Seonda parte

L'esercito dei desperados

Marianna Rizzini

Un martello pneumatico nel silenzio insolito di una via periferica di Roma. Una mamma che cambia un bambino così, sul marciapiede. Un centro commerciale semideserto, sguarnito di vetrine ma puntellato di enormi contenitori di gomme da masticare colorate. Tutto porta a due serpentoni di teste messe in piega, maglie scure, giacche con scritte dorate, scarpe bianche che aspettano un “tu sì” e un “tu no” dai buttadentro del pubblico.

    Un martello pneumatico nel silenzio insolito di una via periferica di Roma. Una mamma che cambia un bambino così, sul marciapiede. Un centro commerciale semideserto, sguarnito di vetrine ma puntellato di enormi contenitori di gomme da masticare colorate. Tutto porta a due serpentoni di teste messe in piega, maglie scure, giacche con scritte dorate, scarpe bianche che aspettano un “tu sì” e un “tu no” dai buttadentro del pubblico: è l'ingresso in studio degli aspiranti spettatori di alcune trasmissioni televisive, ma assomiglia a una fila per il pane in tempo di guerra o a un dopo-apocalisse. Davanti agli studi di via Tiburtina non ci sono alberi morti, fiumi secchi, pianure cauterizzate, sagome ingrigite di città come nel romanzo “La Strada” di Cormack McCarthy, ma la sensazione è quella che si prova seguendo nella lettura il viaggio dei due protagonisti del libro, un padre e un figlio in un day after aspro e minaccioso: ansia, inquietudine, forse pure sgomento. Non c'è più niente da fare, è la fine del mondo, si pensa mentre si ascoltano due signore ultrasessantenni, appena uscite dalla metropolitana, raccontare afflitte che oggi “è finito il bel periodo” e che ormai “là in studio vogliono solo i giovani, e non solo in prima fila”.

    La signora Augusta e la signora Annunziata sono figuranti. Fanno questo “lavoro pomeridiano”, così lo chiamano, da anni. Un po' per “riempire il tempo”, un po' per “arrotondare” la pensione, dicono. Augusta aggiunge: “Non arrotondo molto, però così non sto tutto il giorno a casa”. Il marito della signora Augusta è morto due anni fa – faceva il barista in un “bel bar vicino alla fermata Anagnina”. Quello della signora Annunziata è vivo ed è in pensione da un anno (prima faceva il ragioniere “per una ditta famosa”) e ora ha “troppi acciacchi, sennò veniva pure lui”, dice Annunziata. Annunziata e Augusta non hanno bisogno di quei (pochi) soldi che guadagnano sedendosi ogni giorno per qualche ora in uno studio – trenta euro netti, a volte meno, a volte di più – ma dicono: “Senza venire qui ci sentiamo fuori dal mondo”.
    Non è detto che i figuranti – e in particolare quelle due figuranti di mezza età – entrino in studio, oggi. Non lo si può sapere prima di farsi tutto il percorso in autobus dalla Casilina alla Tiburtina?, si chiede e chiede il cronista. Non si può, dice Augusta, “è così, mi siedo qui e aspetto”. Le due signore hanno un ventaglio da danzatrice di flamenco a testa, si sventolano sperando di rompere la cappa d'umido, si siedono su uno strapuntino di pavimento – un negozio chiuso, un garage? – e aprono la rivista di parole crociate mentre un nugolo di mosche ronza dietro di loro, attorno al cestino per l'immondizia da cui spuntano cartacce e coni gelato sbocconcellati.

    Nel serpentone gemello, quello dei non figuranti, cioè del pubblico non stipendiato, si trovano i passeggeri di un pullman proveniente da Narni e Terni. Gente che viene dall'Umbria per fare il pubblico “senza compenso” alla cosiddetta “trasmissione dei pacchi”, Affari tuoi. Gente trovata – direttamente o attraverso capigruppo che aggregano conoscenti nei paesi e nelle città di provincia – dalla società che gestisce in appalto il pubblico per questa e altre trasmissioni, l'Aba Video di Davide Abatecola, nipote della leggendaria Franca Abatecola, ex direttrice del Teatro Parioli che per prima trasformò l'attività di promozione teatrale in attività di ricerca del pubblico (e ora trova e gestisce pubblico per alcuni programmi di Maria De Filippi). Abatecola ha cominciato con la zia, poi si è messo in proprio. L'attività richiede abilità manageriali – liste multiple di nominativi, programmi in contemporanea, gente che arriva e spinge, centinaia di chiamate a persone che non si sa se si presenteranno, pubbliche relazioni permanenti. Una professione che richiede soci, dipendenti, un ufficio di rappresentanza. I figuranti costano, il pubblico gratuito conviene e la Rai e Mediaset lo chiedono, ma se all'ultimo momento si creano buchi di venti persone o più, serve in fretta un rimpiazzo – cioè altre liste di numeri di telefono. Spesso l'attività di gestione pubblico sconfina nel casting o confina con il casting – c'è chi si propone per pubblico e provini nello stesso momento, sperando di sedersi in prima fila ed essere notato, scelto, lanciato. I gestori di pubblico cercano di spiegare alle persone che si presentano che una cosa è fare il pubblico, una cosa è fare la comparsa – ma molti ci sperano lo stesso.

