Il libro da oggi in libreria

Così Meotti racconta le storie dei martiri di Israele

Giulio Meotti

Quasi ogni giorno in Israele ci sono cerimonie funebri per le vittime del terrorismo. Persone uccise per il solo fatto di essere ebree. In banca, nei centri commerciali, in pizzeria. Sul pullman, davanti a un cinema, per strada. Da sole e in gruppo. Giovani e vecchi. Uomini e donne. Tutti condannati dalla furia del fondamentalismo islamico, bersagli di un odio quotidianamente alimentato da decenni. Nel suo ultimo libro, da oggi in libreria, Giulio Meotti racconta le storie dei "caduti in battaglia" di questa guerra condotta a fari spenti dal terrorismo islamico.

    Da oggi è disponibile in libreria il libro di Giulio Meotti, "Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri d'Israele" (Lindau, 352 pagine, 24 euro).

    Quasi ogni giorno in Israele ci sono cerimonie funebri per le vittime del terrorismo. Persone uccise per il solo fatto di essere ebree. In banca, nei centri commerciali, in pizzeria. Sul pullman, davanti a un cinema, per strada. Da sole e in gruppo. Giovani e vecchi. Uomini e donne. Tutti condannati dalla furia del fondamentalismo islamico, bersagli di un odio quotidianamente alimentato da decenni. Questo lento e inesorabile stillicidio di morti – migliaia e migliaia – è il risultato di una guerra che ha avuto inizio nel 1972, alle Olimpiadi di Monaco, quando undici atleti della delegazione israeliana vennero trucidati da un commando di guerriglieri dell'organizzazione palestinese Settembre Nero. Da allora ogni cittadino di Israele sa che può morire in qualsiasi istante. Giulio Meotti racconta le storie dei «caduti in battaglia» di questa guerra condotta a fari spenti dal terrorismo islamico, abilmente dissimulata tra i fatti di cronaca della «questione palestinese », dietro la quale si cela la vera causa di una simile strage: l'antisemitismo. Complice la distrazione dei media occidentali, queste storie ci appaiono sinistramente inedite, come se le leggessimo per la prima volta. Come se neanche fossero vere. Eppure nelle parole e nel dolore dei sopravvissuti – mogli, mariti, figli, padri, madri, nonni, sorelle, fratelli, amici, commilitoni, compagni di studi, conoscenti – ogni particolare suona autentico, definitivo, indimenticabile. Parecchie di queste storie si intrecciano con quelle tristemente note della Shoah: chi muore oggi negli attentati è spesso figlio o nipote di un sopravvissuto ai campi di sterminio e diventa così parte di una sola, tragica, incomprensibile sequela. L'ebraismo insegna che l'hazkarah, l'atto del ricordare, è l'unico modo per chi sopravvive di provare l'ingiustizia sofferta da ogni innocente e di opporsi al destino che molti vorrebbero riservare agli ebrei, anche in Israele: l'esilio, la fuga, il martirio. Leggere queste pagine è quindi già un atto di resistenza alla barbarie.

    Pubblichiamo uno stralcio dell'undicesimo capitolo, "Il guaritore di bambini Down"

