Memorie di un vecchio cinema paradiso. Catalogo delle censure

Stefano Di Michele

C'è da dire che fu subito chiaro quanto potesse risultare perniciosa la visione de “Il barone Carlo Mazza” – reso godibile in scena da Nino Taranto, e non tanto per il barone, si capisce (anche se con quel nome), quanto per la possibile baronessa – da intedersi Silvana Pampanini nelle vesti di Rosa Pezza.

    “Importa che il popolo conosca chiaramente quali pellicole sono lecite per tutti e quali lecite con riserva, quali sono dannose o positivamente cattive”. (Papa Pio XI, dall'Enciclica “Vigilanti cura”)

    “Quando vengano eliminati tutti i fotogrammi rappresentanti le ballerine in teatro, il film può essere classificato: per tutti”. (Giudizio del Centro cattolico cinematografico su “Il caimano del Piave”. Volume XXIX - 1951, pag. 139)

    C'è da dire che fu subito chiaro quanto potesse risultare perniciosa la visione de “Il barone Carlo Mazza” – reso godibile in scena da Nino Taranto, e non tanto per il barone, si capisce (anche se con quel nome), quanto per la possibile baronessa – da intedersi Silvana Pampanini nelle vesti di Rosa Pezza. E dunque: “Esso ci rappresenta grottescamente un modo di pensare e di vivere condannabili, per cui il matrimonio diventa semplicemente una losca speculazione, i sacramenti diventano oggetto di parodie blasfeme, di scherzi irriverenti. La visione è esclusa per ogni specie di pubblico”. Niente a che vedere, per dire, con “L'onorevole Angelina”, il bellissimo film di Luigi Zampa, dove Anna Magnani veste i panni di una popolana che “guida gli sfollati a occupare i palazzi del loro padrone di casa”, e si fa persino arrestare dalla polizia. Una testa calda, si direbbe, pur per buone e giuste cause. E invece, lodato “l'incomparabile talento interpretativo di Anna Magnani”, si annota: “Il lavoro è ispirato a concetti morali sani ed elevati: malgrado qualche volgarità formale, non impone riserve e può essere visto da tutti in sala pubblica”. Certo, va notato che alla fine la focosa Angelina acclara e declama che “la miglior politica una donna la fa a casa sua”, ma intanto ha preso pure le misure, diciamo, con i questurini.
    Ma se il barone Carlo Mazza aveva dato da ridire, “I pompieri di Viggiù” quasi rappresentano quanto di più vicino all'anticristo cinematografico visto fino ad allora, dal momento che l'innocente filmetto “serve soltanto a sollecitare gli istinti più bassi, mediante esibizione di nudità audaci, inquadrate da un frasario e da canzoni triviali, sfrontatamente immorali e oscene. Non manca la profanazione dei più sacri sentimenti”. C'è da deplorare, ed è poco: c'è da contestare: “Dobbiamo elevare la più fiera protesta contro la produzione e la diffusione di simili lavori. La visione è esclusa per tutti”. Meglio, molto meglio, se proprio al cinema si deve andare, godersi nientemeno un film di Jean Cocteau, “La bella e la bestia”, addirittura interpretato dal suo amato (dal regista) Jean Marais (magari certe faccende non erano arrivate alle orecchie dei devoti critici): “Viene esaltato soprattutto l'amore che può fare di un mostro un uomo. Il film è moralmente positivo e può esser visto da tutti in sala pubblica”.

