Oltre la Finanziaria light

Giavazzi ci spiega perché serve “uno choc positivo” per accelerare la ripresa

Stefano Cingolani

Insiste Giavazzi con il Foglio: “Il punto di partenza è come accelerare la crescita. Da qui nasce l'esigenza di una riduzione fiscale ampia, permanente, significativa, tale da indurre uno choc positivo. La vera domanda è quanto ci vorrà per tornare là dove eravamo, in altri termini quando si ridurrà di nuovo la disoccupazione.

    Una finanziaria che non è una finanziaria, una manovra senza manovra. Zero tagli, zero tasse. E tuttavia la politica economica non finisce qui. Nell'incontro con il governo, lunedì scorso, Emma Marcegaglia ha riproposto un sollievo fiscale sul lavoro, trovando il consenso di Raffaele Bonanni e degli altri capi sindacali. Una sorta di patto dei produttori all'insegna della parola d'ordine meno tasse e più lavoro? A tirare il sasso nello stagno è stato il professor Francesco Giavazzi e adesso può dirsi soddisfatto. L'intervista al Foglio, dopo un editoriale sul Corriere della sera, ha sviluppato un ampio dibattito, raccogliendo “commenti favorevoli soprattutto dall'interno della maggioranza di governo”, nota l'economista le cui opinioni si trasformano spesso in “agenda politica”.

    Giulio Tremonti ha escluso interventi aggiuntivi, men che meno straordinari, rispetto a quelli già previsti. Tuttavia ha fatto capire che aspetta il risultato dello scudo fiscale. Una sorta di secondo tempo rinviato a Natale. Senza ripetere gli infausti giorni del “tesoretto” che ballava tra Romano Prodi e Tommaso Padoa Schioppa, potrebbero aprirsi spazi per una spinta in grado di superare davvero la recessione. Insiste Giavazzi con il Foglio: “Il punto di partenza è come accelerare la crescita. Da qui nasce l'esigenza di una riduzione fiscale ampia, permanente, significativa, tale da indurre uno choc positivo. La vera domanda è quanto ci vorrà per tornare là dove eravamo, in altri termini quando si ridurrà di nuovo la disoccupazione. Sulla base delle stime internazionali, l'Italia è il paese che impiegherà più tempo”.

    Il Fmi ha preparato delle proiezioni per il G20 di Pittsburgh. Nei prossimi otto trimestri il pil italiano risalirà molto lentamente e tra due anni sarà ancora sotto il livello pre-crisi. “Questo è il nocciolo della questione anche quando si parla di ripresa. Certo che ci sono segnali positivi, certo che la produzione e il prodotto lordo risalgono, come mostrano i dati di luglio. Ma con quale passo, a quale velocità? Tenendo conto che veniamo già da un decennio di crescita bassa”. Dunque, accelerare. Non abbiamo alternative. “Ci sono due strade: la prima è rendere il paese più concorrenziale e competitivo. Ma questa non mi sembra la priorità del governo. La seconda è liberare, riducendo le imposte, un mercato del lavoro in cui lavorano in pochi (soprattutto tra le donne e i giovani) e chi lo fa lavora per meno ore rispetto ai paesi nostri concorrenti”.

    Non è solo una operazione redistributiva, di giustizia sociale. E' un modo per recuperare il terreno perduto. Anche su questo, però, ci sono opinioni contrastanti. E sembra prevalere la formula: crescita lenta ma sicura. “Lenta sì, ma poco sicura”, ribatte Giavazzi. “Se impiegheremo più di tre anni per recuperare lo sviluppo bruciato dalla recessione, quali saranno le ripercussioni sulle banche? Potranno reggere bilanci sempre più appesantiti dalle perdite delle imprese e delle famiglie, o da crediti inesigibili? E quante aziende sopravviveranno?”. C'è chi dice: i ricchi dell'occidente sono condannati a ristagnare, mentre lo sviluppo ormai si addice all'Asia, all' America Latina, all'Africa. E tutto sommato è un bene come ha scritto Tommaso Padoa Schioppa. “Ciò può valere per paesi piccoli, per la Finlandia o il Belgio. Non per l'Italia il cui prodotto lordo è composto per il 70 per cento da domanda interna”. L'export, insomma, resta una fondamentale forza motrice, ma non basta a farci vivere decentemente, per non parlare di impiegare al meglio le risorse inutilizzate come il lavoro.

