G2 A New York

Perché Barack Obama e Hu Jintao non si sono messi d'accordo

Luigi De Biase

Il piano di Barack Obama per migliorare i rapporti con la Cina arriva malconcio al G20 di Pittsburgh. Martedì, il capo della Casa Bianca ha incontrato il leader di Pechino, Hu Jintao, e ha discusso alcuni punti dell'agenda internazionale. Il confronto è durato novanta minuti: i due leader hanno mostrato di essere lontani su tutto, dalla politica monetaria alle sanzioni contro l'Iran nucleare passando per la lotta al global warming.

    Il piano di Barack Obama per migliorare i rapporti con la Cina arriva malconcio al G20 di Pittsburgh. Martedì, il capo della Casa Bianca ha incontrato il leader di Pechino, Hu Jintao, e ha discusso alcuni punti dell'agenda internazionale. Il confronto è durato novanta minuti: i due leader hanno mostrato di essere lontani su tutto, dalla politica monetaria alle sanzioni contro l'Iran nucleare passando per la lotta al global warming. Lo scorso aprile, il presidente americano aveva lanciato il G2, un tavolo di confronto che doveva stabilire un nuovo punto di partenza nelle relazioni fra Washington e Pechino. Cinque mesi più tardi, molti analisti ritengono che Obama abbia ottenuto risultati inferiori alle aspettative. L'ultimo meeting fra i due presidenti è andato in scena in una stanza dell'hotel Waldorf Astoria di New York ed è terminato in maniera piuttosto anonima: niente incontro con la stampa, niente foto ricordo.

    L'idea di un G2 circolava negli ambienti accademici americani dal 2006 ma è stata ripresa con forza all'inizio dell'anno da Zbigniew Brzezinski. Hu Jintao ha accolto l'invito di Obama con qualche riserva: molti dei suoi consiglieri credono che Pechino non dovrebbe partecipare al progetto. Giorni fa, l'ambasciatore cinese a Tokyo, Cui Tiankai, ha detto che il paese sostiene “la democratizzazione del mondo, non il dominio di poche nazioni sulle altre. Se il G7 non riesce a risolvere i problemi internazionali, figuriamoci che cosa potrebbe fare un gruppo di due”. Cui non è la fotografia dell'antiamericano, ha passato diversi anni a New York e si è laureato alla John Hopkins University. La sua opinione è piuttosto diffusa fra i diplomatici cinesi.

    Obama e Hu hanno posizioni completamente diverse sul ruolo del dollaro nell'economia globale, tanto che il tema è stato accuratamente evitato nell'incontro al Waldorf Astoria. La Cina, assieme alla Russia, mette in discussione il valore della moneta verde e auspica l'arrivo di una nuova valuta di riserva. Nel frattempo, progetta di aumentare le proprie riserve d'oro: fonti del governo hanno fatto sapere che la Banca centrale pensa di acquisire le 403 tonnellate messe in vendita dal Fondo monetario internazionale (Fmi) al prezzo scontato di tredici miliardi di dollari. Se l'operazione andasse in porto, le riserve cinesi salirebbero di colpo del cinquanta per cento.

    Le autorità di Pechino avevano comunicato un altro balzo delle riserve ad aprile – dalle seicento tonnellate del 2003 alle 1.054 del 2009. Secondo gli analisti della rivista Forbes, la Cina non ha alcun bisogno di comprare oro all'estero ed è poco probabile che chiuda un accordo con l'Fmi: è molto più conveniente acquistare con gli yen quello estratto nelle ricche miniere del paese. La politica monetaria di Pechino potrebbe entrare nel dibattito che si apre oggi a Pittsburgh. Secondo l'ex direttore di Economist, Bill Emmott, Hu ha una posizione poco responsabile sul tema: la capitale mondiale dell'export non può permettersi di avere una moneta che non si può scambiare liberamente. Gli Stati Uniti e la Cina si sono allontanati anche sul clima, una questione centrale nei programmi dell'Amministrazione Obama. All'Assemblea generale delle Nazioni unite, Hu Jintao è parso molto più deciso del presidente americano, che non è andato oltre il richiamo apocalittico per arrivare in fretta a un nuovo patto sul global warming. Hu è stato risoluto e partico, ha citato cifre e fonti, ha promesso un taglio significativo delle emissioni “entro il 2020” e ha raccolto riconoscimenti inediti fra la stampa liberal americana. Sinora, Pechino aveva sempre opposto resistenza all'ipotesi di ridurre l'inquinamento atmosferico delle proprie fabbriche, ma questa volta, è stato difficile capire chi dei due fosse il vero ambientalista. 

    L'intoppo più grande nel meccanismo del G2 potrebbe arrivare sul punto più decisivo dell'agenda Obama: il programma atomico iraniano. Ieri, il presidente di Teheran, Mahmoud Ahmadinejad, ha auspicato una discussione “libera e aperta” sul tema; ma secondo i servizi segreti israeliani, il paese ha abbastanza uranio per costruire armi nucleari. Durante l'epoca Bush, Hu Jintao aveva offerto il proprio appoggio alle sanzioni contro il regime islamico, ma oggi il governo cinese pare molto più vicino agli ayatollah di quanto non lo fosse un tempo. Secondo il Financial Times, una compagnia pubblica di Pechino fornirebbe agli ayatollah quarantamila barili di greggio ogni giorno, in aperto contrasto con le richieste della Casa Bianca. Lo scorso anno, il Tesoro americano ha convinto numerose società petrolifere ad abbandonare questo business redditizio ma pericoloso. Major dell'energia come Total, Eni e British Petroleum hanno congelato gli investimenti in Persia per evitare eventuali sanzioni. La manovra cinese mette in crisi la strategia di Obama e apre una spaccatura con gli alleati, Francia e India in testa: chi ha sostenuto la posizione della Casa Bianca, ha semplicemente lasciato il posto a un nuovo fornitore.