Il fattore Kagan
L’intellettuale che ha contribuito a salvare l’Amministrazione di George W. Bush e l’America intera da un’umiliante sconfitta in Iraq si chiama Frederick Kagan ed è lo stesso che, in un modo o nell’altro, è al centro del dibattito politico e strategico che può decidere le sorti anche della presidenza di Barack Obama.
L’intellettuale che ha contribuito a salvare l’Amministrazione di George W. Bush e l’America intera da un’umiliante sconfitta in Iraq si chiama Frederick Kagan ed è lo stesso che, in un modo o nell’altro, è al centro del dibattito politico e strategico che può decidere le sorti anche della presidenza di Barack Obama. Già professore di Storia militare all’Accademia di West Point e oggi esperto dell’American Enterprise Institute, Frederick Kagan ha soltanto trentanove anni, eppure è stato l’analista che nel dicembre del 2006, assieme all’ex generale Jack Keane, ha convinto Bush a puntare su un nuovo approccio politico-militare in Iraq, il cosiddetto “surge”, e poi su un nuovo generale, David Petraeus, per sconfiggere la guerriglia irachena e i nostalgici del dittatore Saddam Hussein.
Nell’era Obama, Kagan non è affatto scomparso come è fisiologicamente successo a molti dei sostenitori di Bush, anzi oggi è tra i consiglieri più ascoltati di Stanley McChrystal, il super generale scelto dal nuovo presidente degli Stati Uniti per guidare la guerra in Afghanistan. Nei giorni scorsi McChrystal ha presentato al Pentagono e alla Casa Bianca i dettagli di una nuova strategia per sconfiggere i talebani afghani, centrata sull’invio di altre truppe a Kabul (fino a quarantamila) e sull’applicazione delle tecniche anti insurrezione (counterinsurgency) applicate con successo in Iraq. Il piano di McChrystal, insomma, è la versione afghana e antitalebana del “surge” elaborato da Kagan e Keane, applicato da Petraeus e adottato da Bush all’inizio del 2007 per sconfiggere gli estremisti saddamiti e convincere le tribù sunnite del nord-ovest dell’Iraq a collaborare con le Forze internazionali e il governo democratico di Baghdad.
Di fronte alle prime serie difficoltà in Afghanistan, Obama non ha ancora deciso come procedere e non si sa se sia dotato della medesima tempra d’acciaio del suo predecessore, uno che malgrado le critiche e le pressioni è stato capace di inviare più truppe a Baghdad mentre il paese, il Congresso, gli alleati internazionali e l’establishment della politica estera di Washington spingevano per il disimpegno e il ritiro.
In campagna elettorale, Obama aveva spiegato che, al contrario del contestato conflitto in Iraq, la guerra in Afghanistan era quella giusta, quella necessaria e fondamentale per la sicurezza degli Stati Uniti. Una volta alla Casa Bianca, si è trovato di fronte a una situazione che nei mesi precedenti non avrebbe immaginato. Grazie al “surge” ideato da Kagan, Keane e Petraeus – e osteggiato dall’allora senatore Obama prima che ne riconoscesse “il successo al di là di ogni immaginazione” – in Iraq la situazione è migliorata, la violenza diminuita così come il conteggio dei morti civili e militari. Insomma, l’Iraq non è scalato nella lista di priorità della Casa Bianca. La situazione è peggiorata, invece, in Afghanistan a causa dell’offensiva talebana e della palese incapacità del governo democratico di Hamid Karzai di controllare il paese.
A marzo di quest’anno, Obama ha ribadito l’importanza della vittoria in Afghanistan e la tragedia di un’eventuale sconfitta contro talebani e al Qaida, sicché ha impegnato l’America a compiere uno sforzo ulteriore che ha definito decisivo per il futuro dell’occidente. La Casa Bianca ha addirittura esteso le operazioni belliche al territorio pachistano, lanciando frequenti attacchi missilistici con gli aerei senza pilota sui villaggi talebani al confine con l’Afghanistan. Obama ha aumentato del 50 per cento il contingente militare americano, ha nominato un nuovo generale, Stanley McChrystal, e ha deciso di puntare sulle elezioni presidenziali afghane, nella speranza che il voto sarebbe riuscito a consolidare e legittimare il governo centrale di Kabul e garantire maggiore serenità nel paese. Non è stato così. La presidenza Karzai è sempre più debole, il numero dei morti americani è aumentato, la violenza è cresciuta e l’opinione pubblica statunitense dà segni evidenti di stanchezza per una guerra giunta all’ottavo anno e che sembra non finire mai.
