribuisce al bisogno di sicurezza ideologica che una società aperta come la nostra alimenta. Poi c'è la semplificazione mediatica che chiede messaggi brevi. Anche il cristianesimo è ridotto a un sms. Questo dà paradossalmente un nuovo charme a un'istanza rappresentativa forte come il papato. Abbiamo abolito i padri, non li sopportiamo più, eppure sentiamo il bisogno di un'istanza morale e di una rappresentazione sacrale. E' il gioco delle inversioni: l'istituzione più paternalistica, che dopo Nietzsche e Freud avrebbe dovuto finire nel baratro dell'improponibilità, gode di notevole prestigio, soprattutto dopo il pontificato di Giovanni Paolo II”.

    Secondo il benedettino tedesco l'inversione dei ruoli è un tratto epocale. “Progressisti e conservatori si scambiano le parti. Ciò che fino a ieri era conservatore oggi risulta utile alle esigenze di una società troppo aperta, pluriprospettica, dove tutto è possibile in ogni momento, una società che ha bisogno di punti di riferimento, di figure di rappresentanza. Da qui il risveglio di tante forme del sacro”. Lei diffida un po' di questo revival. “In questa giostra ci vuole un po' di cautela e di pudore. Solo che non abbiamo criteri definitivi per giudicare questi cambiamenti perché nessuno oggi ha il distacco necessario, data la valanga di informazioni e di sovrapposizioni di frequenza. Ognuno di noi è così poliedrico, è una democrazia con tante fazioni già dentro di sé… Abbiamo tante forme di recupero o di citazione del classico o del classicheggiante e assistiamo al tramonto di tante ideologie democratiche postmoderne. Io auspico da un'esistenza credente che sappia tenere una certa equidistanza, che sappia descrivere ciò che accade in controluce con il parametro del vangelo e della tradizione cristiana. Un ampio respiro di empatia e resistenza. Resistenza e resa, il ritmo di Bonhoeffer ci farebbe un gran bene”.

    Il perno della giostra ecclesiale degli ultimi cinquant'anni è il Concilio. “Si danno diverse letture. Oggi, secondo l'insegnamento di Papa Benedetto, prevale quella della continuità, mentre la scuola di Alberigo e il commento di Peter Hünermann (di cui Salmann è stato allievo, ndr) privilegia la discontinuità. Con tutte le precauzioni necessarie, ritengo che il concilio abbia segnato una svolta nella storia della chiesa, non tanto dogmatica ma stilistica: è cambiato il modo di relazionarsi alla tradizione e agli altri. E' la prima volta che la chiesa rivisita se stessa con gli occhi degli altri, con uno sguardo che chiamerei xenologico, lo sguardo degli altri: i protestanti, le altre confessioni, la cultura contemporanea anche atea. Anche l'oscillazione del genere letterario dei documenti conciliari – dogmatici? descrittivi? – e soprattutto la loro tonalità ha creato questo scombussolamento, sano ma anche conturbante. Una tale rivoluzione del modo di pensare ha bisogno di decenni di rielaborazione. Con il concilio abbiamo introdotto parametri illuministici nella chiesa: diritti umani, democrazia, lingua materna, aspetto sociale, apertura agli altri, libertà di religione. Ma mentre recuperavamo questi temi ‘kantiani' siamo stati scavalcati da una rivoluzione culturale, il '68. Stavamo per rielaborare la modernità dentro la chiesa e siamo stati smentiti dal postmoderno che è un nuovo connubio tra illuminismo e romanticismo, non più centrato sul soggetto isolato ma su una società multiprospettica. Le avanguardie dei primi del Novecento – invenzione di psicologia, sociologia, fenomenologia, l'arte moderna con Picasso, la musica con Schönberg, il romanzo nuovo con Proust e Kafka, l'emancipazione della donna e del bambino – sono il laboratorio di ciò che avremmo poi chiamato postmoderno, rimosso dall'evento traumatico delle due guerre mondiali e dai due movimenti atavici, il fascismo e il comunismo, due ideologie che contestano la modernità con tutti i mezzi della propaganda moderna”. Massa e potere. “Gulag e campi di concentramento sono costati milioni di morti e hanno creato la coscienza infelice del soggetto europeo postmoderno. E forse hanno contribuito alla nostra incapacità di propagare la vita. Siamo demograficamente condannati a sparire. E a lasciare il grande palcoscenico del mondo. Subentrano altre forze e noi diventiamo oggetti etnologici per l'islam e altre culture”. Non si può fare nulla? Il nostro destino è questo? “Sì, e mi va bene. E' giunta l'ora di congedarsi con eleganza”. E il cristianesimo? “Adesso la maggior parte dei cristiani vive in Africa, Asia, Sudamerica e in forme che a noi europei sembrano molto strane, con immagini del divino e della natura che esulano dalla nostra portata. Il cristianesimo vive una trasformazione che mozza il fiato e non sappiamo dove ci porterà. Dobbiamo accompagnare questo processo con umiltà, orgoglio, empatia. E' già avvenuto tante volte nella storia del cristianesimo”.