    Si capisce, quindi, come anche il dimenticabile (e dimenticato, pare: ma come si fa, con un titolo così?) “Marakatumba, ma non è una rumba!”, con Renato Rascel, dove “il rag. Filippo De Bellis è innamorato d'una ballerina”, possa suscitare qualche sospetto dato che “comprende sequenze con donne in costumi molto succinti. Il dialogo è scurrile e infiorato da doppi sensi libertini. La visione, riservata agli adulti in piena maturità morale, è da sconsigliare”. E certo sorprende il giudizio positivo su “Ivan il terribile”, gran filmone sovietico del gran Eisenstein, “visibile da tutti in pubblica sala”, accertato che “pur non risultando spettacolarmente attraente risulta tuttavia artisticamente notevole”.
    C'è il prete di “Nuovo cinema paradiso”, ricordate?, quello che scampanella appena sullo schermo scorre un bacio, una bocca sensuale maschile o femminile (più femminile), un seno, un abbraccio troppo forte, uno sguardo che s'intuisce pericoloso. E il bacio e l'abbraccio e la bocca e il seno e lo sguardo scompaiono – per ricomparire alla fine tutti insieme, commoventi e intensi, nel film di Giuseppe Tornatore. Qui si racconta l'antefatto di quel vigoroso scampanellio – di come un bacio saltasse, e magari un gran capolavoro trovasse sorprendente entusiasmo. Racconto di fobie e paranoie e ipocrisie, ma pure dovuto omaggio all'intelligenza di certi preti (e di molti cattolici) cinematografari. Tenete a mente questa nota (Boll. Uff. dell'ACI – Anno XIX, n. 1, gennaio 1941-XIX): “Richiamiamo l'attenzione e la vigilanza degli Uffici Diocesani sopra l'esercizio delle sale cinematografiche dipendenti dall'Autorità Ecclesiastica. Per evidenti ragioni d'ordine morale e per altre gravi ragioni è necessaria una severa disciplina, e questa disciplina conforme alle disposizioni della Enciclica ‘Vigilanti cura' di S. S. Pio XI, di v. m., esige che si stia alle indicazioni della Commissione Centrale di Revisione, che funziona presso il Centro Cattolico Cinematografico”.

    Sono piccoli volumetti tascabili, di color grigio – qualcuno, un po' più vecchio, di un giallino senza senso. Alcuni sono alti diversi centimetri, altri più o meno come una rivista. Tutti hanno questa indicazione: “Centro Cattolico Cinematografico. Segnalazioni cinematografiche”, segue il numero del volume: dalla metà degli anni Trenta ai primi anni Cinquanta. Il giovane immigrato che pattuglia la bancarella di libri usati li guarda con rassegnata distrazione. “Sono venticinque. Che tu li vuoi?”. Fa il prezzo buono, come promesso. Ed è la divertita scoperta di un mondo. Centinaia e centinaia di schede sui film: trame (magnificamente riassunte), giudizio critico, giudizio morale. E spesso i due giudizi non coincidono, anzi spessissimo il primo è ottimo pur se il secondo è pessimo. Per esempio, ecco un classico come “Il grande sonno” con Humphrey Bogart. Giudizio critico: “Questa trama complicata e oscura è realizzata con ottima tecnica cinematografica. La recitazione è efficace”. Giudizio morale: “Sconsigliamo ad ogni specie di pubblico di visionare questo film, nel quale non sapremmo trovare un elemento morale di qualche efficacia”. Oppure “Sinfonia pastorale”, di Jean Delannoy, dal romanzo di Gide: prima lo si loda “per merito dell'accorta regia e dell'ottima interpretazione”, poi si invita l'universo mondo a starne alla larga, “siamo nel dominio della bieca fatalità. Sconsigliamo ad ogni specie di pubblico la visione di un film, ispirato a così dolente pessimismo”. O anche un classico come “La cena della beffe” di Alessandro Blasetti, dove appare il primo seno nudo (di Clara Calamai) della storia cinematografica italiana – siamo nel 1942. Si riconosce intanto che “la pellicola ha brani esteticamente notevoli”, si sottolinea poi “un intreccio di libidine, di brutalità e di libertinaggio” che “rendono, in sede morale, il film deplorevole e, pertanto, da escludersi per ogni genere di pubblico”. Certo, alcune volte, pur animati dalla migliore intenzione, gli acuti osservatori del Centro cattolico cinematografico se la vanno a cercare. Chiaro che se uno decide di vedere “La seduttrice” con Joan Fontaine noterà che “non mancano scollature pronunciate e atteggiamenti sensuali”; che se incappa in un manufatto come “Ballerine” (roba del 1936) troverà “amoralità e immoralità dell'ambiente e dei sentimenti professati dai protagonisti”; che se va a infilare il naso in una pellicola titolata “Orgasmo” non potrà non segnalare che “si deplora ancora una volta la presentazione di simili lavori che fanno appello soltanto ai più bassi istinti e offendono ogni delicato sentimento” (e che si aspettavano?); e che si vuol vedere “Fascino”, con Rita Hayworth, si rischia il parapiglia ormonale, “l'esibizione sfacciata di nudità portata in primo piano, la sfrenatezza delle danze,il significato libertino di certe battute, imprimono al lavoro un particolare carattere d'immoralità”; infine, per “La vergine folle” il titolo basta e avanza, “pernicioso moralmente e socialmente”.

