Bostoniani a Milano

Stefano Cingolani

Domenica ci saranno tutti. Alle 10 al Campus Bocconi si tiene la prima corsa aperta a studenti, docenti, dipendenti, laureati che fanno parte della organizzazione degli Alumni. Saranno lì, chi in pista, percorrendo gli otto chilometri attorno al campus, chi a sostenere, tifare, fare squadra. Sì, questa abusata espressione sportivo-militaresca, stavolta ha un vero significato. Perché se sei stato bocconiano, resti bocconiano per sempre.

    Domenica ci saranno tutti. Alle 10 al Campus Bocconi si tiene la prima corsa aperta a studenti, docenti, dipendenti, laureati che fanno parte della organizzazione degli Alumni. Saranno lì, chi in pista, percorrendo gli otto chilometri attorno al campus, chi a sostenere, tifare, fare squadra. Sì, questa abusata espressione sportivo-militaresca, stavolta ha un vero significato. Perché se sei stato bocconiano, resti bocconiano per sempre. Nella storia delle élite italiane e della loro formazione, l'università privata milanese merita un posto di primo piano. Se lo è ritagliato con l'eccellenza degli insegnamenti, con il livello dei propri docenti, con la posizione che ha saputo occupare nella lunga e amara scala del potere, con la consistenza e l'indipendenza delle idee. Se c'è una Harvard latina, questa è senza dubbio la Bocconi, perché l'Ena (l'École national d'administration che produce la classe dirigente economica e politica francese) resta pur sempre un'ancella dello statalismo. Se c'è una figura che possa paragonarsi al sofisticato bostoniano (saputello fino al punto di confinare talvolta con l' arroganza), ebbene questi è senza dubbio un bocconiano.
    In passato, si è tanto parlato dei McKinsey boys, cioè i virgulti della più famosa e importante società di consulenza aziendale. Da lì sono usciti, tra gli altri, Corrado Passera e Alessandro Profumo.

    Poi sono andati di moda i Goldman boys
    , cioè i banchieri d'affari passati attraverso la rude e a un tempo sofisticata scuola della regina di Wall Street, unica sopravvissuta alla moria delle concorrenti. McKinsey o Goldman Sachs hanno dato una impronta a eminenti personaggi passati per i loro uffici. Spesso i destini si sono incrociati come nel castello calviniano. Profumo, Passera, o Claudio Costamagna (a lungo considerato consigliere di Romano Prodi) hanno brillantemente frequentato la Bocconi laureandosi con lode. Ma oggi, in questa fase tutta speciale della vita italiana, in cui le vecchie élite si avviano verso il tramonto e le nuove stanno appena sorgendo, il bocconiano diventa una figura particolare.
    Non è esattamente la prima volta. La missione dell'università, è stata fin dall'inizio “apertura alla modernità, atto di fiducia nel progresso e nella sua stretta relazione con l'avanzamento della conoscenza”. E scusate se è poco. Basta passare in rassegna alcuni degli eventi in calendario per questo mese di ottobre. Il 7 un focus sulla Turchia organizzato per conoscere, ma anche combinare affari. Il giorno successivo, la pubblica amministrazione, dal titolo “Fannulloni si diventa?”. Tema della relazione introduttiva: “Liberare le energie, trasformare la riforma in cambiamento”. Come dire: prendiamo sul serio Brunetta e vediamo cosa se ne può tirar fuori. Il 9 novembre, l'anno accademico verrà inaugurato dal presidente Mario Monti e dal rettore Guido Tabellini, ma l'ospite d'onore al quale viene riservata la prolusione è Pascal Lamy, direttore generale dell'Organizzazione mondiale per il commercio. Traduzione per l'inclita: prendiamo sul serio Tremonti e vediamo come cavalcare la globalizzazione.

