Rave, corsa verso il nulla

Marianna Rizzini

Che cosa c'è nella testa di chi va a un rave. Questo ci si chiede quando un ragazzo muore a un rave. Ecco che cosa c'è nella pancia della balena di Pinocchio, questo pensai io quando andai a un rave, qualche anno fa. Perché questo c'è, in un rave: il buio, lo scuotimento, la culla, il terremoto, la fine del mondo, l'alba che la esorcizza, i cerchi improvvisi di luce e quel battito – un battito di cuore o un polmone che sputa aria talmente forte da sembrare un cuore.

    Che cosa c'è nella testa di chi va a un rave. Questo ci si chiede quando un ragazzo muore a un rave (come è accaduto a Ferragosto, in Puglia e in Molise). Ecco che cosa c'è nella pancia della balena di Pinocchio, questo pensai io quando andai a un rave, qualche anno fa. Perché questo c'è, in un rave: il buio, lo scuotimento, la culla, il terremoto, la fine del mondo, l'alba che la esorcizza, i cerchi improvvisi di luce e quel battito – un battito di cuore o un polmone che sputa aria talmente forte da sembrare un cuore. Si balla nello stomaco di un mostro pulsante che chiama tutti all'uniformità del battito. Si fissano i denti dei vicini di danza, fauci bianche che sorridono, e solo quelle si vedono, sotto il raggio della luce stroboscopica. Come in un ossario, come al museo egizio. Il rave ha un che di preistorico. E' un tornare indietro – o dentro (al ventre materno? alla madre Africa? all'universo prima del Big bang? all'oceano prima delle terre emerse?). Io al rave ci andai per il ballo – senza sballo – con quattro amici mediamente sballati. Andai, ballai, mangiai un panino gommoso per reggermi in piedi, presi due vodka tonic, presi dell'acqua, mi venne sonno, uscii fuori a riveder le stelle, mi annoiai, rientrai, ballai un'altra ora, vidi un ragazzo accasciarsi, mi avvicinai e indietreggiai quando quello si risollevò come un giocattolo a molla nella sua scatoletta. Poi mi fermai su un muretto a guardare l'hangar ricolmo e sentii che il battito del mostro catturava di nuovo anche me che non avevo preso nulla.  Né speed né ecstasy né eroina né cocaina, bastava il battito per provare quell'ebbrezza mista a paura. Ebbrezza-paura di far parte di una marea sorda di duemila, tremila o diecimila ballerini intenti a ballare soli con se stessi, con un fantasma, con un'ossessione, con l'angoscia del futuro, con la noia del presente, con una gioia da amplificare. Occhi nel vuoto, sorriso nel vuoto, un'enorme onda di dentiere danzanti.
       
    Al rave non si va per socializzare. Non si va per innamorarsi. Non si va per farsi vedere. Non si va per sentirsi bene. Si va per tirare fuori. Tirare fuori qualsiasi cosa: inquietudine, ambizione repressa, rabbia, persino orgoglio di sé da festeggiare nell'ottundimento sonoro, alcolico o acido – c'è anche gente che va al rave per celebrare la laurea o il nuovo lavoro, così, come fosse un rito di iniziazione, come facevano quelli che un tempo andavano a donne a casaccio, solo perché erano diventati grandi.
    Io ballavo in piedi, con un sonno terribile, o forse dormivo in piedi come i cavalli. Dormivo ballando e pensavo all'amica d'infanzia che qualche anno prima, a un rave a Berlino, era rimasta sotto ecstasy – mesi di delirio verbale, frasi d'onnipotenza tipo “io sono il re, io sono dio” ripetute senza sosta al telefono. Pensavo che poi l'amica era guarita, e non era colpa del rave, in verità, ma solo della pastiglia presa prima di andarci (“tagliata chissà come”, aveva detto un suo parente). Il rave mi interrogava e mi inquietava, sì, ma non certo per la ragazza che girava con l'ampolla – ampolla con ketamina sciolta, mi disse un amico (“hai presente la ketamina, quella che secondo gli scienziati porta il battito del cuore al battito della cassa?”). Non certo per l'amico dell'amico fatto di Mdma (“ti senti come se amassi tutti e tutti amassero te”, diceva da lucido). Tutte persone e sostanze che si possono incontrare ovunque: in discoteca, a una festa affollata, in riva al mare, pure alla cena con pochi intimi. Quello che mi inquietava e attraeva nel rave era qualcosa di più sottile, una sensazione sottostante. Forse la facilità di provare una piccola morte sensoriale attraverso quel battito. Forse la gente pressata come in autobus che si guardava senza vedersi, gente che sembrava felice di stare sola in mezzo a centomila sconosciuti.

    Quella sera vidi persone barcollare con l'aria beata
    e assieme disperata, gente in cerca di cibo, gente in cerca di bagno chimico –  esattamente come ai tempi di Woodstock, raccontano oggi i reduci di Woodstock, memori della pioggia scrosciante e della ricerca affannosa di un bagno in mezzo al fango. Mi sembrò una corsa contro l'horror vacui che finisce in un nulla vero. Divertente la prima ora, irritante la seconda, terrorizzante la terza.
    Avevo trovato, due giorni prima, a una festa “normale”, un foglietto nero e rosso, una pubblicità di un rave, appunto, che spiegava come il rave fosse nato “per la liberazione dalla catena del lavoro”. L'hanno inventato gli operai inglesi, diceva il volantino. L'hanno ripreso i ribelli ecologisti delle street parade, dicevano alcuni intenditori. Il rave non ha nulla di ribelle, pensai io il giorno dopo il rave. E alle prime luci della mattina, quando un sole freddo di primavera illuminò un prato spelacchiato fuori dall'hangar ancora pulsante, mi colpì la visione di una mamma (con bambino) che usciva da una tenda. Guardai meglio ed erano due tende, e almeno tre mamme con bambini. Qualcuno mi spiegò che “la tribù dei rave” era come un circo, come una vecchia stirpe viaggiatrice, si va tutti insieme dietro ai camion. Un altro mi disse che alcune famiglie seguivano gli eventi musicali improvvisandosi venditori ambulanti o scaricatori di luci e impianti (“sai, gli impianti sono nascosti nel retro dei vecchi camion, perché queste sono feste illegali”).
    Oggi si sa che il rave non è mai così segreto e che in Italia è illegale in città e più o meno tollerato fuori città. Lo si sapeva anche prima delle morti di questi giorni, prima del dibattito flebile tra pro-rave e contro-rave e prima delle grida di chi vorrebbe proibire ex post. In ogni caso quelle famiglie paracircensi, e quei viaggi dietro a un dio-techno da seguire, mi parvero quanto di meno ribelle e meno creativo potesse esistere. Che l'utente di rave sia fatto o non fatto, ciò che è certo è che al rave non si respira aria di liberazione, pensai quella notte. E quell'imperativo “muoviti muoviti muoviti” – una volta superate le tre-quattro ore di resistenza danzante umanamente possibili – mi suonò inesorabilmente come un “smetti di pensare, smetti di parlare, torna alla clava, torna alla stele di 2001 Odissea nello spazio”.
     

    • Marianna Rizzini
    • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.