    Ugualmente, con un film con una trama (e viene notato dai recensori) del tutto innocua, “Il lattaio suona solo una volta” (1951), ci si trova a darsi da fare per consigliare l'eliminazione di certe frasi: “Breczy, nella 1° parte: ‘Sognavo d'essere a letto ecc.'; e i compagni: ‘gl'insegnerai anche a portare le ragazze ecc.'; altre frasi di Breczy sulle donne”. Pure una comica di Stanlio e Ollio, “Allegri poeti”, ha bisogno di una raddrizzata, “alcune scene con baci prolungati impongono una riserva”. Ma l'abominio massimo, diciamo così, su questo fronte, forse è raggiunto dal variopinto “Bellezze al bagno”, uno di quei film di balletti acquatici con Esther Williams: una serie di qualche notorietà e di diffusa noia. Casomai, ci pensano proprio quelli del Centro cinematografico cattolico ad accendere l'interesse, altroché. “Lo scopo evidente del lavoro è l'esibizione di nudità femminili, presentate con tutti gli accorgimenti, che possono servire a rendere lo spettacolo più eccitante” – praticamente un invito a mettersi in fila fuori dal cinema. E ancora: “C'è poi anche una lunga sequenza, in cui si vede un giovanotto aitante danzare goffamente, in costume da ballerina tra le risate di uno stuolo di colleghe” – praticamente un invito a raddoppiare la fila. “E' deplorevole che una grande casa cineamatografica usi dei suoi larghi mezzi per l'allestimento di spettacoli immorali e ripugnanti” – praticamente un invito al tutto esaurito. O invece l'abominio massimo è rappresentato da “Desiderio”, opera di Roberto Rossellini e Marcello Pagliero, “verismo documentario assai lontano dalla mentalità di un pubblico sano”, dunque “pernicioso ed immorale nel concetto e nello svolgimento”, si capisce “assolutamente inaccettabile”. E la sentenza, qui, nientemeno è scritta tutta a caratteri maiuscoli – e affidata ad altri: “L'AUTORITA' GOVERNATIVA HA EMANATO UN PROVVEDIMENTO PER CUI IL FILM STESSO E' STATO RITIRATO DALLA CIRCOLAZIONE”.
    Persino con le foche – e appunto si tratta di un documentario della Disney intitolato “L'isola delle foche”, del 1950 – bisogna stare allertati, “il lavoro, che si ferma a lungo sulla vita sessuale delle foche e sul loro strano sistema familiare, non costituisce uno spettacolo adatto ai giovani” – i Dico polari all'orizzonte? Fortunatamente, meno preoccupazioni suscitò il fenomenale Bambi. Quando il famoso cartone animato, anch'esso della Disney, uscì nelle sale nel 1948 il giudizio critico fu largamente positivo, “ci fa assistere anche ai rivolgimenti e ai drammi che l'attività dell'uomo o il suo egoismo scatenano in grembo alla pacifica natura”, e pure quello morale sulle attività del tenero cerbiatto virtuale risultò più consolante rispetto a quello sulle vispe foche in pelliccia e carne: “La descrizione degli amori degli animali, con accenni umoristico-sentimentali, è contenuta entro i limiti del lecito”.

