La ragazza di buona famiglia che amava il beat e De Andrè
Fernanda Pivano, la pasionaria che importò i miti letterari dell'America
Quando, per l'ennesima volta, raccontava del suo primo incontro con Kerouac, o delle battutacce di Hemingway, entrambi stupiti della sua non disponibilità sessuale, a Fernanda Pivano, morta ieri a novantadue anni e un mese esatto, ridevano gli occhi. I “suoi” scrittori americani – quelli che ha fatto conoscere in Italia, ma anche quelli, come Paul Auster, che ha quasi “inventato” lei – Nanda li amava davvero, appassionatamente.
Quando, per l'ennesima volta, raccontava del suo primo incontro con Kerouac, o delle battutacce di Hemingway, entrambi stupiti della sua non disponibilità sessuale, a Fernanda Pivano, morta ieri a novantadue anni e un mese esatto, ridevano gli occhi. I “suoi” scrittori americani – quelli che ha fatto conoscere in Italia, ma anche quelli, come Paul Auster, che ha quasi “inventato” lei – Nanda li amava davvero, appassionatamente. Ma sempre platonicamente, diceva, perché l'unico, vero e assoluto amore della sua vita era stato il marito (poi ex) Ettore Sottsass, il grande architetto e designer con cui ha girato l'America e l'India e del cui abbandono, in fondo, non si è mai consolata, lei che aveva litigato in casa per sposarselo.
Lei era la ragazza genovese di buona famiglia trasferita bambina a Torino, che suonava il piano e non abbandonava il filo di perle, nipote del fondatore del Berlitz, allieva di Cesare Pavese e compagna di classe di Primo Levi (un anno furono rimandati tutti e due). Attaccatissima al padre, alla memoria di un fratello morto giovane, a un'intera famiglia idolatrata, che le aveva dato una base solidissima (un piedistallo, forse) dal quale contemplare le stranezze, le pazzie, le intemperanze dei suoi poeti beat e di tutti i letterati più o meno maledetti di cui nel corso del tempo si è felicemente autonominata vestale. Un altro vezzo di Nanda era quello di far capire che lei di tutte quelle trasgressioni non aveva mai voluto provare nulla direttamente, e che proprio questa sua caratteristica le aveva conquistato la fiducia e l'affetto di Ginsberg, di Ferlinghetti, di William Burroughs e di colui che lei, sottovoce, diceva di considerare il più grande, Gregory Corso.
Le bastava essere la confidente, la demiurga, la traduttrice fedele. Troppo fedele, secondo qualcuno, quasi al limite della pedanteria, dicevano i non pochi nemici. Ma la sua versione dell'Antologia di Spoon River, e del poema beat di Kerouac, “Sulla strada”, furono obbligatorie nelle scarne o ricche librerie dei ragazzi nati nel dopoguerra e oltre. Paul Auster, Jay McInerney, Bret Easton Ellis, Jonathan Safran Foer, David Foster Wallace le devono tutti qualcosa, in ambito italiano, per il suo lavoro di promozione. Da eterna groupie, dicevano i maligni, anche per via dei suoi innamoramenti per Ligabue o Jovanotti, dopo la fortissima amicizia per Fabrizio De André, (il più grande poeta del secondo Novecento italiano, sosteneva Fernanda Pivano). In fondo, la sua vera arte, più importante dell'attività di traduttrice e di talent scout, è stata quella dell'amicizia. La sua è una storia fitta di ricordi e di amore per le persone e per le parole che, notte dopo notte – era insonne, e riusciva ad addormentarsi soltanto alle prime ore del mattino – fino ai suoi ultimi anni, è andata rievocando nei suoi infiniti quaderni scritti a matita, con la bella calligrafia da ragazza ben educata.
Nicoletta Tiliacos
Il Foglio sportivo - in corpore sano