Cosa resta dell'11 settembre
Oggi è l'ottavo anniversario degli attacchi islamisti dell'11 settembre 2001, ma le recenti polemiche sulle cosiddette “torture” ai prigionieri di al Qaida, che in realtà nascondono una critica alla strategia politica, militare e liberatrice scelta da Washington subito dopo il crollo delle Torri, rischiano di far dimenticare quale sia il vero motivo per cui una vasta coalizione internazionale da otto anni è impegnata a cacciare i talebani dall'Afghanistan e da sei a costruire un nuovo Iraq privo del despota Saddam. In gioco non c'è poco: il trionfo del jihad talebano a Kabul avrebbe ripercussioni devastanti in tutto il mondo islamico.
Oggi è l'ottavo anniversario degli attacchi islamisti dell'11 settembre 2001, ma le recenti polemiche sulle cosiddette “torture” ai prigionieri di al Qaida, che in realtà nascondono una critica alla strategia politica, militare e liberatrice scelta da Washington subito dopo il crollo delle Torri, rischiano di far dimenticare quale sia il vero motivo per cui una vasta coalizione internazionale da otto anni è impegnata a cacciare i talebani dall'Afghanistan e da sei a costruire un nuovo Iraq privo del despota Saddam. In gioco non c'è poco: il trionfo del jihad talebano a Kabul avrebbe ripercussioni devastanti in tutto il mondo islamico. L'alternativa, oggi come otto anni fa, è offrire un modello costituzionale al sistema mediorientale. Più brutalmente, per usare le parole del consigliere di Obama sull'Afghanistan, Bruce Riedel, “dobbiamo uccidere i talebani e cacciarli via”.
Otto anni sono tanti. C'è la fisiologica tendenza a rimuovere il ricordo delle stragi di New York e Washington, favorita da un periodo di relativa serenità occidentale – con le eccezioni degli attacchi a Londra e Madrid – resa possibile proprio dalla strategia adottata dalla Casa Bianca e oggi messa in discussione. Si parla del ritiro dall'Afghanistan, questa volta non soltanto in Europa, ma anche negli Stati Uniti. Quella che nel mondo politico ed editoriale liberal era definita “guerra giusta”, al contrario di quella “sbagliata” in Iraq, è ora al centro di un dibattito ritirista ancora tiepido, ma sempre più consistente. Tornano i paragoni con il Vietnam. Si ricorda che l'Afghanistan è stata la tomba di vari imperi, a cominciare da quello sovietico. Non importa che tutto questo sia stato già detto, e smentito, già nel 2001, né che il paragone sia stato poi usato anche a proposito dell'Iraq.
Politici e commentatori di destra e sinistra chiedono di fare un passo indietro, si accapigliano su aspetti burocratici che non tengono conto delle ragioni della missione in Afghanistan e anticipano così l'annunciata offensiva di autunno del fronte neopacifista.
Il paradosso è che a non cedere, e a far rivivere lo spirito post 11 settembre, al momento c'è proprio Barack Obama, il presidente che secondo il pensiero unico vigente nelle redazioni occidentali avrebbe dovuto cancellare con un tratto di penna le sporche avventure mediorientali di Bush. Obama ha proclamato tre giorni di preghiera nazionale per onorare le vittime dell'11 settembre e sostenere “i membri delle Forze armate” che “sono andati in Iraq e Afghanistan” per “rendere più sicuro il nostro paese”.
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