    In questo nesso teorico-pratico c'è davvero il filo della storia.
    Ferdinando, proprietario dei magazzini Bocconi in piazza Duomo (venduti poi ai Borletti, divennero La Rinascente con l'aiuto di D'Annunzio) era convinto che un vero e solido progresso economico si sarebbe potuto realizzare solo riqualificando il lavoro e affinando culturalmente il capitale, come recita la vulgata. Decise di fondare una università commerciale. Dedicò la Scuola superiore (si chiamava così e l'idea era di aggregarla al prestigioso Politecnico di Milano) al figlio Luigi disperso sei anni prima nella battaglia di Adua. Era il 1902 e l'ambizione di Bocconi non era in fondo molto diversa da quella di John Harvard, il pastore puritano morto nel 1638 che aveva lasciato la sua grande biblioteca al neonato college con l'intento di far crescere dal basso la classe dirigente della Nuova Gerusalemme. L'università milanese voleva che gli ingegneri, veri motori dell'Italia faber, avessero anche solide basi commerciali ed economiche. E i ragionieri, sfornati nelle scuole professionali e pronti ad essere assorbiti dalle imprese che spuntavano come funghi, possedessero una preparazione più ricca.

    Alla vocazione per la prassi, la Bocconi è rimasta fedele
    per almeno ottant'anni, anche se ha avuto al vertice menti di grande spessore teorico come Angelo Sraffa, tra i fondatori del moderno diritto commerciale, padre di Piero, diventato a Cambridge uno dei più geniali e astratti economisti, tanto astratto che nemmeno gli amici John M. Keynes e Ludwig Wittgenstein riuscivano a capire fino in fondo. Sraffa lasciò nel 1926 perché antifascista. Ma Gustavo Del Vecchio e Giovanni Demaria, rimasti a far la fronda, hanno impresso un segno nei manuali sui quali ogni studente ha dovuto sgobbare per decenni. La Bocconi fu in Italia la prima università con laurea in Economia, disciplina insegnata nelle facoltà di Giurisprudenza. Se uno vuol prendere degli economisti, dunque, non può non attingere alla scuola milanese. Se vuol prendersela con gli economisti, non può che puntare il dito sui bocconiani.

    In quelle aule sono passati in tanti che hanno preso altre strade nella vita (Nanni Svampa s'è dedicato al cabaret, Philippe Daverio alla critica d'arte, Giovanni Giudici alla chiesa diventando vescovo di Pavia, Pierre Casiraghi al principato di Monaco tanto per fare alcuni nomi). Politici di rango che coprono tutto l'arco costituzionale come si chiamava un tempo. Emma Bonino, Marco Cappato, Benedetto Della Vedova, Barbara Pollastrini, Marco Zacchera o Giancarlo Giorgetti. Manager e imprenditori a iosa: Marco Tronchetti Provera, Emma Marcegaglia, Lucio Stanca, Vittorio Colao, Matteo Arpe, Renato Soru, Paolo Scaroni, tanto per citare solo alcuni da uno sterminato elenco. Non parliamo degli economisti famosi. L'ultimo in ordine di tempo, a ricevere allori mondiali, è Nouriel Roubini, soprannominato Mr. Doom, l'uomo che si dice abbia previsto la grande crisi.
    Ma per essere bocconiano, non basta la summa cum laude. Chi pensa al primato della politica, per esempio, non lo è fino in fondo. Non per il frusto cliché del tecnico apartitico e un po' amorfo, emaciato, noioso, buono per tutte le stagioni. Nient'affatto. Il sangue scorre nelle vene della Bocconi e la passione attraversa aule e cattedre. Tanto meno prevale una infatuazione per il luogo comune della “casta”: non sia mai, il populismo è nemico giurato del bocconismo. Semmai, al centro del sistema di valori c'è il culto dell'equilibrio, nell'interscambio dei beni economici così come nei poteri.

    Il bocconiano non è un impolitico, neppure nella lettura alta
    che Thomas Mann dava di questa definizione. Piuttosto, un inguaribile ottimista, talvolta un po' naïf. Vuole un governo che governi, un mercato che funzioni, regole che non si trasformino in lacci e lacciuoli, una borghesia illuminata, un capitalismo con il senso del dovere e del suo posto nel mondo. “Pluralismo culturale e piena indipendenza da ogni potere politico ed economico”, è il mandato che il consiglio di amministrazione ha trasmesso in modo esplicito al nuovo rettore Tabellini nell'insediarlo il 27 maggio di un anno fa. E lui ne ha dato prova tenendo testa al difficile confronto sulla crisi non solo con Giulio Tremonti, teorico di una impostazione analitica diversa nonché ministro dell'Economia, ma anche con un mondo culturale che ha espresso una lettura più etico-politica e ruota attorno all'Università Cattolica di Milano o agli intellettuali che hanno contribuito ad elaborare l'enciclica “Caritas in veritate” e la Dottrina sociale della chiesa.