Obama ora si trova a un bivio. Il suo generale gli ha presentato un piano per vincere la guerra e gli ha chiesto di fornire gli uomini necessari a portare a termine la missione. I capi del Partito democratico, che controllano il potere di spesa del Congresso, sono scettici se non contrari all’eventualità di inviare più soldati. I militanti della sinistra organizzata su Internet lanciano appelli per il ritiro, annunciano marce pacifiste d’autunno e minacciano di non sostenere i deputati democratici alle elezioni di metà mandato del prossimo anno se voteranno al Congresso a favore dell’invio di altri soldati.
Barack Obama prende tempo per valutare le opzioni che gli sono rimaste. Nei prossimi quindici giorni, cominciati ieri, presiederà alla Casa Bianca una serie di vertici militari sull’Afghanistan e soltanto al termine di questo articolato processo di revisione della strategia politica e militare deciderà che cosa fare e, quindi, se inviare più truppe o no.
Gli schieramenti, all’interno dell’Amministrazione, sono ormai consolidati. Il vicepresidente Joe Biden, il consigliere per la Sicurezza nazionale Jim Jones e il capo dello staff Rahm Emanuel gli consigliano di concentrare le attività belliche all’azione antiterrorismo contro al Qaida e di lasciar perdere la battaglia contro i talebani. Il segretario di stato Hillary Clinton, il consigliere speciale sull’area AfPak Richard Holbrooke, il capo di stato maggiore Mike Mullen e i generali Petraeus e McChrystal vorrebbero invece i mezzi necessari a sconfiggere anche i talebani. In mezzo sembra esserci il segretario alla Difesa Bob Gates, l’uomo che negli ultimi anni di Bush ha gestito con successo il “surge” in Iraq e che ora un giorno sembra tra i più prudenti e un altro tra chi è convinto che ai talebani dell’Afghanistan non si possa cedere nemmeno un millimetro.
Obama ha chiesto consiglio anche a due senatori democratici come John Kerry e Jack Reed, ma soprattutto al conservatore Colin Powell, l’ex capo di stato maggiore che ha guidato la diplomazia americana nel primo mandato di Bush. Powell e gli altri hanno suggerito al presidente di non procedere al “surge” in Afghanistan.
Qui torna in scena Frederick Kagan, nel suo ruolo di consigliere di McChrystal e di autore, assieme alla moglie Kimberly, di un documento di 46 pagine dal titolo “Afghanistan Force Requirements” pubblicato dall’American Enterprise Institute e dall’Institute for Study of War che è molto simile nei contenuti di fondo al report preparato da McChrystal per il Pentagono e la Casa Bianca. Da una parte quindi Powell, dall’altra Kagan. Si ripropone così non soltanto il dibattito politico e militare, vinto da Kagan, su quale strategia adottare per piegare la rivolta sunnita in Iraq, ma anche l’antico scontro intellettuale tra i realisti moderati alla Powell e gli idealisti muscolari come i neoconservatori che ha attraversato senza soste i sette anni bushiani successivi all’11 settembre 2001.
Kagan, infatti, è l’ultimo rampollo di una delle più importanti famiglie di intellettuali neoconservatori d’America. La più importante, storicamente, è quella dei Kristol, con il capofila dei neocon Irving, scomparso qualche giorno fa a 89 anni, sua moglie Gertrude Himmelfarb, raffinata storica dell’età vittoriana, e il figlio Bill che dirige il Weekly Standard e fa da sentinella politica del mondo neoconservatore. Poi ci sono i Podhoretz con l’ottantenne polemista Norman, sua moglie Midge Decter, già biografa di Donald Rumsfeld, il figlio John, direttore della storica rivista Commentary, e il genero Elliot Abrams che alla Casa Bianca di Bush coordinava le politiche mediorientali dell’Amministrazione.
Il curriculum dei Kagan non sfigura di fronte ai Kristol e ai Podhoretz. Il decano è Donald Kagan, professore a Yale e massimo storico americano delle guerre del Peloponneso. Quando a Irving Kristol chiedevano quale fosse la politica estera neoconservatrice lui consigliava di leggere i saggi storici di Kagan. Uno dei figli di Donald è Robert Kagan, stimato analista, opinionista del Washington Post e autore del fortunato saggio sui rapporti transatlantici, “Paradiso e potere”, che dopo l’11 settembre ha fatto discutere le cancellerie occidentali e gli editorialisti internazionali. Poi c’è il trentanovenne Frederick, lo stratega militare del “surge” di Bush e Petraeus. La moglie di Fred si chiama Kimberly Kagan ed è la presidente dell’Institute for Study of War, collabora con diverse testate a cominciare dal Weekly Standard di Kristol e ha appena scritto il libro definitivo sulla strategia che ha funzionato in Iraq, “The surge – A military history” (Encounter books).