    Un teologo come Pierangelo Sequeri, che ha scritto la postfazione al suo libro, è scettico sulla retorica dell'alterità germogliata dalle idee del filosofo ebreo Emmanuel Lévinas. “Sono d'accordo. Non possiamo saltare la centralità dell'Io, un Io anche un po' forte. Io sono il centro del mio piccolo mondo antico, non ci piove. E non posso mettermi del tutto nei panni dell'altro, altrimenti sono narcisista che camuffa la sua debolezza con la presenza dell'altro. Questo presuppone un uomo europeo consapevole della propria storia, non in senso fatalista. Questa stagione della richiesta del perdono deve finire. Come dice Rémi Brague, l'Europa deve imparare l'arte della ricettività differenziante come già fece l'Impero romano. Noi abbiamo ancora fieramente da dare qualcosa al mondo, dal momento che non possiamo più dominarlo. Per noi c'è un nuovo ruolo di consiglieri, di avvocati delle cose dimenticate o sottovalutate”. Il teologo benedettino lo vede già in atto a casa sua, a Roma. “Qui studiano insieme persone di tanti continenti, è come se i nostri atenei ecclesiastici riprendessero con eleganza la funzione dell'Urbe; e speriamo che lo facciano con urbanità. Uno spazio di convivenza e arricchimento reciproco ma anche di correzione fraterna tra le diverse tradizioni e culture. Una metafora dell'ospitalità che non è culto dell'altro. Questo servirebbe da risposta al dilagare dei movimenti carismatici, una forma religiosa promettente ma anche inquietante”.

    Poco promettente è la salute delle élite intellettuali europee, sia cristiane (teologi) che laiche (filosofi e scienziati). Sembrano condannate alla marginalità. “Non c'è una teologia forte perché non abbiamo più un quadro di riferimento filosofico attendibile”, dice Salmann. “Navighiamo tutti a vista. Dopo il Concilio siamo diventati barcaioli, ermeneuti, mediatori tra mondi epistemologici e vissuti. Questo non dà una fisionomia forte al pensiero. Oggi un teologo non costruisce, propone. E' piuttosto un pontifex minimus. Poi c'è la malattia degli intellettuali che diventano dei mandarini, formano una casta, mentre le parole forti perdono la loro risonanza nel brusio del mercato delle opinioni. Forse per questo contano di più le biografie: Bonhoeffer, Simone Weil, l'abbé Pierre, Madre Teresa”. E' l'epoca dei testimoni. “E quindi di un cristianesimo un po' scapigliato che fa emergere tracce della presenza di Gesù. La teologia è in seconda linea, lavora dietro le quinte alla mediazione tra le culture”. Salvo venire alla ribalta per un momento. Una decina d'anni fa lei scrisse un libro dal titolo esplicito, “Contro Severino”. Il filosofo di Brescia non la prese bene. “In una società mediatica emergono altri Papi… Ma sono stati soprattutto gli intellettuali francesi lucidi e ludici a giocare questo ruolo: Bernard-Henri Lévy, André Glucksmann, ma anche Derrida, Foucault. Tutti gran sacerdoti della loro chiesuola”.
    In realtà, nel suo saggio lei attribuisce l'egemonia culturale del Novecento al pensiero ebraico. “Come cristiani siamo traumatizzati dalla fortissima presenza di un ebraismo secolarizzato che ha inventato tutto ciò che determina la nostra vita: psicologia, sociologia, pensiero dialogico, la scuola di Francoforte”. Ma anche le arti: il romanzo, il cinema. “Il pensiero ebraico determina il nostro inconscio, fa parte della sensibilità spontanea del soggetto postmoderno europeo. Perciò è difficile essere cristiani oggi e scommettere su una verità storica come centro di una visione del mondo”. Come se il popolo eletto avesse scavalcato il nuovo Israele. “Weil, Buber, Rosenzweig, Lévinas. Li abbiamo importati tutti senza valutare quale sarebbe stato il prezzo da pagare per l'identità cristiana. A livello di storia delle idee sono i vincitori, a livello storico con la Shoah sono state le grandi vittime del secolo scorso e gravano sul nostro senso di colpa”. Vincitori e vittime insieme: praticamente imbattibili. “Questo spiega la difficoltà di riscrivere il rapporto tra chiesa ed ebraismo”, dice Salmann. “Dire che sono i nostri fratelli maggiori non risolve il problema: anche i fratelli si ammazzano tra di loro. Oggi è quasi impossibile trovare gesti e parole adeguati. Io mi attengo ai capitoli della Lettera ai Romani dove Paolo non trova una risposta ma scava nella piaga. Cristianesimo ed ebraismo restano una ferita aperta l'uno per l'altro”. Ma un corpo giovane guarisce anche da ferite profonde. Salmann ricorda la rivoluzione che il Nuovo Testamento ha impresso alla storia e che gli stessi cristiani hanno appena iniziato a fare propria. “Siamo come bambini dell'asilo, impariamo sempre di nuovo l'alfabeto del vangelo. Che non abbiamo mai alle spalle”.