    Ma si diceva, accoppiamenti sulle banchise polari a parte, dell'intelligenza delle cose che spesso guidava la scelta critica del Centro cattolico cinematografico. Per esempio su gran parte del cinema neorealista, che per decenni ha poi fatto la fortuna e il vanto del cinema italiano. Per alcuni di quei film, almeno. C'è “Miracolo a Milano” di Vittorio De Sica, che “comprende scene piene di poesia ed ispirate a un profondo sentimento d'umanità”, e dunque “pur prestandosi a interpretazioni di parte, il film, considerato oggettivamente, ha un contenuto positivo”. Il solito dilemma tra grandezza cinematografica e periglio per l'anima (ché i preti sempre sanno che spesso è il meglio che si vuole escludere) si ripropone per un altro capolavoro di De Sica: “Sciuscià”. Da un lato, “il film ha una potenza espressiva dovuta sia alla mirabile interpretazione sia alla minuziosa ricostruzione ambientale”, dall'altro “il genere stesso della vicenda e la eccessivamente realistica interpretazione inducono ad escluderne i giovani dalla visione”. La stessa identica situazione si ripete per “Paisà”, di Roberto Rossellini: certo, “il film ha dei pregi notevoli che in più di un episodio raggiungono un alto livello artistico”, però “la inserzione di un episodio moralmente sconveniente induce ad escludere almeno i giovani dalla visione del film”. Altro capolavoro di De Sica, “Ladri di biciclette”, altro difficile slalom tra considerazioni artistiche e considerazioni, diciamo, più oratoriali. Dunque, giudizio critico che va da “arte sobria e consumata” a “ottima l'interpretazione”, giudizio morale vagante tra “eccessivo pessimismo” e mancanza di “qualsiasi accenno al conforto della fede”. Perciò: “Il film mette a nudo reali storture e brutture: ma il modo, con cui sono prospettate certe situazioni e certi problemi sociali, rende il lavoro pericoloso per un pubblico impreparato. La visione, in sala pubblica, è ammessa soltanto per gli adulti in piena maturità morale”. Ancora più difficile il dilemma intorno a un altro grande film dello stesso anno, il 1948: “Amore”, di Roberto Rossellini. Due episodi: il primo, un magnifico monologo della Magnani tratto da “La voce umana” di Cocteau; il secondo, “Il miracolo”, eccolo riassunto nella scheda, “la storia di una povera contadina pazza, sedotta da uno sconosciuto, ch'ella ha scambiato con San Giuseppe in persona”. Si capisce che qui la faccenda si fa altro che perigliosa, soprattuto sul secondo episodio. Che, a sorpresa, comprende “sequenze cinematograficamente assai riuscite e di non comune interesse”. Poi, si passa alla morale e l'indignazione trabocca da ogni riga. Trattasi di “un'abominevole profanazione: dal punto di vista della religione e della morale ne dobbiamo deplorare vivamente la produzione e la proiezione. Sembra incredibile che si osi concepire e presentare al pubblico la parodia di un sacro mistero, la parodia di quel sublime racconto evangelico, che sta alla base di ogni credenza cristiana”. E meno male che Rossellini passava per il regista cattolico. Che pure con un altro suo capolavoro, “Germania Anno Zero”, ha poca fortuna. Al solito, gran bel film, “l'atmosfera di depressione e di miseria è resa molto bene, e l'interpretazione di quasi tutti i personaggi è ottima”, ma per carità, non andate a vederlo, “con il suo amaro pessimismo, con l'assoluta mancanza di ogni pensiero religioso, appare moralmente sbagliato ed è da condannare”. Giudizio duro anche su un altro classico del cinema italiano del dopoguerra, “Riso Amaro”, con la non poco provocante, si rammenta e si notò, visione di Silvana Mangano immersa nelle acque della risaia. Qui il giudizio è duro anche dal punto di vista della critica cinematografica, “tutto appare discontinuo: regia, recitazione, fotografia”, ma come sempre è sul versante morale che s'insiste: “Scene di un realismo sconcertante s'alternano con scene di violenza, con episodi dilettuosi: alla fine un suicidio. La vicenda, tutta intessuta di sentimenti e d'azioni condannabili, appare in complesso moralmente negativa. La visione è esclusa per tutti”.

