Non è un paese per Dylan

Stefano Pistolini

Questo non è un paese per Bob Dylan. Sì, parliamo dell'America. Ma non la sua America, quella degli hobos che vagano sui treni merci e dei bohemien del Village. Ma di quella blindata, ipercontrollata e sospettosa del 2009. La stessa che ha mandato in escandescenze il professor Gates ad Harvard un mese fa, quando è stato arrestato perché cercava di entrare nel suo appartamento.

    Questo non è un paese per Bob Dylan. Sì, parliamo dell'America. Ma non la sua America, quella degli hobos che vagano sui treni merci e dei bohemien del Village. Ma di quella blindata, ipercontrollata e sospettosa del 2009. La stessa che ha mandato in escandescenze il professor Gates ad Harvard un mese fa, quando è stato arrestato perché cercava di entrare nel suo appartamento avendo dimenticato le chiavi e dopo la soffiata di una vicina che da dietro le tende ha creduto bene di chiamare la polizia (c'è un nero che armeggia attorno a una serratura). Pensateci: in America può esistere qualcosa di più famoso e riverito - nonché in circolazione da molti più anni di Barack Obama - che non Bob Dylan? Macchè. Picche. Anche l'ormai 68enne leggenda della musica, bianco, ebreo e gracilino, incappa nella griglia dell'anormalità, quella che rende potenzialmente pericoloso, tanto più al di fuori delle principali metropoli, chiunque sia sconosciuto e si comporti in modo anomalo, seppure inoffensivo. Ecco dunque sua Bobbiness, che quel giorno di stravaganze ne ha commesse fin troppe, di passaggio da Long Branch, spicchio anonimo del New Jersey. Dylan era in città per un concerto con due vecchie pellacce come lui, Willie Nelson e John Mellencamp, dal momento che, ormai da parecchi anni, ha deciso di vivere in tournèe permanente, sempre in giro per il mondo, dando forma d'arte al principio “chi si ferma è perduto”.

    Per ingannare il tempo, Bob decide di fare una passeggiata
    - sotto la pioggia, pensate un po', prima bizzarria in odore di cattive intenzioni. Poi s'infila nel cortile di una casa, per dare un'occhiata a una proprietà in vendita. Sbircia dalle finestre. Colpito, affondato. Un tipo del fabbricato lo vede, s'insospettisce e automaticamente chiama la polizia, che arriva in un baleno. E che, nelle parole dell'agente Kristie Buble, una pivella di primo pelo, si trova davanti un vecchio dall'aria spiritata, vestito strano, che sosteneva di essere Bob Dylan e che non aveva con sé documenti: “Si comportava in modo sospetto. Non avevo idea di chi fosse. Ho pensato fosse un anziano scappato da un ospedale”. Fortuna che i due agenti, anziché portarlo subito in questura, hanno acconsentito ad accompagnarlo in albergo, dove Dylan ha potuto dimostrare d'essere chi asseriva di essere.
    Ulteriore riflessione che si trae dalle procedure degli imberbi poliziotti di Long Branch: è in atto un colossale, spaventoso gap generazionale, in barba a chi pensava che i “matusa” anni 60-70 avessero assaporato la massima umiliazione, quanto a distacco nelle scelte culturali rispetto ai figli. Invece oggi niente di più normale che due giovani agenti di polizia non abbiano la più pallida idea di che faccia abbia - e forse anche di chi diavolo sia - Bob Dylan, genio, voce e volto della loro nazione. Ergo, questo, paradossalmente, adesso non è più un paese per Dylan. E figuratevi se potesse mai essere un paese, chessò, per Jack Kerouac e i suoi amici, i poeti-scavezzacollo riveriti, lì e qui, come prodotto puro di quello stile di vita diverso dagli altri, conseguenza naturale dell'accento messo sulle libertà individuali e sull'autodeterminazione. Non passerebbe giorno che da dietro i vetri un buon cittadino ne giudicasse impropria la loro condotta, giù on the road, per strada. Meglio che costoro stiano alla larga dai Long Branch d'America, impuniti, eterni ragazzi, sopravvissuti interpreti di costumi non più consentiti. Anche se, per ora, su al consiglio comunale ancora non è arrivato al voto l'istituzione delle ronde di volontari, per il controllo della buona creanza nazionale.