Forze armate, tasso di natalita' e canottiere di Bossi

Rileggere l'inno di Mameli e capire che i fratelli d'Italia non esistono più

Sergio Soave

Le esternazioni estive di Umberto Bossi sull'inno nazionale hanno riportato, certo involontariamente, l'attenzione su un testo che, al di là della sua mediocrità letteraria, rappresenta comunque un documento interessante delle idealità romantiche che animavano la gioventù patriottica degli anni del Risorgimento. Che cosa c'è di ancora vitale in quella retorica e in quelle concezioni della Nazione?

    Le esternazioni estive di Umberto Bossi sull'inno nazionale hanno riportato, certo involontariamente, l'attenzione su un testo che, al di là della sua mediocrità letteraria, rappresenta comunque un documento interessante delle idealità romantiche che animavano la gioventù patriottica degli anni del Risorgimento. Che cosa c'è di ancora vitale in quella retorica e in quelle concezioni della Nazione? L'Italia, che quando l'inno fu composto non era ancora uno stato, è cambiata moltissimo da allora, e non solo sotto il profilo istituzionale. L'appello introduttivo ai “fratelli d'Italia” fa pensare che allora l'Italia non c'era, ma i fratelli si. L'Italia dell'Ottocento era molto prolifica e tale è rimasta fino a oltre la metà del secolo successivo, le famiglie erano numerose e quasi tutti avevano parecchi fratelli e sorelle. Non fratelli d'Italia, forse, ma fratelli in Italia di sicuro. Oggi, invece, l'Italia c'è, ma i fratelli scarseggiano. Con un tasso di natalità che si avvicina a uno per ogni donna in età fertile, i fratelli stanno diventando un'eccezione. Il carattere proletario degli italiani ha segnato profondamente la storia di questi centocinquant'anni, nella duplice ma non opposta concezione della “nazione proletaria”, con tanto di aspirazione al “posto al sole” rivendicato persino da Giovanni Giolitti, che certo non era un avventuriero, e di “funzione storica e pratica” del proletariato, nella visione di Antonio Gramsci. Se la fraternità mutuata da Goffredo Mameli dalla mitologia giacobina aveva un carattere ideologico, essa si collegava a un sentimento fraterno di tipo familiare allora diffusissimo, del quale oggi invece cominciano a franare i presupposti demografici.

    Ai suoi fratelli Mameli annuncia che “l'Italia s'è desta”, il che significa che si era addormentata per secoli, peggio della principessa delle favole. L'Italia “di prima” cui sembra alludere era l'Italia romana e imperiale, dominatrice del Mediterraneo, in realtà lontanissima dalla sensibilità comune degli italiani, come il famoso “elmo di Scipio”. Questa allusione alle virtù guerriere della stirpe italiana è un topos dell'ideologia rinascimentale, che spazia dai settori radicali affascinati, come Mameli stesso, dalla milizia di volontari che correvano attorno a Giuseppe Garibaldi, a quelli moderati ben rappresentati da Massimo d'Azeglio che andò a cercare eroismo militare persino nell'epoca delle invasioni, celebrando le gesta di Ettore Fieramosca.
    In realtà il rapporto degli italiani con la forza armata è sempre stato piuttosto curioso. L'idea è sempre stata quella di vincere le guerre senza combatterle (così come nella sinistra si sognava di ottenere il socialismo senza le asprezze della rivoluzione). Così ci si gettò nel crogiolo delle guerre mondiali dopo aver atteso un anno per cercare di capire chi avrebbe vinto, nell'illusione quanto mai fallace di ottenere una vittoria facile e immediata, con forze armate perennemente impreparate e mal equipaggiate, forti solo di un po' di retorica garibaldina.

    La Vittoria, dov'è la Vittoria? La risposta di Mameli,
    quella di una vittoria “schiava di Roma” era già vecchia di quasi duemila anni. In realtà all'Italia la vittoria non ha giovato molto. Quella del 1966, in realtà, fu una serie di sconfitte italiane sul fronte austriaco di terra e di mare, compensate dalle vittorie vere dell'alleato prussiano, quella del 1918 fu considerata tradita o mutilata e provocò quel sentimento di delusione e di rivalsa che fu tra gli ingredienti del successo fascista. Ci andò meglio, va detto, con la sconfitta nel secondo conflitto mondiale, che si riuscì a trasformare nel suo contrario amplificando il senso militare di un fenomeno di dimensioni ridotte, anche se di elevato valore morale, come la resistenza partigiana.
    Per l'Italia, scrive Mameli, “siam pronti alla morte”. E' vero? Certo è che per lui, caduto a ventidue anni nella battaglia per la disperata difesa della Repubblica romana, lo fu, e per questo merita un rispetto che travalica le considerazioni sul valore letterario della sua opera più nota. Il beffardo destino contraddittorio che perseguita gli italiani ha messo lo zampino anche in quella morte eroica di un giovane patriota romantico. La ferita che lo portò all'altro mondo gli fu inferta non dagli zuavi nemici, ma per errore da un commilitone garibaldino. “Uniti, per Dio, chi vincer ci può?”. Magari, come spesso accade da noi, il fuoco amico.