La bestia e il bambino

Stefano Di Michele

Succede più spesso negli ultimi anni – e ne sono passati così tanti da quella mattina: un'intera, magari insensata vita. Succede nel sonno, il più delle volte, come un affanno che toglie aria – è solo un attimo, un precipitare dal sogno alla veglia, e sono seduto sul letto, nel buio. Buio nel buio. Ma altre volte il pensiero torna laggiù nella luce del sole – e col pensiero non puoi farci niente, polvere e vento, nulla puoi impedirgli: né di andare dove ti ferirai né di tornare riportandoti antichi dolori.

    “Piangere è così piccola cosa/ e cosa così breve sospirare./ E per cose di simile misura/ noi, donne e uomini, si muore” (Emily Dickinson)

    Succede più spesso negli ultimi anni – e ne sono passati così tanti da quella mattina: un'intera, magari insensata vita. Succede nel sonno, il più delle volte, come un affanno che toglie aria – è solo un attimo, un precipitare dal sogno alla veglia, e sono seduto sul letto, nel buio. Buio nel buio. Ma altre volte il pensiero torna laggiù nella luce del sole – e col pensiero non puoi farci niente, polvere e vento, nulla puoi impedirgli: né di andare dove ti ferirai né di tornare riportandoti antichi dolori. E c'è sempre, nel giorno uguale alla notte, come un respiro che si spezza – e sempre un'aria che manca. Buio nella luce, allora.
    Dunque ho tre anni, o forse cinque. Ai piedi ho dei sandaletti blu, quelli con i buchi sopra, e così quando è sera la terra disegna due occhi scuri sopra i miei piedi. La casa è una vecchia casa di campagna, fatta di pietre che hanno preso uno strano colore che tende adesso all'indefinito del tramonto, un rosso sfuocato e inoffensivo (molti anni dopo è abbandonata: al suo posto ne è stata costruita una più solida e più confortevole e più brutta: tutta di cemento, tutta color cemento, dura come il cemento). Abitiamo insieme in quella casa sotto il profilo bellissimo e squadrato del Gran Sasso: io, mamma e papà, gli zii, i nonni. Tutti contadini, uomini e donne: si lavora la terra e ci si occupa delle bestie. A fine anno, una parte è per noi; la maggior parte per il padrone.
    Vicino alla nostra casa c'è n'è un'altra – ma grande e chiara – dove abita il padrone, don V. Questo padrone è bonario, quasi simile ai suoi contadini persino nei tratti, affettuoso a suo modo, solo molto preoccupato per il dilagare dei comunisti. (“Andate a Roma a mettervi in guanti bianchi”, disse, sfottente e forse dispiaciuto, a mio nonno quando mio nonno decise di emigrare. Mio nonno rispose: “Il problema non è mio, che i guanti bianchi non li ho mai portati. Il problema è vostro, padrone, che adesso dovete cominciare a toglierveli”).

    Quando la mattina esce dalla sua casa, lo salutano con una sorta di distratta cantilena: “Padrò-'giorno-a-signorì”. Intorno solo e tanta campagna – di grano e alberi con frutti ed erba per le mucche – tranne un angolo recintato e chiuso con un piccolo cancello: è il giardino di don V., con il campo di bocce, i tavoli di pietra per giocare a carte, i grappoli d'uva che pendono dalla rete di recinzione. Ogni tanto salgo sul muretto e rubo un po' di quell'uva, anche se zio P. si arrabbia perché dice che è del padrone e non si deve toccare. Allora la mamma mi porta vicino alla fontana, sotto un gigantesco bellissimo noce, mi fa allargare il palmo della mano e con l'indice comincia a disegnare dei cerchi che dal centro arrivano alla punta delle dita, e canta una filastrocca triste: “Mmézze a na larga piazze/ ce và nu lébbre a spasso…”. Poi questa lepre la vedono, la prendono, l'ammazzano, la cucinano, la mangiano. Ma attenzione, “e lu povere nicche nicche/ chij arrobbe se ‘mbicche” – perché il povero piccolo piccolo quando ruba poi l'impiccano. Un posto da niente – il luogo di tutto. Passa sempre un vagabondo che dorme nei fienili intorno. Quando gli regalano un pugno di grano o di noci o un pezzo di pane, per ringraziare si mette al centro dell'aia e comincia a recitare i nomi di trecento santi o di cento paesi – tutti qui intorno, quasi tutti lo stesso ignoti. Stupiti, restiamo a sentirlo a bocca aperta. Qualcuno dice che sa tante cose perché ha studiato, qualcun altro che allora si capisce che studiare non serve tanto. C'è un cane alla catena, sempre questo cane alla catena. E sempre questo cane, anche quando sarà un cane diverso dall'altro, si chiamerà Leone. Non so perché – so che è un cane alla catena.

