La guerra di Rep.
Le guerre di Repubblica non sono proprio invincibili: il consenso a Silvio Berlusconi non crolla e al momento non si vedono alternative al governo. Sullo sfondo Pier Ferdinando Casini e Luca Cordero di Montezemolo appaiono pesi leggeri. Latitano le “sponde”: Washington vede gli alleati più fedeli, Gran Bretagna e Giappone, l'una scambiare un terrorista per petrolio, l'altro orientarsi in senso antiamericano.
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Le guerre di Repubblica non sono proprio invincibili: il consenso a Silvio Berlusconi non crolla e al momento non si vedono alternative al governo. Sullo sfondo Pier Ferdinando Casini e Luca Cordero di Montezemolo appaiono pesi leggeri. Latitano le “sponde”: Washington vede gli alleati più fedeli, Gran Bretagna e Giappone, l'una scambiare un terrorista per petrolio, l'altro orientarsi in senso antiamericano. Gli amichetti di Goldman Sachs sparsi per il mondo registrano il clima e alzano le insegne del dialogo al posto di quelle della sfida. Sostegni alla guerra anti Berlusconi non verranno da una Germania in via di assestamento. La Commissione europea farà la voce grossa solo se gliela si lascerà fare.
Non si può dire, però, che gli attacchi di Largo Fochetti siano del tutto ininfluenti: nel luglio del 2008 Giuseppe D'Avanzo, via cosiddette sexytelefonate berlusconiane, costrinse il vigliacchetto Walter Veltroni a far marcia indietro rispetto a ogni volontà di confronto. Nella primavera del 2009 con la campagna “Noemi” si bloccò l'apertura di dialogo tra Berlusconi e Dario Franceschini segnata dall'episodio del fazzoletto da partigiano della Maiella. La campagna “D'Addario” oltre a produrre limitati effetti sulle europee, serve a Ezio Mauro per imporre una linea di scontro al Pd e mira a creare un clima in cui i giudici costituzionali non possano approvare il lodo Alfano, sperando poi che si determini qualche incidente per il governo.
La funzione di giornale-partito di Repubblica si è definita negli anni Ottanta quando l'originale impostazione radicale si è incontrata – Paolo Guzzanti ha descritto bene il processo – con la cultura egemonica di formazione comunista, per di più nella fase in cui, tra moralismo berlingueriano e demagogie occhettiane, tramontava la visione nazionale (sia pure in salsa cominternista) togliattiana. Il quotidiano è passato così da cane da guardia dell'opinione pubblica a organizzatore politico che crea movimenti e tensioni, colpisce chi non si allinea, agisce secondo precise strategie di potere.
Finché si trattava solo di carta e parole, la tattica suggerita da Stefano Folli anche per l'oggi di non rispondere colpo su colpo aveva una sua efficacia persino con il “giornale anomalo”. Un nuovo clima però si è determinato nel '92-'93 quando il potere – mal combinato costituzionalmente – della magistratura si è incontrato con l'iniziativa di Repubblica determinando un circuito mediatico giudiziario dotato non solo di parole ma anche di manette e della volontà non di limitare ma di sottomettere il potere espresso dalla sovranità popolare.
Poi, certamente, il carattere politico dell'azione di settori decisivi della magistratura è diventato troppo esplicito. Riferendosi a vicende di questi giorni, se uno compara l'elenco recentemente richiamato da D'Avanzo delle inchieste sui reati fiscali di Berlusconi e quel che emerge sui rapporti con le tasse dei più grandi gruppi industriali, può farsi rapidamente un'idea di che cosa sia l'imparzialità della nostra giustizia. In questione non c'è il “buon senso” (anche togato) con cui un paese, largamente definito nel Secondo dopoguerra da una grande compromesso sulla legalità materiale, ha evitato di mettere nei guai le poche grandi realtà industriali nazionali. Ma la parzialità orientata dalla politica usata in casi omogenei: come era già avvenuto con i diversi trattamenti per Psi e moderati da una parte, Pci e sinistra Dc dall'altra. L'evidente politicizzazione ha alla fine delimitato l'influenza della magistratura. Senza però che si fissassero nuovi e trasparenti equilibri. Per cui in ogni momento (per esempio nel tramonto del governo Prodi) vi possono essere interventi destabilizzanti. Come in un permanente 8 settembre, lo stato italiano non ha basi salde su cui poggiare. E' possibile per Berlusconi porle autonomamente, sfruttando anche la stanchezza della società italiana? Si sa che da uno stato di eccezione si esce con una intesa (quella che la Repubblica riesce con efficacia a impedire) o una vittoria strategica. Se l'intesa non appare possibile, è difficile escludere episodi di guerra sia pur virtuale per nuovi equilibri. Comunque non si danno casi in cui disarmi unilaterali abbiano prodotto risultati. Certo le guerre, anche virtuali, implicano rischi: innanzi tutto quello della sconfitta sempre possibile anche in conflitti asimmetrici.
Si pone poi il problema dei “soggetti neutrali” che talvolta, come avvenne nel 2004 con Montezemolo, diventano elementi decisivi per la strategia dell'avversario. Questo anche per la qualità tattica di un giornale come Repubblica, abile nel mobilitare aree di opinione pubblica in modo da squilibrare e poi orientare persino i soggetti più autorevoli. D'altra parte i metodi spicci, come quelli in opera in questi giorni anche contro “i neutrali”, pur avendo talora efficacia bellica, hanno anche l'effetto di insaguinare a tal punto le mani del vincitore da escluderlo, poi, dal ruolo di riconciliatore. Peraltro, se la società italiana alla fine di queste vicende si rendesse conto che non c'è una guerra tra bene e male ma tra opzioni diverse, che la condizione di peccatore è naturale nell'uomo e che la lotta per contrastare e superare i peccati ha bisogno di umanità, non di arroganza; se questo fosse il risultato finale, forse sarebbe possibile affrontare con più speranze il futuro. Certo, si sente anche la mancanza di una maggiore professionalità politica da parte del centrodestra. Ma che di questo se ne lamenti uno come D'Avanzo è come se Erode denunciasse un improvviso incremento della mortalità infantile.
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