La stampa s'è destra
Una brutta mattina persino Mario Adinolfi, lo strenuo blogger ed eroico sostenitore di Dario Franceschini, è stato assalito dalla realtà: “Nell'attesa di riorganizzare le mie idee attorno alla manifestazione del 19 settembre sulla libertà di stampa, mi sono ritrovato sorpreso da un pensiero orrido: i giornali di destra sono fatti meglio”. Sono giornali che “hanno momenti di giornalismo anticonformista decisamente più significativi, in quelli a me più prossimi vedo prevalere un deciso conformismo. Comincio a preferire Vittorio Feltri a Ezio Mauro.
Una brutta mattina persino Mario Adinolfi, lo strenuo blogger ed eroico sostenitore di Dario Franceschini, è stato assalito dalla realtà: “Nell'attesa di riorganizzare le mie idee attorno alla manifestazione del 19 settembre sulla libertà di stampa, mi sono ritrovato sorpreso da un pensiero orrido: i giornali di destra sono fatti meglio”. Sono giornali che “hanno momenti di giornalismo anticonformista decisamente più significativi, in quelli a me più prossimi vedo prevalere un deciso conformismo. Comincio a preferire Vittorio Feltri a Ezio Mauro e Roberto Arditti a Concita signora-mia De Gregorio… Per farla breve, leggo prima Libero di Repubblica, penso di trovarci notizie più interessanti… Sul Giornale c'è più ‘pensiero laterale' che sull'Unità, il primo va letto perché è sempre centrale nel dibattito, la seconda si può pure trascurare”.
Soppesando i rischi con l'ironia del pokerista incallito, Adinolfi conclude: “Ammetto l'ipotesi che io possa essermi totalmente rincoglionito. Ma se così non fosse? Allora o la destra sta conquistando un'egemonia culturale approfittando della nostra pigra disonestà intellettuale, o comunque stiamo sbagliando qualcosa”.Adinolfi a parte, il fenomeno è da un bel po' sotto gli occhi di tutti. Buono o cattivo, non mette conto stabilirlo ora, ma fatto evidente e che sta rivoltando come calzini molti aspetti del costume (e del consumo) giornalistico italiano. Gianni Letta ha citato Giorgio Montini, giornalista e padre di Paolo VI, il quale “concepiva la stampa come una splendida missione a servizio della verità, della democrazia, del progresso e del bene pubblico”. Antonio Polito ha commentato che “forse Letta si riferiva a Feltri”. La battuta è buona, ma non servirà a recuperare al Riformista il lettore Adinolfi.
Il fenomeno è tracimato assieme alla melma dell'affaire Boffo.
L'attacco frontale di Vittorio Feltri al direttore di Avvenire ha fruttato, secondo le fonti ufficiose, parecchie migliaia di copie. Il ritorno del cavaliere nero del giornalismo cattivo alla direzione del Giornale ha già fatto fare un salto alle vendite di quasi il 30 per cento. Del resto il “grande orobico” è stato chiamato alla guida del quotidiano di via Negri proprio per risollevarne le malmesse sorti editoriali. Tanto che circola da tempo (ne ha parlato lo scorso venerdì il Foglio, e ieri la notizia è stata sviluppata dal quotidiano economico Italia Oggi) l'indiscrezione secondo cui Feltri, che ha portato con sé nella nuova avventura alcuni uomini del suo consolidato staff giornalistico-editoriale, starebbe progettando di acquisire da Paolo Berlusconi la proprietà del Giornale, con altri soci di minoranza disposti a seguirlo. Ma, al di là dell'aspetto economico-editoriale, il caso Boffo, seguito a breve distanza dal fuoco alzo zero sparato su Gianfranco Fini, hanno rivelato al mondo politico e più in generale al pubblico dei giornali la straordinaria forza di “agenda” del Giornale di Feltri. E non solo del suo, se si misura anche l'impatto di altre campagne di stampa recenti – l'eredità della famiglia Agnelli, la denuncia dei “furboni” evasori, i pasticci baresi del Pd – promosse dal giornale rivale Libero, passato sotto la direzione di Maurizio Belpietro. Ma andrebbero segnalati, adinolfianamente, anche la capacità di incidenza recuperata, in un'area geografica più definita, dal Tempo con la direzione di Roberto Arditti (non a caso viene dalla doppia scuola di giornalismo televisivo e di portavoce politico con Claudio Scajola), o l'autorevolezza ormai consolidata da un foglio di partito come Il Secolo d'Italia, voce finiana ma non solo, ricco di approfondimenti, decisamente meno trascurabile rispetto ad altri organi politici. Tutti esempi di come i giornali di destra, tradizionalmente meno influenti rispetto alle grandi testate storiche della borghesia laica e della sinistra, abbiano saputo di recente, ma con forza, guadagnare terreno proprio nel fare opinione, e nell'indirizzare, a proprio modo, il dibattito pubblico.