    Abitiamo al piano superiore della vecchia casa di pietre rosse. Sotto, c'è la stalla. Ho tre anni, o forse cinque. La mattina, quando mi sveglio, la mamma mi mette i sandaletti blu e mi da in mano un pentolino. Tutte le mattine così. Scendo le scale, vado nella stalla. Il nonno e lo zio e il papà sono lì che lavorano: tolgono il letame, mettono paglia fresca, danno da mangiare alle mucche. “Il latte!”, urlo. Qualcuno di loro poggia il forcone al muro, si avvicina a una mucca e comincia a mungere, riempiendo il pentolino di latte. Me lo porge, con una carezza sulla testa. Lì nella stalla, sotto un'immagine di sant'Antonio abate con la barba bianca e un lungo bastone in mano, circondato da maiali e galline e mucche e cani e gatti e galli – e c'è un odore consueto perciò rassicurante di letame – bevo osservando il lavoro dei grandi. La mamma dice di portarlo sopra per scaldarlo, questo latte. “E' già caldo”, dico. Sempre così, fino a stamattina – per giorni che sono per forza pochi ma che a me sembrano infiniti: tutti quelli che ho e che so contare – quando dentro un lampo, scoppio prima di luce e poi buio spaventato, imparo che gli orizzonti mutano – e quasi sempre se mutano si fanno più tristi e crudeli. Ho tre anni, o forse cinque. Scopro per la prima volta la paura, la parola stessa e la sua sostanza – per non dimenticarla mai più.
    Vicino alla porta della stalla, sulla destra, c'è un vitellino, nato da pochi mesi. La sua mamma è legata lì a fianco. A volte, bevo il latte guardandolo mentre beve il suo. A volte, il latte che bevo dal pentolino è lo stesso latte che lui sta bevendo. Sempre, appena finito, mi avvicino. Alza la testa oltre il piccolo muretto e io gliela accarezzo. Quando accosto il viso al suo muso, mi dà lunghe leccate che sanno di latte. Sento la lingua ruvida sul naso, sulla fronte, sulle mani: mi fa solletico, mi fa ridere. Ha gli occhi che ridono (ma sono solo io, che ho tre o forse cinque anni, che penso che stiano ridendo, perché i miei ridono, e questo lo ricordo di sicuro), acquosi e larghi. Anche gli occhi della mucca lì vicino sono acquosi e larghi – e sembrano pazienti (imparai dopo che sempre hanno un'immensa divina pazienza, le bestie). Alzo lo sguardo dal pentolino vuoto, cerco il piccolo vitello. E' un giorno come un altro, il giorno che sarà come nessun altro. Io ho tre anni o forse cinque, ho dei sandaletti blu e non ho mai avuto paura di niente.