    In Israele era noto come il guaritore dei bambini Down. «Uno tzadiq», singhiozza fra le lacrime la mamma di uno dei suoi pazienti. Nella tradizione ebraica, uno tzadiq è un giusto, un santo e un sapiente, scelto da Dio per distribuire i suoi doni al resto dell'umanità. E questo era Moshe Gottlieb, una delle 19 vittime dell'attentato suicida di martedì 18 giugno 2002 a Gerusalemme. Moshe è stato assassinato sulla strada verso un'altra delle sue giornate di carità verso i malati e i disabili. Dopo aver abbandonato un lucroso lavoro in una fabbrica di pellicce a New York, Moshe si era trasferito a Los Angeles e si era dedicato agli studi di chiropratica. Nel 1972 era venuto in visita in Israele e se ne era innamorato. Sei anni dopo va a vivere a Gerusalemme con la moglie e i figli. Qui la sua pratica medica si era approfondita, affiancata da un serissimo studio della Torah. Non usava taxi, Moshe, ogni martedì andava in autobus a Bnei Brak, il poverissimo sobborgo di Tel Aviv abitato da religiosi ortodossi, e lì lavorava gratuitamente in un centro per bambini Down. Il martedì, perché nella tradizione ebraica è un giorno «due volte buono» e quindi bisogna doppiamente rendere gloria al Signore. Ma ogni altro giorno Gottlieb iniziava alle 8.15 in punto a ricevere nel suo studio di Gerusalemme. Molti erano casi disperati, pazienti cronici e disabili gravi. «C'era una bambina Down, con cui Moshe cominciò a lavorare quando lei aveva due anni», dice la moglie Sheila. «All'inizio era totalmente contratta e terrorizzata, non voleva neppure farsi toccare. Era stata abbandonata dai genitori naturali e Moshe voleva molto bene ai genitori adottivi, lavorava sempre con gente speciale. Be', per farla breve, adesso la bambina ha circa dieci anni e suona molto bene il pianoforte.»
    All'alba e al tramonto Moshe, che si alzava ogni giorno alle 3.30, andava a pregare nella sinagoga di Gilo, che aveva contribuito a costruire. «La sinagoga era casa sua, era il primo ad arrivare e l'ultimo ad andarsene – dice Elyahu Schlesinger, il rabbino capo di Gilo – ed era sempre pronto a insegnare e a incoraggiarci con la sua sapienza e il suo sorriso.» Nella sinagoga era stato da poco inaugurato un quadro in suo onore. Ora è intitolato alla sua memoria, proprio lì sotto si sono svolte le orazioni funebri. Gottlieb abitava all'estremità sud di Gerusalemme. Per mesi, durante la seconda intifada, il quartiere è stato colpito giorno e notte da missili e colpi di mortaio provenienti dal sobborgo palestinese di Beit Jalla. Moshe teneva la sua sedia sempre davanti alla finestra, da cui vedeva tutta Gerusalemme. «La sua sedia resterà sempre là» dice la moglie. Moshe si svegliava, studiava la Torah e preparava le sue lezioni di Mishnah da tenere a una classe di immigrati russi. Dopo l'insegnamento si recava al minyan per la preghiera rituale. Il martedì e il giovedì prestava servizio a Tel Chai, una casa di cura per pazienti gravemente malati. C'era una paziente, una donna in stato vegetativo da tredici anni, di cui Moshe si prendeva cura con una costanza impressionante.
    Ogni volta che visitava New York acquistava materiale medico prezioso per assistere quella donna. Seguiva anche l'Aleh, un ospedale per disabili fisici. Non mancava un appuntamento da tredici anni. Portava sempre dei regali ai bambini. Faceva beneficenza a due istituzioni per ragazze orfane, dava una mano alle famiglie dove gli uomini kharedim, gli ebrei ultraortodossi, non lavoravano per poter continuare a studiare. Non si separava mai dai suoi libri religiosi. E così anche quel giorno, avviatosi serenamente verso la fermata del bus, Moshe li aveva con sé sotto il braccio. «Era una persona molto speciale mio marito», ci racconta Sheila. «Dopo l'arrivo da Los Angeles abbiamo vissuto in un centro per l'immigrazione a Merkaz Klita. La mia fede in haShem, in Dio, e l'amore dei miei figli e delle loro famiglie mi hanno sostenuto negli anni dopo la sua morte. Oggi in sua memoria faccio la volontaria con i malati di Alzheimer.» Sheila ricorda il lavoro del marito. «Due anni prima della morte, Moshe aveva iniziato a lavorare coi bambini affetti da sindrome di Down. Aveva duecento pazienti da tutto Israele. Lo amavano tutti. Moshe diceva “il corpo parla”… E con le sue mani e la guida divina di haShem, era in grado di aiutare molta gente. Era molto vicino al nostro rabbi a Gilo, Eliyahu Schlesinger. Moshe ne aveva finanziato la sinagoga di Hazon Nachum. Oggi a tutti mancano il suo amore, la sua guida, la sua presenza. I suoi pazienti, gli amici e la famiglia, tutti lo piangono. Io spero che un giorno possiamo essere tutti ancora assieme in thekhiyath hamethim, la rivelazione di Dio ai morti. Ed essere testimoni della venuta del Messia.» Il celebre commentatore biblico Rashi ha detto che quando uno tzadiq, un giusto, abbandona un luogo, tutti avvertono questa perdita. Ma ha aggiunto che un residuo di presenza spirituale, un roshem, resta dietro ciascuno di loro.

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    • Giulio Meotti
    • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.