I pretoriani del buon mercato
Il passante maledetto, quello di Mestre naturalmente, è bloccato: chiamate l'Autorità delle autostrade. I petrolieri fanno la cresta sul prezzo della benzina e l'Associazione consumatori non ha dubbi: intervenga l'autorità. L'Alitalia accumula ritardi: facciamo appello all'autorità dei voli. I treni chiamati “superveloci” viaggiano lenti come al solito: provveda subito l'autorità. Le tariffe dei telefonini sono tra le più alte d'Europa: s'abbatta sui gestori la mannaia dell'autorità.
“Tutti i paesi ne hanno fatto esperienza: quando cerca di sorvegliare i monopoli, il potere discrezionale ben presto si abitua a distinguere tra monopoli buoni e cattivi e si scopre più interessato a proteggere il presunto buono che a impedire quello cattivo” (Friederich von Hayek, “La società libera”, Rubbettino).
Il passante maledetto, quello di Mestre naturalmente, è bloccato: chiamate l'Autorità delle autostrade. I petrolieri fanno la cresta sul prezzo della benzina e l'Associazione consumatori non ha dubbi: intervenga l'autorità. L'Alitalia accumula ritardi: facciamo appello all'autorità dei voli. I treni chiamati “superveloci” viaggiano lenti come al solito: provveda subito l'autorità. Le tariffe dei telefonini sono tra le più alte d'Europa: s'abbatta sui gestori la mannaia dell'autorità. La geremiade può continuare all'infinito, tuttavia basta prendere solo gli esempi di questi giorni, i casi concreti in cui è stato esplicitamente richiesto l'aiuto delle molteplici Authorities (matrice americana, di rigore l'inglese), per capire che sono scesi in campo nuovi tribuni della plebe.
Una volta c'erano i carabinieri. Solidi al pari delle rocce, conservatori e nei secoli fedeli; magari un po' stolidi, come vuole la leggenda popolare, ma mai collusi. Era un luogo comune: quando una matassa diventa troppo intricata da sbrogliare, non ci sono che loro, sia pur con il metodo sbrigativo usato da Alessandro in Frigia per sciogliere il mitico nodo gordiano. Oggi, impegnati a portar pace nei posti più remoti del mondo, rispondono a mala pena al numero verde. Poi, sono arrivati i pretori d'assalto (uno per tutti, Raffaele Guariniello), che hanno segnato il tempo del procuratore come pubblico giustiziere. Adesso, tra eccessi persecutori, conflitti istituzionali, cimici e foto galeotte, meglio stare alla larga. Scomparso dall'orizzonte il parroco al quale chiedevano aiuto i poveretti senza padri né padrini, chi resta a raddrizzare i torti? In balia di banche, società telefoniche, gabellieri, agenti delle entrate, vigilanti del traffico, e altri tormenti, come fanno a proteggersi i cittadini negletti, i risparmiatori bistrattati, i consumatori intortati, insomma “i vinti dalla vita”? Attendono un nuovo Giovanni Verga che li consegni alla storia e s'appellano alle Authorities. Sono arrivate già a una dozzina di vario ordine e grado, ma a quanto pare non bastano mai.
Per Mestre, il deus ex machina si chiama Ivca (acronimo per Ispettorato vigilanza concessionarie autostradali che fa capo all'Anas, società pubblica la quale affida la gestione delle tratte ad apposite società private). Nessuno può aprire in un batter d'occhio nuove corsie, ma intanto viene sollevato un bel polverone politico. Esattamente come è successo all'inizio dell'esodo estivo, con le proteste per i 32 chilometri di fila il primo agosto scorso sotto il solleone. Lo stesso giorno, anche sulla recidiva Salerno-Reggio Calabria, si recitavano scene da “Crash” di James Graham Ballard. Ma nel girone dei dannati meridionali non arriva nessuna autorità. E la storia lo dimostra.
