Altri danni della neolingua che capovolge la realtà

Per Langone i clandestini sono i nuovi unni, non chiamateli “migranti”

Camillo Langone

Sto parlando dei nuovi unni e quella congiura contro la verità che è la neolingua vorrebbe assimilarli agli usignoli di fiume. Che poi gli uccelli migratori vanno e vengono mentre i migranti, in spregio alla grammatica, vengono e restano. Non sono migranti, sono migrati. Li trovo davanti al supermercato e alla libreria, giovanotti petulanti che offrono libercoli africanisti per leggere i quali si dovrebbe pure pagare, e qualche anziana signora ci casca e sgancia.

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    Sparereste a uno stormo di rondini? di fenicotteri? di cicogne? No di sicuro, sparare ai migratori è degno di un bracconiere calabrese, l'anello di congiunzione tra l'uomo e lo sciacallo. E lo dico io che sono un partigiano della caccia. Come sempre è una questione di stile: il vir spara ai cinghiali, non ai pettirossi. Chiamare “migrante” uno straniero che entra in casa tua senza permesso, e che pure esige vitto e alloggio, significa equipararlo dissennatamente a un fragile volatile a rischio di estinzione, meritevole di cure spasmodiche.

    E' la solita parolaccia ideologica che capovolge la realtà: in Italia a rischio di estinzione sono gli indigeni, non gli allogeni, la cui mamma è sempre incinta. Proprio nel sud dove quasi non esistono asili per i bambini le amministrazioni pubbliche devono fornire asilo a qualunque adulto si presenti, altrimenti l'Europa si arrabbia. Io che ho letto Aristotele capisco che la lettrice di Margaret Mazzantini consideri migrante una parola poetica, vagamente carducciana, parola sensibile e buona, parola Anni Zero, parola che merita applausi nei festival del cinema e della letteratura, oltre che parola capace di rilanciare i sindacati bisognosi di sangue fresco (il sindacato vescovi ovvero la Cei, il sindacato pensionati ovvero la Cgil). Io che ho letto Ignazio Silone capisco che la lettrice di Muriel Barbery consideri emigrante parola prosaica e inelegante, parola anni Cinquanta, parola da cafoni che i ricci se li mangiavano e da scrittori che non si portano più.

    Io sono figlio e nipote di emigranti, mio bisnonno Vincenzo D'Angelo è morto in America in un incidente sul lavoro, quanti cugini di mio padre hanno lasciato giovinezza e salute nelle miniere del Belgio e nelle fabbriche di Torino, io stesso ho conosciuto l'indicibile tristezza dell'emigrazione interna e ho dormito nei corridoi dei treni che salgono da Lecce, seduto sulla mia valigia. Mi ricordo che gli emigranti erano cristiani, quando il vagone cominciava a muoversi le donne si facevano il segno della croce, mentre i migranti sono spesso, non sempre ma spesso, maomettani (non trovo il nesso della lettera E con la vera religione eppure da qualche parte ci dev'essere, se lo trovo vi avviso). Gli emigranti portavano dal paese il capocollo e la soppressata, più piccanti della luganega e del salame di Varzi ma ugualmente a base di maiale. Nelle mense scolastiche non esisteva il problema dei menù differenziati e il presepe era la gioia di tutti i piccini. L'emigrante era accomodante, il migrante è invadente.

    Gli emigranti portavano braccia, i migranti portano una cultura. Un'altra cultura. Da cui la parola “multicultura”, ulteriore conato del neoturpiloquio contemporaneo. Che io sappia uno dei primi a dire “migrante” è stato Erri De Luca, autore che al posto della patria ha la punteggiatura, avanguardista dell'anomia che perciò viene citato da un gruppo Facebook dalla fronte particolarmente bassa: “MIGRANTI – ogni Essere Umano cammini libero su tutto il Pianeta”. Qui siamo nel cuore dell'ideologia parolacciara, utopia flatulente che ha trasformato gli stranieri clandestini nelle intoccabili vacche sacre di quelle piccole calcutte che sono diventate le città italiane. Io che ho letto Simone Weil capisco che il lettore di Walter Veltroni non possa arrivarci ma colui che dice “migrante” è come chi svuota il portacenere dell'automobile al semaforo: un incivile che considera il mondo res nullius. Chi dice “migrante” autorizza sei miliardi di persone a spostarsi ovunque in qualunque momento con qualunque mezzo, infischiandosene di quello che verrà inevitabilmente calpestato: culture locali, ambienti naturali, sistemi previdenziali…

    Sto parlando dei nuovi unni e quella congiura contro la verità che è la neolingua vorrebbe assimilarli agli usignoli di fiume. Che poi gli uccelli migratori vanno e vengono mentre i migranti, in spregio alla grammatica, vengono e restano. Non sono migranti, sono migrati. Li trovo davanti al supermercato e alla libreria, giovanotti petulanti che offrono libercoli africanisti per leggere i quali si dovrebbe pure pagare, e qualche anziana signora ci casca e sgancia. Si sono integrati in fretta questi abbronzati, sono diventati bamboccioni come i coetanei nativi e pensano che ai vecchi spetti il dovere di mantenerli. Io che ho letto san Bernardo di Chiaravalle capisco che al lettore del cardinale Martini piaccia la dromomania delle moltitudini ma non pretenda di pagare lo spettacolo coi miei soldi e col mio vocabolario. E' settembre, se sono migranti è tempo che migrino.

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    • Camillo Langone
    • Vive tra Parma e Trani. Scrive sui giornali e pubblica libri: l'ultimo è "La ragazza immortale" (La nave di Teseo).