    L'archivio Aba comprende migliaia di nomi
    : gente che ormai chiama abitualmente per avere un posto in studio da Vincenzo Salemme, gente che accorre ogni volta che può, gente in pensione, gente sfaccendata, gente che studia all'università. Gli adulti in età lavorativa sono pochi – dopo i trent'anni chi si propone come pubblico spesso è disoccupato, e allora conviene appunto passare dall'ufficio figuranti, iscriversi, e sperare nella chiamata.

    Fuori dagli studi De Paolis, intanto, due signore umbre salutano
    e sorridono. Sono capigruppo, ma appaiono indistinguibili dalle ospiti semplici: stesse scarpe da ginnastica con mezzo tacco e (forse) plantare riposante, stesse maglie larghe e lunghe – decorate con pizzi o fiori. Qualcuno va “per fare una gita, per stare in compagnia”, dice la signora Milena. Il signor Franco, uno dei pochi uomini presenti, vedovo, è stato convinto a salire sul pullman del pubblico dalla nipotina che vorrebbe tanto vedere “il nonno che va in tv”. Il problema, dice Franco, “è riuscire a superare i napoletani. Sono agguerritissimi, e di solito riescono a sedersi nelle prime file”. Qualcuno spera di fare il concorrente – “prima di morire”, dice la signora Simona, “voglio trovarmi ad aprire un pacco davanti a Max”. Max è Max Giusti, il conduttore di “Affari tuoi”, una specie di San Gennaro per molte delle persone in fila.

    Forse i conduttori televisivi sono abituati.
    Chi non è abituato pensa: come fanno? Come fanno i conduttori a entrare in studio, vedere il serpentone ordinato che arriva e si siede, guardare quelle facce che – tranne pochissime eccezioni – trasudano costernazione, ignoranza, solitudine, noia, disperazione e a non essere presi da depressione, tenerezza, voglia di chiedere “scusi ha bisogno di aiuto?”, “scusi si sente bene?”, “scusi ma perché non torna a casa, che qui c'è un'afa orrenda, sta per piovere e lei ha ottant'anni?”, “scusa ma perché sei qui e non con gli amici, a casa della tua ragazza, in discoteca, in biblioteca, al cinema?”. Il secondo pensiero che viene in mente, meno compassionevole, è esplicitato perfettamente dai due tremendi appellativi che il misantropo alter ego di Woody Allen, nel suo ultimo film “Basta che funzioni”, rivolge a chiunque gli si pari davanti: “Subumano” o “vermetto”. Non si può e non si deve dire o pensare, ci mancherebbe. E però quelli che dicono “prima di morire voglio scartare un pacco da Max Giusti” sembrano quantomeno marziani, a prima vista. E invece no: sono persone che come tutti a casa guardano la tv, parlano con i mariti, le mogli, i figli, i colleghi e intanto decidono, lavorano, votano. Una parte del cosiddetto “paese reale”. La domanda che sgorga spontanea allora è: ma è nata prima la tv “deficiente” o il pubblico “deficiente”?

