Venirne a capo
Chissà se, finita la stupida stagione estiva, le tensioni si stempereranno. Comunque sono venute alla luce contraddizioni reali del tessuto politico-istituzionale che vanno affrontate o produrranno nuove situazioni esplosive. Un eccellente modo per farlo è partire dal mirabile stile di Giorgio Napolitano.
Chissà se, finita la stupida stagione estiva, le tensioni si stempereranno. Comunque sono venute alla luce contraddizioni reali del tessuto politico-istituzionale che vanno affrontate o produrranno nuove situazioni esplosive. Un eccellente modo per farlo è partire dal mirabile stile di Giorgio Napolitano. Quando il presidente della Repubblica vuole contenere una qualche strampalata presa di posizione leghista tutto fa meno che dare di razzisti ai seguaci di Umberto Bossi.
Quando vuole riportare a prassi istituzionale disordinate dichiarazioni berlusconiane (che peraltro, spesso, nel merito condivide) contro magistrati, sta attentissimo a non far trasparire accenni a presunte mafiosità del presidente del Consiglio. Quando è preoccupato per la tensione determinata da inchieste giornalistiche scatenate, l'ultima cosa che fa è chiamare killer direttori di quotidiani. Quando ritiene che su certi temi etici sia necessaria una discussione più ispirata ai valori costituzionali, l'idea che non gli viene proprio in mente è accusare una delle parti di clericalismo. Certo l'abilità dimostrata da Napolitano, tale che persino la Repubblica fatica a strumentalizzarlo, è frutto non solo di una cultura e di un'esperienza di vita non riproducibili ma anche del fatto che l'incarico quirinalesco è il capolavoro di una vita, non la tappa di una carriera. Altre personalità pur impegnate in incarichi istituzionali hanno ancora aspettative politiche, e ciò ne condiziona i comportamenti. Anche se forzare le regole per predicare il rispetto delle regole, alla fine, crea confusione.
Ma aldilà del galateo, ci sono le radici delle contraddizioni che producono un flusso costante di scosse nella vita nazionale. Al fondo ci sono le vicende della Seconda repubblica. Stagione, ormai lunga, segnata anche da un'anomalia particolare rispetto al contesto europeo.
Mai nel Vecchio continente nel secondo Novecento una forza politica come quella del Movimento sociale avrebbe potuto accedere all'esecutivo nazionale. Anche un movimento come la Lega avrebbe avuto difficoltà: in Olanda e in Austria però forze politiche analoghe a quella bossiana hanno assunto funzioni di governo, ma non così organizzazioni dall'antica matrice fascista. Persino in Spagna i franchisti, che pure avevano vinto la loro guerra civile ed evitato il conflitto mondiale, per “entrare” in Europa hanno dovuto sposarsi ad altre correnti politiche formando il Partito popolare. L'apertura al Msi, completata con l'entrata in politica di Silvio Berlusconi, di fatto era stata anticipata dalla scombiccherata sinistra demagogica del '92-'93, dagli Occhetto e dai Dalla Chiesa, dal costituirsi di una sorta di fronte rosso-bruno pro Mani pulite. E' lì che si abbattono molte delle barriere del cosiddetto arco costituzionale, anche nei confronti dei leghisti. Però l'iniziativa, poi, viene assunta dalla sinistra Dc-Ppi e dal Pci-Pds impedendo che alle aperture politiche corrispondano “legittimazioni” con assetti istituzionali che registrino la “nuova fase”. Quel che resta del ceto politico espressione dell'arco costituzionale rinuncia a dirigere la crisi ma non al monopolio della legittimazione, e così cessa di essere classe dirigente e diventa pura nomenclatura.
E in quanto nomenclatura, senza più salde radici nella società, può governare solo in sintonia con oligarchie (economiche, editoriali, sociali) e come terminale di influenze internazionali, che peraltro a sprazzi impongono soluzioni positive: l'entrata nell'euro, la guerra al Kosovo, l'intervento in Libano. Una nazione come l'Italia, però, dalla vitalità non spenta, alla fine rifiuta di farsi dominare da oligarchie e protettorati stranieri. E sostiene il movimento di resistenza rappresentato dal berlusco-leghismo. Rozzo, individualistico ma vivo. Con il limite però – visto che le nomenclature mantengono il monopolio della legittimazione come si vede col potere corporativo della magistratura – di non riuscire a istituzionalizzarsi. Il che provoca non secondarie conseguenze sulla qualità del riformismo praticato.
Dopo il '95 ci sono tentativi di apertura ora di Massimo D'Alema, ora di Walter Veltroni, ora di Dario Franceschini ora persino di Carlo De Benedetti. Sempre rintuzzati, però, innanzi tutto da quella sentinella della delegittimazione del centrodestra che è la Repubblica, che dallo stato di delegittimizzatore principe ricava una fondamentale rendita di posizione.
Così si è vissuti finora, con l'astuto Pier Ferdinando Casini che ha tentato e tenta di fare il legittimato (in quanto tra gli eredi della Dc) alla testa dei delegittimati per lucrare il massimo dello spazio possibile. Con altri del centrodestra che spesso danno l'impressione di essere interessati a legittimare solo se stessi.
Con Silvio Berlusconi che si muove con impaccio sulle questioni istituzionali. Con la Lega che, al di là di qualche selvaggeria, sul federalismo fiscale ha saputo tenere unito il centrodestra e trattare con il centrosinistra, realizzando una fondamentale operazione di legittimazione che naturalmente ora si tenterà di buttare all'aria. Insomma le cose non sono semplici. Non aiuta come ricorda Marcello Pera il fatto che la gran parte delle discussioni avvenga sui quotidiani e non nei partiti o in Parlamento. Anche se, pur detestando “il male assoluto delle rappresaglie”, preferisco vivere e mi sento infinitamente più libero in mezzo a un sanguinoso dibattito tra giornali che nel plumbeo soviet di magistrati, giornalisti e banchieri – con tutta la stampa liberale, comunista, radicale, istituzionale unite – che dominò le stagioni manipulitesche.
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