Seppelliti da una risata banale

Marina Valensise

Vogliamo capire la realtà e il senso del ridicolo imperante? Vogliamo decifrare il mistero del singolo individuo in balia di caricaturisti senza freni? Lasciamo stare la politica, dimentichiamo la storia e l'astrazione folle di chi ha voluto dominarla, e rimettiamoci a leggere romanzi. Non è una provocazione di fine estate per un paese di non lettori fieri di esserlo, ma l'ultimo consiglio di un grande esperto dello spirito dei moderni e delle loro meschinità come Alain Finkielkraut, autore di una attenta riflessione su nove capolavori.

    Vogliamo capire la realtà e il senso del ridicolo imperante? Vogliamo decifrare il mistero del singolo individuo in balia di caricaturisti senza freni? Lasciamo stare la politica, dimentichiamo la storia e l'astrazione folle di chi ha voluto dominarla, e rimettiamoci a leggere romanzi. Non è una provocazione di fine estate per un paese di non lettori fieri di esserlo, ma l'ultimo consiglio di un grande esperto dello spirito dei moderni e delle loro meschinità come Alain Finkielkraut, autore di una attenta riflessione su nove capolavori – dallo “Scherzo” di Milan Kundera al “Pranzo di Babette” di Karen Blixen, passando per Camus, Vassili Grossman, Sebastian Haffner, Conrad, Henry James, Philip Roth e Dostoevskij – come antidoto all'ubriacatura ideologica del Novecento e alle illusioni della democrazia post totalitaria. Il suo non è un attacco alle scienze sociali e alla dittatura avalutativa delle stesse, ma una rivalutazione della saggezza pratica, patrimonio della letteratura. “Meglio prenderla sul serio”, dice al Foglio Finkielkraut “La letteratura è una scuola di moderazione, un antidoto alla dismisura politica, che permette di tenere a bada il generale attraverso il particolare e dissolve i grumi del conformismo di massa”.

    “Il cuore intelligente” che dà il titolo al libro (Stock/Flammarion, 280 pagine, 20 euro), rimanda alla supplica di re Salomone al Signore. “Dopo un secolo devastato dalle congiunte malefatte di burocrati, portatori di un'intelligenza puramente funzionale, e di posseduti, in balìa di un sentimentalismo sommario, astratto, binario, sovranamente indifferente alla singolarità e alla precarietà dei destini individuali, la preghiera di Salomone ha mantenuto intatto il suo valore” – scrive Finkielkraut. Solo che il problema oggi è che Dio sta zitto. Forse ci guarda, ma non risponde alle nostre suppliche. Non interviene più nelle nostre vicende, tant'è che abbandonati a noi stessi noi moderni rischieremmo di dover rinunciare per sempre alla grazia di un cuore intelligente se dopo la fine della teodicea e il naufragio delle religioni secolari non riscoprissimo la letteratura come ultima trascendenza possibile.
     Non per niente, il primo romanzo dal quale Finkielkraut prende le mosse è “Lo Scherzo” di Milan Kundera, grande affresco tragicomico del comunismo realizzato, pubblicato a Parigi nel 1968 dall'uomo simbolo del dissenso antisovietico praghese. Lo scherzo è quello che nel 1948 valse al giovane Ludvik Jahn l'espulsione dal Partito comunista, l'abbandono dell'università, la condanna a un'esistenza grama in una piccola città operaia di provincia: l'aver spedito una cartolina irriverente alla fidanzata impegnata in un campo estivo di partito, per gelosia e ripicca a una sua lettera grondante entusiasmo rivoluzionario, con su scritto: “L'ottimismo è l'oppio del genere umano! Lo spirito sano puzza stronzaggine. Viva Trotsky! Ludvik”. Semplice presa in giro protestataria contro la morsa stretta dall'ideologia sull'esistenza, lo scherzo di Ludvik viene accolto malissimo dai compagni di partito. Nel paese del comunismo realizzato non si scherza con l'emancipazione dell'uomo e l'ambizione del progresso sociale. Da qui il processo, la scomunica e l'ostracismo del giovane dissidente antisistema, vittima, a ben vedere, non dello stato, ma del suo stesso ardore insurrezionale (spiegherà poi lo stesso Kundera) e perfetta incarnazione della rivolta dei moderati che ammettono l'imperfezione, l'incertezza, l'incompiuto, l'irrimediabile di tutte le convinzioni umane. Ludvik infatti precipita nella catastrofe volendola evitare: tenta di punire il suo persecutore seducendone la moglie, ma finisce per liberarlo da un matrimonio tombale, e consegnarlo a una nuova amante giovane e bella, perché la vita sconcerta, inganna, travolge e si diverte a prendere in giro tutti quelli che si inorgogliscono a darle un senso. Proprio in questo consiste l'Arte del romanzo secondo Milan Kundera, che nel romanzo vede “un'eco del riso di Dio”, e denuncia chi non ride, l'agelasta, che abita la verità, unisce in sé l'azione e l'intenzione, l'essere e l'apparire, il reale e il razionale.
    Oggi siamo lontani anni luce da quel tipo di scherzo, di romanzo e di riso. Basta accendere la radio o la tv per vedere imperare dovunque la contrazione democratica del riso, come diceva Kundera. Oggi, domina la derisione, più che la deferenza.