Volendo mettere il dito nel vespaio della benzina, non resta che l'imbarazzo della scelta. C'è un'Authority per tutti i gusti: quella per l'energia, quella per le società quotate in Borsa, quella contro i cartelli e i monopoli. Forse dovrebbero darsi una mossa tutte insieme. Ci sono aziende petrolifere, come la Saras dei Moratti, che hanno suscitato scandali e polemiche vendendo al pubblico le loro azioni. La procura di Milano accusa: “E' stato ingannato l'investitore medio”, mentre l'autorità (in questo caso la Consob) dormiva. C'è il ruolo obiettivamente dominante dell'Eni. C'è l'esigenza di ridurre la volatilità eccessiva dei prezzi, sentita non solo dagli automobilisti, ma dagli stessi industriali manifatturieri, visto il ruolo guida che il petrolio e la benzina hanno assunto nella vita e nelle economie moderne.
Non sono più solo gli avventori del bar sport a maledire i petrolieri-speculatori. E' un ministro con portafoglio come Claudio Scajola, titolare del dicastero dello Sviluppo. E' un presidente come Sarkozy. E' un economista pluricelebrato come Paul Krugman, certo non affine al centrodestra. Un anno fa, quando il greggio era balzato a 140 dollari il barile per poi precipitare a 40 nel giro di due mesi, il premio Nobel aveva pubblicato dotte analisi allo scopo di provare che la speculazione non c'entrava nulla o quasi, perché la curva dei prezzi seguiva quella della domanda, sia pure con un certo ritardo temporale. Oggi ha cambiato completamente idea e sul New York Times giura che l'ultima fiammata della benzina e del gasolio è frutto di operazioni speculative.
Niente di demoniaco, per carità. Di sinistra, ma mercatista qual è, considera la speculazione una componente ineliminabile degli animal spirits che scendono a combattere nell'arena del mercato. Eppure, questa volta la legge bronzea della domanda e dell'offerta viene in qualche modo manipolata dal ciclo delle scorte. In sostanza, le compagnie hanno riempito le stive quando il greggio era a buon mercato. Così, hanno fatto salire i prezzi. E oggi vendono il prodotto raffinato parametrandolo ai valori attuali, non a quelli con i quali hanno contabilizzato i loro acquisti. Proprio nella differenza di tempo, c'è grasso che cola. E lì s'annida il motivo perché le Authorities prendano le forbici e taglino le unghie agli sgraffignatori.
Si è fatto sentire, nonostante la canicola, Alessandro Ortis, presidente dell'Autorità per l'energia elettrica e il gas. In un'intervista a ilsussidiario.net difende la sua istituzione e, sfidando il senso comune, vanta il ruolo positivo delle autorità al fine di rendere più trasparenti prezzi e tariffe. Nel caso della benzina, non nega le distorsioni nel sistema distributivo: la rete delle pompe è spesso una fonte di violazioni della concorrenza, perché hanno licenza di vita e di morte persino i comuni, i quali barattano concessioni con amicizie e favori. Un tema sollevato anche da quella che potremmo definire l'Authority suprema, cioè l'Antitrust. Nessuno possiede la bacchetta magica, sia chiaro. I prezzi amministrati non hanno mai funzionato davvero. Circola la proposta di creare una Borsa della benzina su scala europea. Ma l'esperienza della Borsa elettrica si è tradotta in un impatto marginale sulle famiglie e sulle imprese. Si potrebbe usare la domanda pubblica come calmiere. Per ora, c'è solo fumo.
Ancor più paradossale, la vicenda dei telefonini. Annunciata nel decennio Novanta come esempio di buon funzionamento del mercato privato, la telefonia mobile, al contrario di quella fissa, era diventata il vanto del modello italiano. In fondo, siamo stati i primi a introdurre le schede prepagate che tanto successo hanno avuto nel mondo intero.
Adesso, uno studio indipendente commissionato dall'Ocse, piazza il Belpaese nella lista dei peggiori, più cari e meno efficienti. Certo, incidono l'abbonamento e la tassa governativa (distorsioni tutte italiche), ma anche se prendiamo il profilo cosiddetto “basso spendente” (quindi una categoria di utenti che privilegia la ricarica a vista) il costo medio annuo è di 195 euro, quattro volte più che Danimarca, Svezia e Finlandia (la media dei paesi più industrializzati è 163 euro).
