Sotto la tenda

Toni Capuozzo

Oggi, alle prime luci del giorno, c'è stata un'altra scossa. I numeri dicono che erano le 5 e 44, la magnitudo  3.1, l'epicentro sulle montagne che ci sovrastano, il Sirente Velino. Ho sentito le voci del brusco risveglio rimbalzare da una tenda all'altra, e i cani abbaiare  a lungo.

    Oggi, alle prime luci del giorno, c'è stata un'altra scossa. I numeri dicono che erano le 5 e 44, la magnitudo  3.1, l'epicentro sulle montagne che ci sovrastano, il Sirente Velino. Ho sentito le voci del brusco risveglio rimbalzare da una tenda all'altra, e i cani abbaiare  a lungo. Poi, all'ora della colazione, chiunque incrociassi chiedeva se l'avessi sentita, e la gente scambiava commenti impauriti o rassegnati, qualcuno celando l'imbarazzo di  non averla avvertita, quella scossa degli ultimi sogni. La realtà continua a somministrare storie che non so più come raccontare, come a confermarmi il vecchio adagio sui cronisti che se stanno un giorno in un luogo scrivono un bel pezzo, se ci si trattengono una settimana fanno una brillante inchiesta, se ci restano un mese scrivono un libro, e se si fermano un anno stanno zitti, perché hanno imparato che le cose sono molto più complesse di come appariva al primo sguardo. Ho seguito il raccolto delle lenticchie, e ora so distinguere tra un campo di farro e uno di frumento. Ho registrato tante piccole vicende umane e piccoli miracoli e piccole ingiustizie, ma non so come sceglierle. Mi sono reso conto ancora una volta di come un terremoto assomiglia  una guerra, che soffia in ogni angolo, quando ascoltavo, in una lunga sera, il racconto dell'uomo che si è separato dalla moglie, e adesso non c'è più il luogo della convivenza forzata, e neppure i luoghi in cui il genitore non affidatario ha messo a posto come un santuario la cameretta della figlia. O quando mi hanno raccontato la storia del ragazzo che era schiavo, con la sorella, di un padre padrone violento, prigioniero di una casa prigione, e adesso la tendopoli l'ha liberato, e incomincia a parlare con qualcuno, a sorridere e a mettere su qualche chilo. O quando ho ritrovato un maresciallo dell'esercito che avevo conosciuto in Bosnia, ora in pensione e terremotato, e non avevo coraggio di porgli la stupida domanda sulla differenza tra aiutare ed essere aiutato, e gliel'ho posta, alla fine.

    Ho visto la prima discarica in cui finiranno le macerie del terremoto, messa a punto dall'Esercito. E' enorme, ma ce ne vorranno altre dieci almeno, per vivisezionare ogni cumulo, e separare mattoni e pietre e cemento da ferro e da legno, e neutralizzare l'amianto, un'autopsia della memoria. Ho ammirato il pittore Mariani, che ha perso tutto e lavora con i brandelli di intonaco della sua casa e con colori tratti dai fiori del giardinetto in cui si è accampato con la roulotte. Sono stato nelle grotte di Stiffe, dove domani consegnano nove casette, dove sulla chiesetta sventola la bandiera dei quattro mori piantata dai  vigili sardi che l'hanno messa in sicurezza, e dove si rimpiangono i sessantamila visitatori l'anno, e mi sono chiesto se abbia senso occuparsi di grotte quando mancano i tetti. Ha senso, se arrivi a capire che nulla sarà mai più come prima, e devi inventarti un futuro, che arrivi persino a rimediare le imperfezioni del passato, non solo le ferite del sisma. E' impietoso, il terremoto, perché rappresenta una sfida, a mani nude, e con l'anima messa a nudo. Perché ti obbliga a dimostrare a tutti e innanzitutto a te stesso, che sei davvero forte e gentile, e sei capace di restare unito, di evitare le guerre tra poveri che covano già: attendati contro sfollati, case distrutte contro case lesionate, chi plaude agli abbattimenti che gli consentono di accedere alla sua casa, e chi lamenta il vuoto di quella che è stata la sua casa, la città contro i paesi, i pragmatici dell'emergenza contro i visionari del futuro. Vedo passare gli altri giornalisti, il giorno di Ferragosto o quando viene Berlusconi, e ho incontrato il caro Jenner Meletti, che mi ha detto… “Eh… mi hai attaccato sul Foglio”. No, gli ho detto, ho solo fatto notare il titolone in prima pagina sul paese di Castelnuovo dimenticato, e il fatto che non hai raccontato di come tutti gli abitanti della frazione ce l'abbiano in realtà con il sindaco e non ti sei accorto che il sindaco è un sindaco del Pd.  Voglio bene a Jenner, ma non mi piace chi si aspetta il fallimento e si siede ad aspettare sulla riva del fiume il cadavere del premier e di Bertolaso.

    La corrente trascinerebbe tutto l'Abruzzo del terremoto.
    Mi piacerebbe facessero come in Friuli, tutti uniti a ricostruire, certo con dibattiti e lacerazioni, ma guerre sospese, come se fosse un'olimpiade. Qui non è così, anche se io non chiedo ai sindaci di che coalizione facciano parte, non mi interessa. Forse il premier avrebbe dovuto firmare di meno la sfida, e trascinarsi dietro a braccetto un qualche leader dell'opposizione. Forse non siamo un paese capace di sospendere le guerre. Ho visto Verdone, qui, e anche se ha fatto qualche faccia delle sue per non deludere chi lo aspettava, era un altro, le cose che aveva visto e le persone che aveva sentito lo facevano essere un altro. E ho visto Benigni: affettuoso, solidale, ma sempre lui. Ha fatto un comizio, detto cose belle su Inferno e Paradiso, e invitato tutti a urlare e protestare, se serve. Appello raccolto, ma ha piovuto sul campo indesiderato, per lui. Oltre alle proteste dei genitori preoccupati per la sicurezza delle scuole, il malumore è contro il comune dell'Aquila. Come un contrappasso, per i forzati delle ideologie.