E' anche una questione di squadre. Un segnale interessante di quanto sta avvenendo può essere individuato nell'interesse, quasi gossipparo, con cui durante l'estate è stata seguita, e non solo dalla cerchia degli addetti professionali, la vicenda del valzer di poltrone che ha coinvolto le testate della destra, il cambio della guardia appunto da Libero al Giornale di Feltri, l'arrivo a Libero da Panorama di Belpietro, Giorgio Mulè, professionalmente legato a Belpietro, a Segrate, e il ritorno alle televisioni di Mediaset di Mario Giordano. Il tutto con un inedito mettere in pubblico, schierarsi e dichiararsi di giornalisti, collaboratori e opinionisti. Feltri aveva scelto il parterre di lusso di CortinaIncontra per dispensare veleni e carezze a proposito di collaboratori passati e futuri: “Facci non vale certo un Mughini”, “Socci potrebbe venire con me” e via dicendo, manco fosse il calciomercato. Socci e Mughini, in realtà, sono rimasti per il momento al loro posto a Libero.
L'annunciato ingaggio di Franco Bechis, ex direttore di Italia Oggi e tra i giornalisti politico-economici senz'altro più informati nel panorama italiano, si è trasformato in un'asta tra Giornale e Libero, seguita dai giornali, come si trattasse della cessione di Kakà. E alla fine Bechis l'ha preso Maurizio Belpietro, la cui mission quasi impossible, affidatagli agli editori del gruppo Angelucci, è quella di tener botta con una caravella corsara all'incrociatore pesante di Paolo Berlusconi. Ma, altro dato interessante, benché Libero abbia perso un venti per cento di venduto nell'ultimo anno, dunque già con l'ultima fase della gestione Feltri, nonostante il cambio burrascoso dell'estate, sta riuscendo, per ora, a tenere botta. E questo certamente anche perché Maurizio Belpietro ha scelto di tamponare l'emorragia di firme “storiche” della testata con la ricostituzione di una sua propria, piuttosto riconoscibile, squadra. E questo, al di là dei dati di vendita e delle guerre editoriali, è un dato culturale e giornalistico su cui vale la pena riflettere. Forse per la prima volta in anni recenti (da dopo l'esperienza della Voce di Indro Montanelli), il pubblico dei giornali di centrodestra (e più in generale quello più vasto dei lettori di quotidiani politici) ha scoperto che esiste un “parterre” di firme, alcune molto valide, che non hanno nulla da invidiare a parecchi paludati nomi delle grandi testate nazionali, ben riconoscibili come “firme” del giornalismo più schierato e di battaglia della destra, o comunque ascrivibile alla sua area culturale. E, all'interno di essa, dei filoni, delle affinità giornalistiche e di visione in grado di fare opinione, e di spostare, eventualmente, anche i lettori, per lo meno i più attenti.
Oltre nomi già fatti, c'è quantomeno da notare il caso di Filippo Facci, per anni titolare di una rubrica corsivistica sulla “prima” del Giornale, molto puntuta, spesso controcorrente anche rispetto al “mainstream” del pensiero del centrodestra che più facilmente si rispecchiava nella linea editoriale del quotidiano. E che adesso è passato armi, bagagli e titolo della rubrica incluso a Libero. Dove ha esordito come collaboratore anche Camillo Langone. E dove, tra l'altro, sono arrivati anche due altre firme importanti, una addirittura storica, e tutt'altro che ascrivibili (almeno nel passato) all'area culturale della destra: Giampaolo Pansa e Peppino Caldarola. E se questi ultimi due sono in realtà anche spostamenti interni al medesimo gruppo editoriale, dal Riformista a Libero, entrambe testate impegnate a nuotare controcorrente, resta il fatto che la scelta di Belpietro sta mostrando di avere tela da tessere. Allo stesso tempo, oltre all'arrivo di firme propriamente feltriane e a qualche dipartita (oltre a Facci, anche il vicedirettore Michele Brambilla), anche a via Negri alcune firme “identitarie” per i lettori, da Mario Cervi a Stenio Solinas, sono riapparse tra le bocche di fuoco della prima pagina. Affiancate da firme più giovani ma sempre più riconoscibili per i lettori nella nuova veste di notisti politici.
Fino a qualche tempo fa, tolto qualche nome di direttore, le firme del giornalismo di destra erano confinate all'olimpo di alcuni nomi montanelliani: Enzo Bettiza, Cervi. Più qualche storico fuggitivo dalle sponde scalfariane, come Paolo Guzzanti. Ora, per la prima volta, ci sono “giornalisti di destra”. Opinioni con cui, sempre più spesso, anche i colleghi di altre testate e i politici della sinistra sono costretti a fare i conti. Per nome. Poi c'è il mercato. Anche questo non è un fenomeno nuovo, ma i movimenti dell'estate, e l'aggressività in aumento che hanno contribuito a creare, hanno giovato al mercato, pur nella crisi generalizzata. La “pesca a strascico” di lettori politicamente trascurati da altri giornali (elettori di destra, non-elettori, leghisti) ha prodotto negli anni lettori nuovi. Diversi. Lettori che, con tutta evidenza, apprezzano più i toni virulenti, le personalizzazioni, un certo fondo costante di antipolitica, di “anticasta”, e persino un certo giornalismo da mattinale di questura, che ama le pubblicazione degli elenchi, dagli evasori fiscali ai pedofili. Ma pur sempre lettori. (1. continua - La seconda puntata nel Foglio in edicola domani, sabato 19 settembre)
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