    Non erano certo irrilevanti, i giudizi del Centro cattolico cinematografico. “All'epoca – ha ricordato Gian Luigi Rondi, decano e icona della critica cattolica in Italia – erano dei foglietti che venivano affissi all'ingresso delle chiese parrocchiali, o distribuiti dove si vendevano i giornali cattolici”. Il meccanismo era piuttosto complesso. Dunque, c'erano i “film ammessi per le sale di Istituzioni Cattoliche”. La sigla “O” significava che il film era “visibile senza emendamenti” in oratori e collegi e scuole, la sigla “Oc” che era “visibile con emendamenti”, la “P” che era “visibile senza emendamenti” nelle sale parrocchiali, la “Pc” che era visibile nelle stesse, ma solo dopo opportuni emendamenti (il famoso bacio che saltava, la rumba che spariva). In una nota, si spiegava che “le correzioni debbono essere indicate esclusivamente dagli Organismi all'uopo autorizzati dagli Ecc.mi Ordinari”. Poi, c'erano i film non ammessi nelle sale cattoliche, e destinati ai cinema, diciamo così, del circuito normale. La sigla “T” indicava “visibile da tutti in sala pubblica”, la “Tr” “visibile a tutti in sala pubblica con riserva dei più giovani”, la “A” “visibile agli adulti”, la “Ar” visibile agli adulti di piena maturità morale”, la “E” era la sigla di chi non aveva scampo: “Escluso per tutti”. Ha raccontato ancora Rondi: “Io ho tutte le schede di valutazione dei film, dal '46 ad oggi: quelli che prima spesso si escludevano, oggi sono ammessi ‘Per tutti'” La chiesa, con il passare degli anni, cominciò a riservare sempre più attenzione al cinema. Sempre Rondi, in una bella intervista a 30Giorni ha raccontato l'incontro con Pio XII, che stava preparando un discorso per il mondo del cinema. Il Papa allungò a Rondi le bozze del discorso pronte per la pubblicazione sull'Osservatore Romano, chiedendogli un parere su alcuni passaggi. “Me li fece leggere, per avere un mio giudizio, porgendomi le lunghe bozze di stampa dalla scrivania. Io le lessi con difficoltà, stando in ginocchio (…) All'epoca l'etichetta voleva che dal Papa si andasse unicamente in frac e si rimanesse perennemente inginocchiato (…) E così tutto il lungo dialogo con Pio XII si svolse in questa singolare posizione, dal momento che non mi venne dato il permesso di alzarmi. Quel testo divenne poi noto con il nome di ‘Discorso sul film ideale'” – con rispetto parlando, meglio di un'immagine cinematografica, quella del critico che in ginocchio davanti al Papa esamina le bozze del suo discorso…

