Meglio il chinotto

Stefano Di Michele

Bisognerà provvedere con gruppi (ronde, volendo) di difesa del chinotto. La nobile bibita nostrana, dopo aver eroicamente combattuto sui fronti avversi tanto della Coca quanto della Pepsi, sta tornando, a leggere i dati, a nuova gloria. Meglio di trent'anni fa, quando gli Skiantos cantavano: “Il Chinotto è molto bello/ sale dritto nel cervello/…”.

    Bisognerà provvedere con gruppi (ronde, volendo) di difesa del chinotto. La nobile bibita nostrana, dopo aver eroicamente combattuto sui fronti avversi tanto della Coca quanto della Pepsi, sta tornando, a leggere i dati, a nuova gloria. Meglio di trent'anni fa, quando gli Skiantos cantavano: “Il Chinotto è molto bello/ sale dritto nel cervello/…”. Simbolo di gassata resistenza all'esportazione del beveraggio capitalistico, effervescente presidio di coscienze e stomaci democratici, per decenni ha rischiato di subìre la mesta sorte della dimenticanza. A richiamarlo una prima volta davanti alle più alte cariche istituzionali, pare sia stato Umberto Bossi nell'87: si racconta che l'ancora quasi ignoto capo leghista, ricevuto al Quirinale da Cossiga, di fronte all'offerta di qualcosa da bere abbia replicato: “Grazie, un chinotto”. Sconcerto del cerimonale: il chinotto non c'era.

    Da allora, comunque, pare che il frigorifero del Colle ne sia abbondantemente fornito. E di quanto e di come sia stata lotta dura e di lunga durata, quella per riportarlo agli onori dei banconi, ne diede anni fa testimonianza Rina Gagliardi, allora condirettore di Liberazione. Con illuminata saggezza, ma poca pratica considerazione, delle macchinette nella redazione del giornale comunista avevano fatto sparire i barattoli di Coca Cola per sostituirli con certe bibite scovate nel catalogo del commercio equo solidale. I redattori del giornale, salda militanza in cuore ma palato ormai votato alle lusinghe del capitalismo, andavano a procurarsi il pernicioso beveraggio americano nei bar intorno, e di nascosto lo introducevano in redazione. Rina, con vigile attenzione al rapporto tra la causa della democrazia e causa delle bibite, pattugliava i locali – e sempre frizzante dolore ne traeva: “Pure il centralinista, che è palestinese, ho beccato con la Coca Cola…”. E così, valida alternativa, si fece apostolo e militante della causa del chinotto tra i redattori bertinottiani: pazienza se non volevano tracannare le ghiotte bibite eque e solidali, ma sbracare del tutto davanti alla più bieca effervescenza capitalista...

    Molta gloria, appunto, c'è nella storia e nella simbologia del chinotto, che vanta in giro per il paese apposite arciconfraternite e partecipati club, capaci di scoprire antichi albi di Paperino degli anni Cinquanta dove zio Paperone brinda con apposito chinotto da lui prodotto, il “Chinotto Paperone”. E dunque, l'allarme da dove nasce? Dal fatto che, in maniera preoccupante, quelli che danno conto del rinnovato vigore della bevanda, sempre più l'associano a inquietanti parole genere: vintage o gourmet o, dioscampi!, happy hour. Il chinotto, come il peperoncino, sta bene tra le mani di un edile, un bidello in pausa pranzo, un tranviere assetato. Lì era la sua gloria e là si formava la sua epica. Ma trascinato nella mestizia sociale di un happy hour (lasciato indifeso tra le mani, diciamo, di un happyhourista), annusato da un gourmet e poi scaraventato nelle pagine di moda – ecco, la via del crimine che muta un'onorata bibita in un drink.