    Chi ha accolto l'idea di detassare il lavoro, ha messo in campo idee diverse. Dalla defiscalizzazione degli straordinari, al taglio delle imposte sulla tredicesima. Ma “per modificare i comportamenti della gente servono cose visibili, a forte impatto – sottolinea Giavazzi – Ecco perché ho rilanciato la proposta originaria che Berlusconi presentò nel 1994 all'inizio del suo percorso politico. Tre aliquote soltanto: zero, 23 e 33 per cento. Solo così si può far capire che tutto è cambiato. Le altre sono misure tutto sommato marginali. Che rischiano di ridurre ulteriormente il gettito (capisco le preoccupazioni del Tesoro), senza cambiare i comportamenti di fondo”. Si tratta di una operazione strutturale. Che non si può fare con una finanziaria. “Con la finanziaria no, ma con i tempi della finanziaria questo sì”. Non è possibile introdurre le tre aliquote con un emendamento, ma nemmeno con un disegno di legge che rischia di essere stravolto o insabbiato”. Il tempo è fondamentale. E' una risorsa più che mai scarsa e preziosa se si vuole cogliere il nuovo ciclo economico.

    La riforma non è a costo zero. Come trovare le risorse? “Il primo passo è lo spostamento del prelievo dal lavoro alle rendite”, ha scritto Gavazzi sul Corriere della sera di giovedì scorso. Nel mirino, innanzitutto, le rendite finanziarie. Con tassi piatti e rendimenti vicino a zero, il gettito di maggiori imposte sugli interessi oggi sarebbe nullo o irrisorio. Tuttavia, “i rendimenti torneranno a crescere prima di quel che ci si aspetti”. Le rendite abbondano non soltanto nella finanza. Si pensi alle concessioni di beni pubblici, dalle spiagge alle autostrade, fino alle frequenze televisive. “Perché non assegnarle con vere aste a prezzi di mercato, come avviene in Inghilterra, anziché a quello fissato per legge come in Italia?”, chiede Gavazzi, “anche se mi rendo conto – ironizza – che è una domanda che non piace al presidente del Consiglio”. Giavazzi non si illude di poter recuperare tutto il gettito tassando le rendite. “Ci vuole il coraggio di scommettere sul futuro e accettare un deficit più alto per qualche anno”, aggiunge. Del resto, nessuno è in grado di rispettare i limiti di Maastricht. Il Regno Unito ha un disavanzo pubblico del 12 per cento. Lo stesso debito medio nei paesi industrializzati tende a superare il 100 per cento del pil e si profila una convergenza verso l'alto con l'Italia. Ci sono tutte le condizioni per sopportare una finanza pubblica in squilibrio, a patto di spingere la crescita.

    Lo stesso approccio pragmatico va usato per l'idea periodicamente rilanciata, di introdurre una tassazione straordinaria delle transazioni finanziarie, simile a quel che l'economista post-keynesiano James Tobin aveva proposto sugli scambi di valuta non collegati direttamente a scambi di merce, per tagliare le unghie alla speculazione. “Ammesso che una Tobin tax sia realizzabile in concreto, vista la complessità, la sofisticatezza e l'estensione della finanza mondiale, sarebbe controproducente”, spiega l'economista bocconiano.Il motivo è molto semplice. Nella prima fase la crisi è stata una crisi di liquidità, e le banche centrali hanno pompato moneta per rendere il sistema di nuovo liquido. Il che vuol dire che ogni operatore deve avere la possibilità di vendere il titolo in portafoglio, trasformandolo in moneta e trovando dall'altra parte qualcuno disposto a comperarlo. Se si introduce una Tobin tax, si immette sabbia nell'ingranaggio. Non è, dunque, solo una questione di costi (le imposte aggiuntive potrebbero essere scaricate dagli intermediari sui clienti), ma di funzionalità dell'intero meccanismo. La Tobin tax è destinato a essere uno dei temi nel G20 di Pittsburgh, assieme ai limiti per i superbonus e alle nuove regole di controllo. Secondo Giavazzi, “la vera questione a Pittsburgh riguarda se spostare dalle banche alle piattaforme Mts, in altri termini se rendere pienamente concorrenziali e trasparenti le transazioni in bond, e nello stesso tempo allontanare dalle banche propriamente dette rischi finanziari che si sono rivelati eccessivi”. Sembra un escamotage tecnico, invece è la pietra di paragone di una riforma che voglia ridurre il rischio sistemico. Prendiamo un hedge fund: a patto che non sia troppo grande, se fallisce è un problema limitato. Non solo. Il proprietario e il gestore del fondo assumono per lo più il rischio su se stessi, pagano di tasca propria, perché i requisiti di capitale sono individuali.

    La crisi è diventata così grave anche perché si sono confusi e sovrapposti i mestieri. Paul Volcker insiste nel chiedere che vengano costruite nuove dighe tra le banche commerciali e le banche d'affari. Giavazzi, che non ha mai demonizzato la finanza e non crede nemmeno nell'effetto di misure populiste come il tetto ai bonus, propone una soluzione meno drastica, ma più articolata. Mentre tutti vogliono mettere le braghe agli hedge funds, i quali durante il crack si sono comportato meglio di altri intermediari, il professore li propone come possibili modelli virtuosi. Un altro invito esplicito a non farci condizionare, anzi accecare, dai luoghi comuni. In fondo le balle in questo anno infernale, hanno persino superato le bolle. E non sono ancora scoppiate.