    Certo, a rileggere oggi quelle schede di ieri, viene un po' da sorridere. Rispetto ai temi, sempre lì stiamo: il suicidio e l'adulterio, il divorzio e il matrimonio, il concubinaggio e l'abito succinto detto pure vestito sconveniente oppure abbigliamento immodesto, battute salaci, doppi sensi, fatalismo, dongiovannismo, danze immodeste, dialogo libertino, primi piani licenziosi… Spesso, in fondo alla pagina, l'annotazione: “Con opportune correzioni il film potrebbe ottenere una classifica più favorevole”. Scorreva di tutto, sotto gli occhi del Centro cattolico. Il povero Totò (molti i suoi film) era inevitabilmente bacchettato, “non è il caso di parlare d'arte”, e giù con “spettacolo censurabile”, “nudità”, “atteggiamenti sensuali”, “diffuso irriverente umorismo sull'istituto matrimoniale”, persino “47 morto che parla” è “ammesso solo per gli adulti di piena maturità morale”. Di tutto, in quelle schede. Tanto davano a Totò e tanto a Michelangelo Antonioni. Così è valutato il suo “Cronaca di un amore”: “Il crudo realismo e la fredda oggettività della narrazione accentuano ancora l'immoralità di questa triste storia d'amori peccaminosi, di propositi e d'atti dilettuosi. La produzione di simili lavori deve essere vivamente deplorata”. Persino la visione di “Mamma mia che impressione!”, con Alberto Sordi giovane esploratore della Parrocchietta innamorato della signorina Margherita, “è ammessa solo per gli adulti di piena maturità morale”. Senza appello il giudizio per “La terra trema” di Luchino Visconti, descrizione “tendenziosa” della vita dei poveri pescatori, “sembra atta a destare non sensi di cristiana pietà, ma sentimenti d'odio. Accanto allo spirito di violenza e di ribellione…”.
    Purtroppo, negli anni della guerra, è anche un fiorire di giudizi largamente positivi (visione consigliata per oratori o sale parrocchiali) su documentari di propaganda dei nazisti, tipo “La marcia su Parigi” che dimostra “la concezione genialmente strategica del Comando Supremo Germanico”; del colonialismo italico, e siamo “Sulle orme dei nostri pionieri”, e (comicamente?) “s'illustrano le difficoltà create dal governo del Negus ai tentativi di pacifica penetrazione da parte dell'Italia”; eroismi dei falangisti – una compagnia così…
    Le schede sono piene di film che sono diventati poi nel Novecento veri e propri classici (e qui, la dissonanza tra giudizio cinematografico e quello morale spesso è sorprendente). L'eterno “Casablanca” ha sì “una interpretazione di gran classe” – grazie Bogart, grazie Bergman – ma “i valori morali positivi si fanno strada soltanto alla fine”. Su “Via col vento” si torna due volte. Nelle schede del 1949 il film è “moralmente negativo” e “la visione è esclusa per ogni specie di pubblico”. In quelle del 1951 ecco il parere della Commissione di Revisione (pure) che, dopo averlo visionato doppiato e non sottotitolato, “ha ritenuto che il dialogo temperi in parte il contenuto negativo, per cui il film viene classificato per ‘Adulti con riserva' anziché ‘Escluso'”. A sorpresa, giudizio positivo per il bellissimo “Viale del tramonto” di Billy Wilder, giudicato “assai pregevole”, dove “la situazione prospettata è scabrosa, ma la vicenda è condotta con abilità e misura”. Ovviamente, certe pellicole sono destinate a pochissima comprensione. Come “Gilda”, con Rita Hayworth, “campionario di bellissime sequenze cinematografiche” (qui l'occhio del critico, pur devoto, deve aver avuto la sua consolazione), ma moralmente un disastro, “le scene di violenza e di sfrenatezza, le uccisioni, le danze procaci e la mancanza di ogni sano concetto morale”. O come “La fiamma del peccato”, ancora Wilder regista, prima “lavoro cinematografico molto notevole”, poi, la riga sotto, “ancora una volta si deve deplorare vivamente la produzione e la diffusione di simili pellicole”, e la riga sotto ancora, “racconto stilato con tecnica ed arte interpretativa finissime”.

