Oltre il fango
Una certa virulenza nella discussione pubblica nazionale rende più complicato leggere la politica italiana. Non è male dunque rivolgere lo sguardo all'estero cercando di capire se lì si possano cogliere elementi di novità che riguardino anche noi. Una serie di elezioni avvenute negli ultimi anni nelle più grandi democrazie del pianeta (Stati Uniti, India e poi Giappone) hanno fatto parlare di un nuovo ciclo globale della sinistra.
Una certa virulenza nella discussione pubblica nazionale rende più complicato leggere la politica italiana. Non è male dunque rivolgere lo sguardo all'estero cercando di capire se lì si possano cogliere elementi di novità che riguardino anche noi. Una serie di elezioni avvenute negli ultimi anni nelle più grandi democrazie del pianeta (Stati Uniti, India e poi Giappone) hanno fatto parlare (così per esempio Dario Franceschini nella presentazione della sua mozione al congresso del Pd) di un nuovo ciclo globale della sinistra. Senza dubbio è ragionevole quel che dice Francesco Rutelli, cioè che nel mondo l'alternativa progressista più convincente è ormai quella di tipo “democratico” e non più socialista. Anche le recenti difficoltà dei democristiani tedeschi nelle elezioni di tre Länder non hanno portato a un rilancio del Partito socialdemocratico. E' possibile che a ottobre i socialisti greci tornino al governo, ma sarà un fenomeno locale in controtendenza con il resto del continente.
Se dunque è corretto sottolineare come la veste “democratica” sia quella più opportuna per governare a sinistra è poi però difficile ritenere che le tre grandi elezioni citate costituiscano una tendenza attiva piuttosto che non una conferma di buone regole dell'alternanza in sistemi democratici aperti. Sono queste regole che hanno funzionato in America quando George Bush ha esaurito il mandato con una guerra ancora aperta e con una crisi finanziaria di proporzioni spaventose scoppiata improvvisamente. Anche Tokyo, sia pure a 53 anni di distanza, ha deciso finalmente per l'esigenza della società di alternare le forze di governo. Con il Giappone cade l'ultima grande democrazia senza ricambio (dopo India, Italia e Messico). In India invece non c'è stata alternanza sia perché l'opposizione, il Bjp, aveva una base troppo ristretta (per questioni religiose e di casta) sia perché il Partito del congresso ha assorbito le linee di fondo del programma “moderato” (una qualche apertura ai capitali stranieri, procedere nei programmi di liberalizzazione e privatizzazione, solida alleanza con Washington).
Insomma parlare dell'affermarsi di uno Zeitgeist di sinistra pare un'esagerazione. E le due coalizioni che hanno vinto negli Stati Uniti e in Giappone appaiono per più d'un verso fragili. A Washington il vero grande asset è l'immensa carica simbolica che ha l'avere eletto un presidente nero: di per sé fenomenale messaggio d'integrazione per tutto il mondo. Detto questo, la politica estera appare in difficoltà, con gli alleati più fedeli (la stessa Tokyo e Londra) che si smarcano, con la ricerca di un accordo di fondo con la Cina che pur rappresentando una grande opportunità, è anche una grande incognita per gli equilibri futuri. Da qui anche le incertezze su Iran, Afghanistan e scenario mediorientale. Anche sul fronte interno quello che prevale è un certo disordine di una coalizione con troppi issue contrapposti. Forse un punto di forza potrebbero essere i minori condizionamenti da “petrolio” che consentirebbero politiche di risparmio energetico. Ma le dimissioni di Van Jones rivelano le contraddizioni esistenti anche in questo campo. Più o meno simmetriche le debolezze del vittorioso fronte democratico giapponese, certo più fragile dei democrat americani con le loro secolari esperienze di governo. Insomma, tutto tranne che un netto Zeitgeist di sinistra. Il che, naturalmente, è ancora più evidente nella nostra Europa, dove persino in Grecia non si assiste a nessuna spontanea tendenza verso sinistra. Ad Atene si registra il fallimento di un partito contraddistinto dagli abituali tassi di familismo e inefficienza mediterranei ma che ha qualche chance di prevalere anche perché la questione dell'immigrazione da est ha determinato solidi orientamenti popolari di segno conservatore.
In Germania si osservano due tendenze, a parte il voto della Saar influenzato da Oskar Lafontaine. Da un verso quella che riguarda i Länder dell'est, che quaranta anni di comunismo hanno reso antropologicamente simili a come secoli di latifondismo hanno ridotto il nostro mezzogiorno. Poca propensione allo spirito d'impresa, classi medie deboli, vasto spazio all'assistenzialismo e a improvvisi spostamenti politici non sempre razionalmente motivati. Per il resto la situazione tedesca mostra tutti i difetti che produce un sistema sostanzialmente proporzionale (che funzionava solo quando alle estreme di destra e sinistra erano fuori legge), non costruito sulle esigenze di governo e alternanza di una moderna democrazia. E questo avviene con una società, un'economia e uno stato più efficienti di quelli nostri. Questo è certamente il primo insegnamento che dobbiamo tenere presente anche per la politica italiana con i suoi rinati sogni di nuovo Centro. La vicenda indiana mostra come un partito politico che ha fatto bene il suo lavoro di governo, il Bjp, se si basa su basi etniche troppo ristrette, perde. Dai casi greci si comprende come la questione immigrazione è un issue decisivo e trascurarlo non permette di vincere. Dalle coalizioni progressiste americana e giapponese impariamo che una incerta linea di politica estera determina gravi problemi di governo (e su questo dovrebbero riflettere anche Franceschini e Bersani). Dai casi tedeschi si apprende che fidarsi lì troppo dell'est (e da noi troppo del sud) non offre basi adeguatamente solide per l'azione politica nazionale. Tante lezioni su cui riflettere in attesa che si possa anche in Italia tornare a occuparsi seriamente di politica.
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