    Non lo vedo, il vitellino. Non c'è. Lo cerco con lo sguardo nella stalla. Non lo vedo. Al suo posto, un piccolo spazio vuoto. Solo paglia per terra, e una corda che pende dalla mangiatoia lì davanti. Guardo attentamente. Non so spiegare questa cosa. Sto in silenzio, muovo la testa da una parte all'altra, come a cercare negli angoli, sotto la paglia. Sento il sapore del latte grasso e pesante in bocca. Adesso sento che sto urlando: “Dov'è il vitellino…”. I grandi, tutti quanti, smettono di lavorare. Non so chi risponde (tanti anni dopo, ancora non lo ricorderò), con una piccola risata che vuole essere benevola: “Ah, Franchino…” (mi chiamano così perché si chiama Stefano anche il mio nonno, e dicono che possiamo confonderci: i poveri amano strane complicazioni). Io sono fermo, non mi volto, inchiodato tra la paglia e un mucchio di letame. “E' venuto il macellaio e l'ha preso…”. Non so bene cosa significa la parola macellaio (ho tre anni o forse cinque), ma mi sembra pericolosa, brutta – un'ombra inattesa di sangue, percepisco. “Ma è piccolo…”, dico. Intuisco, non capisco. Ancora la risata benevola: “Così poi ci mangiamo una bella fettina…”. Non capisco ancora, ma adesso so. Il minuscolo spazio davanti a me, che presidio con i miei sandaletti blu, si fa enorme e smisurato e nero. Come sul ciglio di un pozzo, di un fosso. Vuoto e buio, potrei caderci dentro. Qualcuno mi accarezza la testa. Continuo a non voltarmi. “Ma è piccolo, lui è piccolo, lo sapete…”, ripeto. Riprendono a rimuovere il letame, a smuovere la paglia, a riempire le mangiatoie di erba fresca. 
    E per la prima volta in vita mia – e lo so con certezza, questo: come le lancette di un orologio che ogni giorno, e per tutti i giorni che verranno, sempre e per sempre, incroceranno inevitabilmente quell'attimo – mi sento dire quella parola: “Ma lui ha paura, è piccolo…”. Ho paura – ora sono io. Altra risata benevola – ma più breve, mi sembra, come tirata fuori con un po' di fatica: “Su, Franchino, è buona la fettina, vero?”. Un'altra voce: “Ah, lu bbardasce…” – il bambino, le stupide cose di un bambino. Qualcosa mi sta chiudento la gola. Alzo gli occhi, un po' a destra. C'è la mucca che mi guarda, il grande capoccione chinato verso il basso, verso me. Nei suoi occhi acquosi, quasi vaganti, c'è qualcosa: come uno stupore dolente, uno strazio senza suono e senza voce. Restiamo così: io con il piccolo viso alzato, la bestia con la sua testa immensa e lieve abbassata. Ora so – con esattezza so. Diventa il mio, il suo sguardo. Succede (a volte, anche se poche volte) di vedere e immediatamente di capire. Resto inchiodato sul ciglio di un piccolo canale di scolo, di fronte alla distesa di paglia dove dormiva il vitellino: una linea in bilico tra un essere e l'assenza – e il dolore, perciò. E' la mia prima paura. Ciò che mi sta chiudendo la gola adesso quasi non mi fa respirare. E' un sasso, è un mucchio di paglia, è questo odore di letame. Comincia a scendere. Sono fermo, dritto, spaventato. Sasso e paglia e letame precipitano insieme nello stomaco. E allora, quasi senza muovere un muscolo, le mani rigide lungo i fianchi, gli occhi fissi in quelli della bestia chini su di me, comincio a vomitare il latte appena bevuto. Cola lento sulla maglietta, sui pantaloncini, sporca i miei sandaletti blu. Ho tre anni o forse cinque – e tutti quelli che verranno. Ma sono ancora lì.

    Perché dunque succede di vedere, ma non sempre di capire.
    Fino a questa mattina ho sentito piangere lontano gli agnelli che venivano scannati, il grido terribile e così umano dei maiali che stanno per essere macellati, posato occhi distratti sul terrore muto dei conigli. Forse perché è più difficile provare amore, e dolore quando questo amore ci viene sottratto, per un essere che non abbiamo accarezzato – quel miracolo che crea per sempre un rapporto. A volte, nella loggia davanti casa, mio nonno – così amato, così comunista, così affettuoso: ho il suo nome, ho il suo aspetto, ho paure che lui non ha mai avuto – affilava i coltelli con una sorta di pietra nera e lunga. Vedevo lame brillare sotto il sole, piccole scintille di fuoco nell'aria, ascoltavo rumori secchi e netti. Un mondo protetto, trama di affetti e volti – e lo sfregio di piccoli orrori. (Molti anni dopo, leggo un libro. Scopro che una volta, in un luogo vicino, c'era una terrificante tradizione: ai bambini facevano mangiare il cuore crudo di una rondine, perché dava saggezza e forza – anche nei luoghi amati e sicuri, c'è da attendersi atti di ispirata stupidità). Dopo, dopo il pianto e l'urlo e il muto terrore che non so leggere, nonno prepara certi piatti usando le interiora di questi animali legate con lo spago, foglie di alloro e sale, un odore consueto e sospetto. “E' buono, dai…”. Mai messo in bocca un solo pezzetto. Il nonno sospira: “Ma questo qui a chi somiglia?”. Vedo, senza capire. Fino a oggi – quando qualcosa, senza ragione nei casi più fortunati, arriva al cuore e lo muta per sempre. Vedi, capisci e scegli (o sei scelto) – semplicemente. Uno sguardo, tenero o stupito o spaventato, quando fa questo è però un dono inatteso. Una grande scrittrice – appartata e dolente – per tutta la vita e tante paure si portò dietro lo sguardo di una tartarughina del Levante, intravisto in una vetrina. Non il suo cardillo addolorato – noi, a volte.