    Gli agelasti patibolari, scrive Finkielkraut, son stati sostituiti dagli “amuseurs irrévérencieux”, gli intrattenitori divertenti. “Noi tutti facciamo parte di un pubblico che dalla mattina alla sera è invitato a divertirsi. Il riso è diventato la colonna sonora del mondo d'oggi”, scrive Finkielkraut che una sera, mentre stava rileggendo “Lo Scherzo” di Kundera, ha acceso la tv e si è ritrovato di fronte a Thierry Ardisson, una specie di Fabio Fazio molto più cinico e spregiudicato però, che proponeva ai suoi ospiti – attori, cantanti, gente di spettacolo – di indicare quale fra le varie morti recenti li avesse colpiti meno, quella di un giovane cantante di varietà, di un tenore, di un cardinale. Dopo vari gridolini di sorpresa o imbarazzo, tutti i partecipanti al gioco votarono all'unanimità per, o meglio contro, il cardinale, che era nella fattispecie il compianto arcivescovo di Parigi Jean-Marie Lustiger, ex ebreo convertito, scampato a Auschwitz, immenso pastore e amico intimo di Karol Wojtyla. “Avrò anch'io diritto alla blasfemia”, si giustificò pochi giorni dopo coperto dalle critiche il cinico Ardisson, manco fosse Salman Rushdie o Ludvik Jahn. Agli occhi di Finkielkraut, il caso, per quanto osceno, è assai rivelatorio del cambiamento avvenuto; nel romanzo di Kundera, Ludvik veniva condannato per lo scherzo sulla fratellanza universale; nella realtà del talk show di Ardisson, il cardinale veniva linciato a titolo postumo dalla fratellanza del riso greve. “Il riso contemporaneo proclama con forza l'ideale della disidealizzazione” commenta Finkielkraut.

    L'umorismo che per Kundera era “il fulmine divino che scopre il mondo nella sua ambiguità morale”, foriero di precarietà e tremende incertezze, oggi è stato sepolto dagli “amuseurs”, sotto la lapide della loro ilarità perpetua. Il riso dell'umorista sfidava la muta, quello degli addetti al continuo divertimento di massa invece la scatena: il primo era una forma di dubbio, che scuote le certezze dell'ideologia, mentre il secondo è un verdetto che taglia le teste di chi è in alto e punisce a colpi di caricatura tutti i retrogradi e i reazionari che col loro anacronismo contravvengono alla malizia dello spirito del tempo. Cos'è successo per essere arrivati a tanto? “Difficile da capire”, dice Finkielkraut. “E' una delle incrinazioni teratologiche della passione egalitaria, che io certo condivido, pur riconoscendo che può assumere forme spaventose o oscene. L'attuale spirito di derisione testimonia il rifiuto di ogni forma di trascendenza. E' come se la bellezza, l'esigenza, la grandezza fossero un insulto all'eguaglianza, ma in questo modo il riso chiude la parentesi dell'umorismo e torna alle sue origini barbariche. Il riso è, sì, proprio dell'uomo, ma il barbaro, come l'uomo contemporaneo, ride delle differenze, delle difformità, di tutto ciò che lo allontana dalle sue certezze. E' come se desse la caccia alla grandezza e vendicasse la mediocrità dall'affronto che la superiorità le infligge”, spiega Finkielkraut, citando un vecchio articolo di Roland Barthes che nel 1979 confessava sul Nouvel Obs il fastidio vissuto davanti alle risate del pubblico di una sala cinematografica durante la proiezione del “Perceval” di Eric Rohmer recitato in antico francese da Fabrice Luchini. “Si può vietare la sigaretta, ma non il riso idiota davanti a un film artistico fondato su un rapporto sottile tra letteratura e immagine”, scriveva Barthes. “Era come dire: non capisco l'altro, voglio un medioevo dove tutto è come oggi, salvo i costumi. Noi siamo soggetti a un regime di ilarità permanente, che si avvolge negli orpelli dell'umorismo, mentre lo sta uccidendo. L'impostura consiste nel presentare come resistenza al potere politico l'espressione di un potere ben più forte com'è quello dell'opinione, privo di limiti e contropotere. Tant'è che di tutto si può ridere tranne che di quelli che fanno ridere, i quali, se vengono criticati, gridano alla censura”.