L'Agcom (Autorità garante delle comunicazioni guidata da Corrado Calabrò), nella sua ultima relazione non se ne è occupata granché. Ha dedicato molto spazio alla Rai e a Mediaset, alla distribuzione della pubblicità, alla libertà di stampa e alla par condicio, all'analfabetismo degli italiani per quel che riguarda internet, vero ostacolo alla banda larga per tutti. “La tv è una finestra aperta sul pianeta e la nostra è spesso una finestra sul cortile”, racconta con icastico lirismo Calabrò. E scendere improvvisamente da cotante altezze per toccare le miserie delle bollette telefoniche, fa venire il capogiro. Tuttavia, siamo sicuri che la competitività del “sistema paese” (per usare un'abusata quanto brutta espressione) si misuri più con i decoder che con servizi base come la telefonia?
Persino la saga dell'alta velocità ferroviaria è stata censurata dall'Antitrust. “La scelta commerciale relativa alla denominazione dei treni Eurostar City Italia è stata valutata come una pratica scorretta – scrive l'ultima relazione dell'Autorità garante della concorrenza – per treni che, sia con riferimento al materiale rotabile, sia con riferimento alle prestazioni del servizio di trasporto o ai tempi di percorrenza e alle fermate, erano analoghi alla categoria Intercity e non alla categoria superiore Eurostar, alla quale invece erano stati parametrati i prezzi”. Linguaggio tortuoso, ma significato chiarissimo: le Ferrovie non hanno cambiato il servizio, ma hanno rincarato i biglietti, a scorno e danno dei viaggiatori. “Pratica scorretta”, che si aggiunge a numerose altre. Risultato? Una multa di 845 mila euro. Una goccia nel mare.
Cosa possono fare davvero le tante, multiformi Authorities? Comminare sanzioni pecuniarie tutto sommato blande, scaricate dalle aziende sugli utenti, attraverso labirintici percorsi. O ricorrere alla moral suasion come la Banca d'Italia e l'Isvap nei confronti di banche e assicurazioni. Un tempo c'era l'autorizzazione formale, oggi la cultura amministrativa viene progressivamente soppiantata dalla cultura negoziale; i poteri si adeguano, diventano più flessibili e interiorizzati. Avviene ovunque, nelle società che si affidano al mercato, quella transizione dal macropotere hobbesiano, unificato, centrale, chiaramente individuabile, alla microfisica del potere, già descritta da Michel Foucault in ambiti diversi dall'economia. Eppure, resta la sensazione di essere passati dai capricci dell'autocrate alle bizze del caso. Ciascuno svolge il proprio compito con la dovuta serietà e perizia, sia chiaro. Non è in discussione l'onore di Bruto. Ma il risultato finale è un eterno disinganno.
L'Authority, mito del pensiero liberaldemocratico con il suo culto delle regole, alfa e omega della sinistra liberalizzatrice che sceglie la concorrenza ma non vuol rinunciare al governo dell'economia e della sua complessità, non ha impedito che, durante l'era delle privatizzazioni, ai monopoli statali si sostituissero nuovi oligopoli. Con vantaggi toppo scarsi per gli utenti, come i casi dell'energia, dei telefoni e delle autostrade dimostrano.
Possiamo estendere il dubbio metodico anche alla Consob, la Commissione nazionale per le società e la borsa. Davvero Piazza Affari è diventata più solida e trasparente, dominata com'è dai titoli delle grandi banche e delle assicurazioni? Nella sua ultima relazione, presentata il 13 luglio, il presidente Lamberto Cardia ricordava di aver “riscontrato una generalizzata lentezza nel passaggio dei principali gruppi bancari ad un'ottica imprenditoriale che ponga realmente al centro delle strategie aziendali il servizio al cliente”. Fuor di metafora, i processi di concentrazione e aggregazione che hanno prodotto Unicredit, Intesa, Montepaschi, Ubi e altri gruppi minori, rafforzano il potere dei banchieri e la loro “centralità” nella economia italiana (con inevitabili ricadute politiche), ma non accrescono abbastanza l'efficienza dei servizi e non soddisfano, come sarebbe necessario, i clienti.