    Tecnicamente parlando, la Scuola di Friburgo
    (là dove venne concepito l'Ordoliberalismus, ossatura del modello tedesco) alla quale il tremontismo fa riferimento, nasce come liberale e privatistica, contro lo stato etico e la dittatura nazista. La sua impostazione, dunque, non è poi così distante da quella bocconiana, sempre contraria al corporativismo fascista. Ed è altrettanto evidente che l'economia sociale di mercato, ossatura della cultura cattolica, non è agli antipodi del bocconianesimo. Lo ha ricordato più volte lo stesso Mario Monti.
    Ma anche ammesso che sia solo questione di toni, porre l'accento sul mercato piuttosto che sullo stato, sulla libera concorrenza piuttosto che sul sociale, cambia l'intero spartito. E il primato del diritto rilanciato persino da un liberale progressista come Guido Rossi, rovescia i termini dell'equazione teorica. Ciò vale ancor più per il gruppo di studiosi torinesi presieduto da Ugo Mattei e coordinato da Edoardo Reviglio, che ha prodotto alcuni materiali sui quali Tremonti lavora per costruire un global legal standard. La lettura della crisi privilegia la violazione delle regole o le varianti politiche (dal crollo del Muro di Berlino alla globalizzazione) e ideologiche (l'idea, lanciata da Francis Fukuyama e cavalcata dai neocon, che dopo la sconfitta del comunismo potesse nascere un mondo unico basato sul pensiero unico della democrazia liberale e del mercato perfetto).

    I bocconiani non la pensano così e proprio Tabellini ha tracciato il solco
    chiudendo l'ampio dibattito del Sole 24 Ore: “A differenza dagli anni Trenta o dagli anni Settanta – scrive il rettore – non ci sarà dopo questa crisi una revisione sostanziale degli obiettivi di politica economica né dei concetti fondamentali di una economia di mercato. Chi afferma il contrario rivela una conoscenza superficiale della moderna teoria economica”.
    Quando il 7 settembre scorso il ministro dell'Economia si è presentato nell'aula magna dell'Università milanese, ha tenuto il punto analitico. Ma ha offerto numerosi ramoscelli d'ulivo, all'opposizione attraverso Enrico Letta che era accanto a lui (“facciamo insieme la riforma degli ammortizzatori sociali”) e anche agli economisti. Con Monti c'era già stato uno scambio di reciproca stima nell'autunno scorso, durante un dibattito al Corriere della Sera. Proprio il presidente della Bocconi ha voluto ricordare che l'università intende mantenere una propria collocazione, diciamo così centrista, nel dibattito teorico e di politica economica. Nonostante alcuni dei suoi più brillanti e noti esponenti, campioni “mercatisti”, siano diventati le bestie nere del tremontismo. Due su tutti: Francesco Giavazzi e Alberto Alesina, già autori del pamphlet di successo “Il liberismo è di sinistra”. Sono forse i più bostoniani tra tutti i bocconiani. Il primo s'è specializzato al Mit (Massachusetts Institute of Technology), il secondo ha insegnato per molti anni a Harvard; entrambi godono del privilegio, raro tra gli italiani, di scrivere regolarmente sul Financial Times. E spesso danno la linea, urbi et orbi.
    L'agenda Giavazzi, lanciata nel 2005, divenne la nemesi di un centrosinistra che aveva perduto la retta via delle liberalizzazioni. Adesso si sta trasformando nella nemesi di un centrodestra nato liberista e tagliator di tasse, per scoprirsi bon gré mal gré statalista ed esattore. C'è di mezzo la recessione e la risposta alla prima fase della crisi, quella bancaria e finanziaria, dalla quale Tremonti esce a testa alta. Nessun bocconiano lo può negare. La strategia della cautela e del tampone ha funzionato. I costi sono contenuti. E con essi è stata salvaguardata la tregua (forse la pace) sociale. Ma adesso che arriva la seconda fase, ora che bisogna acchiappare al volo il treno della crescita, le cose cambiano. E i bocconiani rialzano la testa.