    Figuarsi “Il postino suona sempre due volte”, quasi non vengono le parole, “sudicia e bassa vicenda manca del tutto dell'elemento morale… l'amore adultero e sensuale dei due criminali è qui presentato in un'aureola di romanticismo”. C'è poi Charlie Chaplin: “Tempi moderni” può sbarcare in parrocchia perché “la polemica sociale, che mancherebbe di vera ispirazione cristiana”, è superata dalla dilagante comicità”, mentre anni dopo anatema per “Monsieur Verdoux”, dato che “nel colloquio col sacerdote Verdoux sofistica sul peccato e sembra attribuirne l'origine al Cielo. Qui c'è qualche  cosa di peggio di un rinnegamento della morale cristiana”. Un giudizio quasi analogo a quello riservato nel 1939 a Marcel Carné per “Alba tragica”, con Jean Gabin: “Tesi di assoluta immoralità e di conclusioni demoralizzanti. Pernicioso, anche socialmente, per ogni genere di pubblico”. Certi western, poi, come “Fiume rosso”, vengono “esclusi per ogni specie di pubblico”, mentre altri, come “Rio Bravo”, vengono innalzati, “amor filiale, affetto coniugale, amor di patria, sentimento del dovere e della disciplina” (e sempre e comunque John Wayne di mezzo). Ci sono pure diverse pellicole con Greta Garbo, e del resto quelli erano gli anni del suo trionfo mondiale. C'è un grande classico come “Ninotchka”, di Ernst Lubitch, “satira finissima e piena di spirito del regime sovietico”, e quindi cosa commendevole, “ma le sequenze che ci fanno conoscere la vita della società gaudente a Parigi, e il carattere della relazione tra Ninotchka e Leone rendono lo spettacolo non adatto ai giovani”. Di solito, gli osservatori del Centro cattolico cinematografico non hanno la mano pesante con Alfred Hitchcock, pur deplorando, a ogni occasione, il genere poliziesco. “Io ti salverò”, per dire, “non manca di elementi positivi”, mentre “Il sospetto”, che vanta “una impeccabile regia” ha un difetto: “Pur notando una discreta correttezza nel racconto, la atmosfera da incubo e di dramma non risulta adatta per un pubblico giovanile facilmente impressionabile”. Poi, gli straordinari documentari sulle Olimpiadi a Berlino del 1936 di Leni Riefensthal – da “Olimpia” a “Apoteosi di Olimpia” – con le gare ginniche “gustosamente intercalate da notazioni di folla e di personalità che assistono ai giochi”, che danno da pensare per “le esibizioni di nudismo” – e casomai la preoccupazione, più che per i pettorali degli atleti ignudi, doveva essere per quelli che allo stadio si presentavano in divisa. C'è molta (positiva) attenzione, invece, per Orson Welles – di cui pure già s'intuisce il genio. “L'orgoglio degli Amberson”, infatti, con “una regia di prim'ordine”, è “visibile da tutti in pubblica sala”, mentre il capolavoro assoluto, “Quarto potere”, è sì “di non facile comprensione, contiene episodi che non lo rendono adatto a un pubblico giovanile”, ma la sentenza di critica cinematografica è netta ed esatta, “questo film segna una data nella storia della cinematografia”.

    Non erano di facile contentamento, al Centro cattolico. Magari ci scappava pure, nel 1947, un edificante film su “Santa Caterina da Siena”, di sicuro “con elevati intendimenti”, ma ecco, sarebbe opportuno tagliare, “una sequenza che si mostra Monna Gioiosa nella sua stanza da letto o da toilette” (e dove va a dormire?), mentre per “La vita amorosa di Casanova”, anni Trenta, “crediamo assolutamente inutile dilungarci a dare la trama di un tale lavoro”. C'è anche un film di D. W. Griffith intitolato “Il Cavaliere della libertà”. Ma incomprensibilmente non è Questo Nostro: si tratta soltanto di Abraham Lincoln.