Fred Kagan e sua moglie non hanno stilato soltanto un piano dettagliato per ripetere il successo iracheno in Afghanistan, ma hanno anche scritto un lungo articolo sul Weekly Standard per spiegare al presidente che l’ipotesi allo studio della Casa Bianca di limitare le operazioni belliche all’antiterrorismo è un modo per non vincere la sfida afghana contro al Qaida.
Anche Hillary Clinton è della stessa idea dei Kagan, al punto da aver fatto imbufalire l’ala sinistra del partito e i blog radicali su Internet per aver ridicolizzato, qualche giorno fa durante un’intervista al telegiornale della Pbs, la posizione di quei suoi colleghi convinti che sia sufficiente combattere soltanto al Qaida: “Se l’Afghanistan tornasse in mano ai talebani – ha detto il segretario di stato – non saprei nemmeno quantificare la velocità con cui al Qaida tornerebbe in Afghanistan. Su questo dobbiamo avere gli occhi molto aperti”.
Fred e Kimberly Kagan notano che se il processo di revisione della strategia afghana deciso da Obama durerà molto a lungo, i militari saranno costretti ad accelerare i tempi della spedizione dei nuovi soldati oppure rischiano di perdere l’opportunità per un’efficace campagna di primavera. I due Kagan smontano punto per punto l’approccio strategico dei consiglieri di Obama che spingono il presidente a limitare le operazioni alla lotta contro al Qaida. La loro idea, spiegano i coniugi Kagan, è che al Qaida sia principalmente un gruppo terroristico e quindi separabile dai rivoltosi locali accanto ai quali vivono. Secondo i due Kagan, l’analisi è profondamente sbagliata. Al Qaida, intanto, non pensa di sé di essere un’organizzazione terrorista, ma un movimento rivoluzionario d’avanguardia, in senso leninista, il cui obiettivo è prendere il potere in tutto il mondo islamico. Il gruppo di Bin Laden non è come l’Eta o l’Ira e nemmeno come Hamas. Il suo obiettivo non è territoriale, ma addirittura di guidare il miliardo e mezzo di musulmani della terra e di sottomettere i popoli infedeli.
L’alleanza tra Osama bin Laden e il gran capo dei talebani mullah Omar, inoltre, è molto solida come si è visto prima e dopo l’11 settembre. Bin Laden ha nominato il mullah Omar “comandante dei fedeli” e il leader talebano non ha mai pensato per un attimo di cedere alle richieste di Washington di consegnare Bin Laden in cambio della sopravvivenza del suo regime che guidava a Kabul. L’intreccio al Qaida-talebani non è uguale a quello che in Iraq ha legato i seguaci di Bin Laden alle tribù sunnite. Quella era un’alleanza di convenienza, tanto che quando i leader tribali dell’Iraq settentrionale, grazie alla protezione garantita dal “surge”, hanno messo fine alle operazioni militari antiamericane e contro il governo centrale di Baghdad, la sezione irachena di al Qaida è stata avvertita come un’entità nemica dalla popolazione locale che prima l’aveva sostenuta. La situazione in Afghanistan e in Pakistan è diversa, spiegano Fred e Kimberly Kagan. Non solo. Con meno truppe sul terreno sarà anche molto più difficile avere informazioni di intelligence e individuare, mirare e uccidere dirigenti e quadri di al Qaida con i droni teleguidati dalle basi americane in New Mexico.
L’unica strada, secondo i due Kagan, è quella della guerra ai talebani, usando i soldati americani per proteggere la popolazione dall’influenza degli estremisti e per contribuire alla formazione dell’esercito nazionale afghano. In linea di principio, hanno scritto i due Kagan, è vero che i talebani non costituiscono un pericolo immediato per l’America, ma vanno combattuti senza cedimenti perché sono integralmente connessi ad al Qaida: “Consentire ai talebani di estendere la loro area territoriale di controllo e di influenza – hanno concluso Fred e Kimberly Kagan – offrirebbe nuove opportunità ad al Qaida”.
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