    In molti, così, cercano in quelle stanze di via Sarfatti,
    tra Porta Ticinese e Porta Romana, non soltanto la fucina di un progetto, ma le teste e le braccia per realizzarlo. Non è la prima volta che la politica attraversa l'ateneo milanese il cui consiglio di amministrazione è stato presieduto dal 1976 fino alla sua morte nel 1994 da Giovanni Spadolini. Fiorentino, figlio di un pittore, bibliofilo, gentiliano, mazziniano, laico e laicista, storico del Risorgimento, umanista, giornalista, si era avvicinato alla Bocconi negli anni della sua breve direzione al Corriere della Sera (dal 1968 al 1972), prima di compiere il gran salto nella politica chiamato da Ugo La Malfa, personalità che aveva molte affinità con il mondo bocconiano, se non altro perché si era formato a Milano nell'ufficio studi della Banca commerciale, guidata da Raffaele Mattioli e fucina negli anni dell'egemonia fascista, della intellighenzia liberale, a cominciare da Giovanni Malagodi, e della nuova generazione capitalista che ricostruirà l'Italia del dopoguerra.

    Spadolini divenne il primo presidente del Consiglio non democristiano, poi la seconda carica dello stato e per un soffio non salì al Quirinale. Nel fatidico 1992, mentre tutto crollava, dalla lira ai partiti politici della Prima repubblica, venne battuto da Oscar Luigi Scalfaro. Ancor oggi c'è chi è disposto a giurare che se le cose fossero andate altrimenti, gli ultimi quindici anni avrebbero preso una piega diversa. E chissà quanti bocconiani sarebbero entrati nei dicasteri.
    Proprio perché le cose sono andate come sono andate, e vanno come vanno, il processo di costruzione e selezione della classe dirigente attinge sempre più a luoghi diversi dalla politica e dai partiti rimasti leggeri, talvolta evanescenti. C'è la società civile, c'è persino la strada. Ma il reclutamento migliore è sempre nelle palestre dell'élite. Come la Banca d'Italia, paracadute della nazione in tutti i passaggi più critici: la grande depressione, il secondo dopoguerra o, appunto, il collasso dell'Italia come l'avevamo conosciuta. L'ascesa più spettacolare si deve a Carlo Azeglio Ciampi, governatore, ministro, presidente del Consiglio e poi della Repubblica. Ma l'osmosi tra tecnici di Palazzo Koch e politici ha visto anche Lamberto Dini o Tommaso Padoa-Schioppa (un bocconiano anche lui) scendere direttamente nell'arena. Il primo s'è fatto politico. Il secondo si è ritratto per conservare il proprio profilo di tecnico e intellettuale.

    Le voci di Palazzo e le cronache dei giornali registrano adesso altri nomi, altre riserve della Repubblica. Mario Draghi, governatore della Banca d'Italia, candidato a ricoprire importanti ruoli nella tecnocrazia internazionale (alla Banca centrale europea o al Fondo monetario). O Mario Monti che, dopo aver combattuto a Bruxelles contro i grandi monopoli (a cominciare da Microsoft) in nome di una concorrenza leale, è rimasto in un lungo tedioso standby. Il travaglio delle forze moderate, la crisi profonda del centrosinistra, l'eterna ricerca di una terza forza liberale (il successo della Fdp in Germania fa di nuovo sognare la piccola pattuglia italiana che viaggia in ordine sparso), tutto ciò concorre a cercare l'idealtipo per governi istituzionali.
    Oggi non c'è all'orizzonte nulla di drammatico come il 1946 o il 1992, sia chiaro. Semmai un nuovo difficile passaggio della lunga transizione italiana, che richiede idee e uomini per portarla avanti. Non si tratta solo di fornire soluzioni tecniche, ma di svelare il reale. Ecco perché dei bocconiani c'è bisogno, per quanto possano, talvolta, irritare, con l'esibizione di tutta la loro dottrina. Esattamente come Simonide faceva dannare Gerone. Nel suo breve dialogo, Senofonte immagina il poeta intento a insegnare al tiranno di Siracusa l'arte del buon governo nella forma di un dispotismo illuminato. Ma a poco a poco Simonide non appare tanto il consigliere del principe, quanto colui che con la parola spezza il velo e mostra il re in tutta la sua nudità. Politica e cultura sono grandezze destinate a restare distinte, per lo più in conflitto; si odiano, talvolta si disprezzano, eppure non possono fare a meno l'una dell'altra.