    Per Angelo Guglielmi, critico letterario e storico direttore di Raitre
    (lanciò “Quelli che il calcio”, “Blob”, “Avanzi” e “Samarcanda”), il pubblico è “una vittima paziente che in realtà chiede altro. Proprio dal pubblico sale una domanda di offerta diversa, solo in parte soddisfatta da Sky”. Il “limite dell'attuale televisione generalista”, dice Guglielmi, “è che è così ingombrante da non consentire partecipazione. E' impositiva. Distrugge e limita ogni spazio di scelta: è difficile sfuggirle. E' consentita una scelta individuale, sì, ma non di massa. Tutti dicono di volere un'altra tv, tutti fingono di volere il meglio, il bello, il colto, ma sono  affermazioni che hanno una credibilità relativa, vista la situazione”. Secondo Guglielmi anche il pubblico dei programmi di informazione sceglie “soltanto parzialmente. Santoro è un grandissimo giornalista, io ho lavorato molto con lui e siamo stati felici insieme, ma in questi giorni ha un pubblico composto non solo da persone interessate alla trasmissione ma anche da gente richiamata dall'aria di scandalo che oggi, non per colpa sua, viene gonfiata da qualche idiota”. Peccato, dice Guglielmi, “perché in realtà c'è fame di programmi di informazione. E' un modo di interessarsi a sé, alle cose della vita quotidiana, anche amaramente. Più che interesse, forse, è curiosità”.

    Non la curiosità, ma “il benessere interiore” che ne ricavava ha spinto per anni il signor Pasquale, ex vigile urbano, a passare i pomeriggi nel parterre non retribuito di “Porta a Porta” (quando ancora aveva pubblico non retribuito). Si fosse imbattuto in un corso di yoga, Pasquale forse ne avrebbe tratto il medesimo giovamento. Pur riconoscendogli tutta la buona fede del mondo, infatti, non si riesce a capire perché Pasquale si recasse quotidianamente a seguire programmi di approfondimento in studio quando per lui “la politica non è cosa da televisione”. Il motivo infatti era un altro: “L'amicizia per le persone meravigliose incontrate in studio”. Non i politici, naturalmente, ma i colleghi spettatori dal vivo. Perché succede anche questo: che lo studio televisivo diventi il sostitutivo del bar o del muretto. Si passa e si trovano i compagni di partita a briscola, ci si fanno nuovi amici, ci si innamora, si litiga, “si va a mangiare la pizza, spesso e volentieri”, come dice Stefano, metalmeccanico, fan del contenitore “Pomeriggio Cinque” al punto da andare in studio a Cologno Monzese “ogni volta che si può”.

    Stefano, divorziato trentacinquenne con un figlio,
    spera di “incontrare qualche ragazza, già che ci siamo”. Non si capisce come faccia Stefano a fare amicizia mentre lo scaldapubblico grida “signoreeee, signoriii” e va a prendere per mano quelli più loquaci mentre le signore intanto ridacchiano, lo baciano, dicono “ma lo sa che con gli occhiali lei è proprio un bell'uomo”, e poi lo salutano e scendono dai piccoli spalti per abbracciare quello che evidentemente è già un amico per loro. Katia, studentessa di Scienze della comunicazione, va lì “sperando di trovare un lavoro nell'ambiente”. Le piacerebbe fare non l'autrice o la conduttrice, ma la “cercapubblico”.

    Marika Cislaghi – ufficio arredato con cura poco distante
    , nel mezzo della landa desolata che, tra depositi di camion e sfasciacarrozze, costeggia gli studi Mediaset – fa la cercapubblico in zona Milano-Monza. Poco più che trentenne, è nel settore da molti anni. Faceva l'assistente dentista, non le piaceva, non le dava stimoli, dice. Conosceva una persona che cercava pubblico per “Le Iene” e ha cominciato a collaborare. Poi sono venuti i primi incarichi da sola e le prime liste di nomi da chiamare, fatte quasi da zero – gente trovata per passaparola, gente invitata alle puntate precedenti, gente fidelizzata attraverso l'ascolto indomito delle più svariate richieste: “Se vengo poi mi fai entrare anche all'altro programma?”, “se vengo poi posso conoscere i conduttori?”, “se vengo posso portare gli amici?”. Tutta gente che, in studio, oggi saluta Marika come fosse una nipote. “Alcuni di questi signori sono venuti anche al mio matrimonio”, dice Marika, che ormai si è messa in proprio con la società Parterre, fornitrice di pubblico per Mediaset e Rai.