    Nella coscienza (o anima o cuore: se è la stessa cosa va benissimo, se non lo è, è solo inutile confusione), mentre vomito e sto cominciando a piangere, la paura prende spazio e dominio. Mi sentivo sicuro e protetto. La sicurezza di quel piccolo essere accarezzato era anche la mia. Da questo preciso istante – ho tre o forse cinque anni – non sarà mai più così. Se è accaduto, potrà di nuovo accadere. E' la scoperta stupefacente e dolorosa della fragilità degli esseri e delle cose che amiamo: gli amori possono dissolversi o schiantarsi sotto il peso dell'abitudine, gli amici tradire e persino morire (è successo, e quella morte, “mi sento un mucchietto di terra su un davanzale”, è mutata in un dolcissimo e feroce tradire con l'assenza), i libri bruciano, gli alberi si abbattono, i versi si dimenticano, gli oggetti si possono rubare o distruggere. Gli animali che ti dormono addosso ti toccano il cuore, e un giorno, nell'assenza, possono strappartelo via. Un continuo, vigile, incerto sonno sul bordo di un letto; un perenne doppio sguardo su ciò che abbiamo visto e ciò che invece è sfuggito ai nostri occhi, ma ci procura lo stesso un osceno affanno. Si resta lì, attenti al minimo rumore, alla minima crepa, a un impercettibile sussurro. Come la povera lepre a spasso della vecchia cantilena infantile: eppure catturata, scuoiata, divorata – per farsi infine solo sciocco ammonimento. Ha di buono questo, la paura che scende nel cuore ma non lo pietrifica: che a volte permette di sentire quello degli altri: come un linguaggio cifrato, sussultorio, che certi animali sentono a distanze abissali e certi umani fissando un volto vicino. E magari così provare a sfuggire, con le ginocchia ferite da tante cadute, una vita “che altro non era stata che servitù e sonno”, come scriveva la scrittrice imprigionata dalla tartarughina del Levante. E' la sola forza che dà una fragilità estrema – che né molte parole né molte voci né molti libri cancelleranno mai. Non si guarisce più da certe cose – appendi la tua povera coscienza al filo incerto di un'emozione che si forma, di una risata, di una metafora.

    C'è Dio, dicono. Certo, Dio: così fondamentale, così inservibile. Le sue immensità – l'Aldilà, la Resurrezione, un Figlio consegnato alla croce – sono facili e chiare. E' il suo silenzio sulle piccole cose, le “cose di simile misura”, il suo non sapere o non volere (e non volere è incomprensibile), che ancora spinge davanti a una distesa di paglia, a uno strazio silenzioso, a una piccola certezza che ora sta colando via dalla bocca. Dio forse sa, ma l'uomo no – ed è suo, è umano il dolore. Sono qui, ho tre anni o forse cinque, potrebbe essere solo un soffio tutto questo, un passare impercettibile sul destino di una bestia – e di un bambino. Invece è andata così. E così va bene – costretto a non dimenticare. E' come quel cane alla catena, che percorre ossessivamente lo stesso breve spazio che gli è consentito – e sempre abbaia, ché solo abbaiare può. Ci sono notti e giorni in cui la mia coscienza (o ciò che le somiglia: il cuore, l'anima, chi può mai dirlo?) si ritrova qui, di fronte all'enigma di una piccola bestia condotta al macello spaventata e muta. Non è stato un soffio – se un soffio non sa arrivare alla coscienza, o alla coscienza un soffio basta.
    Ho tre anni o forse cinque. Sono un bambino, mi chiamo Stefano – e vedete, a dire la verità questo ancora neanche lo so. Sono qui, ancora qui, e credo che resterò per sempre qui. Sto fissando con gli occhi sbarrati un mucchio di paglia sporca e una corda che pende. I miei sandaletti blu sono coperti dal vomito della mia paura.