Da presidente-barzelletta a principe dei conti della serie A

Elogio filosofico di Claudio Lotito, profeta in contropiede del calcio italiano

Stefano Pistolini

Il discorso sulla rielaborazione del senso del calcio italiano – e la relativa analisi dell'“effetto-Lotito”, che riempie le cronache estive, quantificando il capolavoro gestionale del presidente della Lazio, incoronato come il più virtuoso e lungimirante dei dirigenti nostrani – va imboccato parlando di stanchezza, se non della sensazione di nausea che circonda il mondo del calcio di casa nostra: nausea per lo scollamento tra i valori (ogni genere di valore) del calcio e quelli della vita vera.

    Il discorso sulla rielaborazione del senso del calcio italiano – e la relativa analisi dell'“effetto-Lotito”, che riempie le cronache estive, quantificando il capolavoro gestionale del presidente della Lazio, incoronato come il più virtuoso e lungimirante dei dirigenti nostrani – va imboccato parlando di stanchezza, se non della sensazione di nausea che circonda il mondo del calcio di casa nostra: nausea per lo scollamento tra i valori (ogni genere di valore) del calcio e quelli della vita vera; nausea per la monetarizzazione sfacciata che sovrintende ogni aspetto del grande gioco, ai massimi livelli ma non solo quelli. Nausea per la ridondante figura del calciatore-mercenario, che un mese dopo i primi successi già adombra la ridefinizione di contratti appena sottoscritti – salvo far deflagrare la voglia di “nuove esperienze”. La nausea per la globalizzazione dilagante, che dopo avere divelto le barriere doganali, fa del calcio di oggi una babele popolata da finti campioni, promesse mai sbocciate, vecchi ronzini.

    Il paese, in ansia economica, ambasce occupazionali, pieno di tremori sul futuro, sbuffa forte di fronte alle pirotecnie del calcio-Sky e dei capricci di agenti, giocatori e allenatori perennemente sull'orlo della crisi di nervi. Gli italiani si confessano reciprocamente che fa un po' troppo schifo questo spettacolo, e che neppure i successi inanellati dal suo principale interprete – Massimo Moratti – placano la nostalgia per un sistema (e una partecipazione) improntata ad altro. E qui spunta Claudio Lotito, per anni presidente-barzelletta della serie A, se visto dall'osservatorio del calcio-Ibrahimovic. Lotito di meriti sul campo se n'era guadagnati già parecchi, prima evitando in modo miracoloso il fallimento della Lazio, inventando la rielaborazione del debito siderale accumulato dalla gestione-Cragnotti con un accordo con l'Agenzia delle entrate oggi iscritto tra i capolavori tributari del nostro paese. E poi proponendosi in modo martellante come profeta della rivisitazione dei principi fondativi del calcio italiano: un microfono sotto il naso e lui snocciolava il credo in un calcio in cui l'attaccamento alla maglia è valore discriminante, in cui l'atleta prima di parlare di soldi con la società va giudicato tatticamente, ma anche eticamente, degno di vestirne i colori (e a lui i colori della sua Lazio ricordano quelli della Madonna). Un calcio in cui s'inverte una tendenza consolidata: quella dei calciatori padroni del palazzo.

    Con prolissità accademica, citazionismo snervante, cocciutaggine indeformabile, Lotito spiegava che di bravi calciatori ce ne sono migliaia e che sottostare al divismo del calcio è una forma di consumismo malato. Che i bilanci devono essere sani, le spese misurate, gli acquisti prodotti alle condizioni migliori. Ne è nato un quinquennio strano di gestione dei colori biancocelesti, inizialmente inviso ai tifosi che rimpiangevano le vacche grasse del passato, i Mendieta e i Gascoigne. Si sprecavano gli striscioni, le contestazioni, le immondizie davanti alla villa del presidente: Lotito vattene, lasciaci sognare. Ma lui procedeva dritto per la sua strada: la squadra galleggiava dignitosamente, la rosa si ampliava, si registravano colpi di mercato che denotavano in Lotito un notevole fiuto nelle scelte tecniche (Pandev o Zarate, pescati nel secchio dell'anonimato). Infine, i primi successi tangibili: la Coppa Italia 2009, la Supercoppa strappata ai miliardari nerazzurri, e ora “lo scudetto dei conti” ovvero l'elaborazione dei bilanci societari della serie A secondo la quale a nessun altro club ogni punto conquistato in classifica è costato meno quattrini che alla Lazio, detentrice di un giro d'affari da 96 milioni a fronte di un monte spese per il personale di soli 30 milioni (l'Inter paga il successo in campionato con un rosso di 146 milioni). 

    Adesso poi un ulteriore fatto nuovo scava in direzione del cambiamento nella cosa calcistica italiana. Il presidente Berlusconi – fin qui secondo solo a Moratti per perdite di bilancio – dopo aver autorizzato una campagna acquisti estremamente morigerata, che ha fatto imbestialire gli ultras ma ha incuriosito gli osservatori disincantati del calcio italiano, adesso viene allo scoperto nei dintorni della linea-Lotito. “Troppi soldi ai calciatori”, “cifre immotivate”, dice con lo slancio di chi vuole sparigliare, evocando un calcio incongruo con le cose del mondo per come vanno oggi. Prospetta tagli del 50 per cento alle paghe dei campioni, si schiera con chi è convinto che il calcio sia bello non per lo scintillare dei nomi di battaglia di esotici attaccanti  (il mitico Cotechinho del Borgorosso FC), ma per la fede in uno sforzo comune. Se la discesa in campo del Cavaliere avrà seguito, si adombra una metamorfosi del nostro calcio decotto, sulla strada della salvezza. Orgoglio contro provincialismo. Identità a dispetto dell'affarismo. La sostanza del gioco che torna a prevalere sulla guazza delle forme. E Lotito diventerà il filosofo essenziale del calcio ritrovato. L'autore della sua ragion pura. L'estensore di un'estetica salvata dal calcolo maleodorante dei vantaggi individuali.