La Consob ha avviato ispezioni in cinque grandi banche “finalizzate alla verifica delle concrete modalità di attuazione dei principi di correttezza comportamentale”. Tra questi criteri c'è anche il modo in cui sono stati offerti al pubblico titoli più o meno tossici, derivati più o meno gestibili, obbligazioni più o meno garantite. Insomma, il modo in cui il collasso della turbofinanza ha attraversato anche il sistema bancario italiano. Le indagini sono state aperte prima delle vacanze estive. Vedremo se prima delle vacanze natalizie avremo qualche risultato. E speriamo che non sia un “liberi tutti”.
“Più concorrenza e più rispetto dei consumatori”, ha chiesto Antonio Catricalà presidente dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato (in acronimo Agcm, da non confondere con Agcom) nella relazione annuale presentata il 16 giugno al Parlamento. E chi non è d'accordo? Ma ogni anno si ascolta lo stesso cahier de doléances e il plurielogiato presidente squaderna il suo libro dei sogni, nemmeno fosse il mitico “Progetto Ottanta” di Giorgio Ruffolo.
L'antitrust nacque negli Stati Uniti, con lo Sherman Act, come arma per combattere i soffocanti monopoli. La Standard Oil di Rockefeller era il nemico numero uno, seguito da John Pierpont Morgan e dalla sua conglomerata bancario-industriale. Esattamente cento anni dopo, nel 1991, Guido Rossi, allora senatore della sinistra, è riuscito a far varare una legge che crea una istituzione ispirata alla legislazione americana e al suo sviluppo secolare (fallimenti compresi). Solo che il nemico questa volta è senza volto, diffuso nei gangli di un sistema dove merito e concorrenza sono variabili molto, molto dipendenti.
Le trecento e passa pagine dell'ultimo rapporto Agcm, sono zeppe di interventi e procedure contro chi viola le regole, eppure nella sua prolusione Catricalà esordisce lamentando che, è opinione ormai condivisa, l'Italia soffre di scarsa produttività riconducibile in ultima istanza a un difetto di competizione. Una vera e propria crisi nella crisi condanna il paese alla stagnazione. Dov'erano le Authorities mentre avveniva il lento e inesorabile scivolamento nella palude? Tutti questi controllori, sono solo profeti disarmati, o magari poco e male armati?
In realtà, siamo vittime di due paradossi. Il primo è che non sono mai mancate le regole e i regolatori (basta fare l'elenco di tutte le agenzie e le autorità esistenti negli Stati Uniti, dal livello federale a quello locale); eppure i mercati hanno fatto quel che volevano. Il secondo è che la crisi ha mostrato tutti i limiti del mito regolatorio; eppure da essa si vuole uscire con più regolazione. Così, nell'illusione di prevenire nuove cadute catastrofiche, vengono moltiplicate le Authorities con il rischio di creare una babele normativa. Barack Obama ha presentato una complessa riforma che elimina due strutture ormai inutili e ne istituisce un'altra per controllare le banche (National bank supervisor). Ma sta subendo il contrattacco di chi rifiuta la riforma e non vuol rinunciare alla comoda poltrona davanti alla quale persino potenti businessmen sono costretti a prostrarsi. Mentre in Congresso sale l'opposizione contro gli strapoteri che verrebbero attribuiti alla Federal reserve. L'Unione europea vuol creare due strutture dai poteri poco più che consultivi, destinate tuttavia a pestarsi i piedi con la Banca centrale.
Emerge al di là e al di qua dell'Atlantico, un farraginoso processo di superfetazione burocratica che lascia perplessi anche i più entusiasti cultori di legal standards vecchi e nuovi. Altro che giustizieri pubblici e tribuni della plebe. Torna attuale lo scetticismo di Hayek su governi e parlamenti quando cercano, più o meno arbitrariamente, di regolare i mercati. Monopoli “buoni” e “cattivi”, diventano per forza di cose monopoli “amici” e “nemici”. E' la politica, indissolubilmente dominata dalla sindrome del partigiano. E' accaduto prima della crisi, accade adesso e accadrà anche dopo. Risvegliati dal sogno della de-regulation, meglio evitare la trappola della re-regulation.
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