    Che si vada in televisione per noia, per rimorchiare
    , per essere notati, per arrabbiarsi, il semiologo Omar Calabrese dice “che in questo momento la tv è comunque la dominante dei comportamenti pubblici. Uno si comporta al Festival di filosofia come in una sala televisiva. Contemporaneamente cresce il sentimento di aggressività e il desiderio di partecipare a questa aggressività. Non c'è più solo la piazza”. A volte, però, pare di scorgere atteggiamenti di estrema aggressività verbale – o di sfogo – in alcune piazze di modello Beppe Grillo. Al professor Calabrese quelli paiono invece “fenomeni più antichi, riconducibili al populismo, anche se possiamo chiederci se coloro che provocano questi fenomeni non cerchino sempre più di far assomigliare il comizio a un evento televisivo. In televisione quello che vedo è invece l'eccesso al fine dell'apparizione di un non-protagonista, e un desiderio di apparizione che appaga senza alcuna forma di merito”. Autori e conduttori “non necessariamente”, dice Calabrese, “aiutano questa involuzione, anche se magari cercano di trarne vantaggio. La voglia di successo senza merito, a mio avviso, è una degenerazione dello spirito del capitalismo – che invece sarebbe sano. Weber insegnava che il successo è il premio che va al merito. Non a caso il trionfo del successo senza merito avviene soprattutto in paesi che non hanno mai avuto un capitalismo sviluppato: Italia, Spagna, Portogallo e Grecia”.

    Fare chiasso, battere le mani, dare addosso a un “nemico”
    che appare sullo schermo tv, a Calabrese sembrano invece “fenomeni conosciuti anche nei teatri lirici. Si tratta di un desiderio di partecipazione, non di apparizione”. Un loggionista di vecchia data che preferisce restare anonimo, pur non volendo essere paragonato “alla gente che fa casino senza passione”, dice che in effetti “c'è qualcuno che viene solo la sera della prima per gridare alla cantante ‘gallina, vai a casa', in modo che i giornali scrivano ‘i loggionisti hanno fischiato', e che poi però non si presenta alle repliche”. Il loggionista duro e puro non vede solo la prima “e ha veramente la passione della musica, altrimenti non si alza così presto la mattina per prendere i biglietti e non si sorbisce certe repliche terribili. Diciamo che tra i loggionisti la passione è sempre grande, la cultura e la preparazione un po' meno”, scherza l'anonimo melomane. Il quale però confessa che quest'anno la vita è più grama – “ci sono i lavori in una delle gallerie e i posti sono diminuiti, quindi bisogna mettersi in fila ancora prima la mattina”. La maggior parte dei suoi colleghi, dice, “non ha interesse a comparire sui giornali, e cerca altre soddisfazioni: per esempio un giorno gli altri mi hanno detto che finalmente, dopo anni, qualcosa capivo davvero, perché stavo mimando la direzione d'orchestra nel buio e incredibilmente ci prendevo con i tempi”.

    Davanti agli studi romani, però, quelli dell'apocalisse,
    l'unica preoccupazione è prendere la linea e diventare protagonisti del gioco. Simona, la signora che dice “prima di morire voglio essere concorrente”, lo dice come se avesse un piede nella fossa. In realtà ha sessantatré anni ed è in pensione da poco, dopo essere stata per innumerevoli anni “alimentarista”, ovvero gestore di un negozio di alimentari (suo marito, invece, faceva “il venditore ambulante di frutta e verdura”). La signora Silvia, ex parrucchiera, va a tutti i programmi “anche a quelli di politica e anche se non ci capisco niente, ma preferivo Maurizio Costanzo”. Berlusconi non le piace, dice, ma conosce un'amica, in fila, a cui il premier piace molto. L'amica berlusconiana dice “la politica me la spiega mio marito” (e chissà se questo zoccolo duro di mariti neomaschilisti che spiegano la politica alle mogli preoccupa i neofemministi quanto il dilagare delle veline).

    Due metri più indietro, la signora Elisa si sbraccia per essere intervistata. E' convinta che il cronista possa fare qualcosa per accelerare i tempi dell'interminabile coda. Si dichiara “trisavola e vedova di due mariti”. Trisavola a ottant'anni è “da Guinness dei primati, mi sa”, dice, sperando con questo dato di impressionare l'omino che mette braccialetti arancioni di riconoscimento (come nei locali) al polso di chiunque aspiri a farsi pubblico. Le amiche di Elisa confermano: “Ha trovato due mariti, erano altri tempi”, e intanto chiedono delucidazioni sulla liberatoria, un foglio che sembra spaventare molti. Lo scaldapubblico, un ragazzo che ha studiato da attore, saluta con un “salve belle signore” le signore che chiedono di essere messe in prima fila. Dopo un po' scompaiono tutti i referenti del programma. Resta solo l'afa di fine settembre, la fatica di stare in piedi, i mille fogli di liberatoria, i sacchetti con la merenda. La signora Elisa mostra astio verso quelli che arrivano con macchine dai vetri oscurati – “sono pagate con i soldi nostri! Ecco perché non va bene la società di oggi”, dice sollevando cori di “sììì”. “Se lo sapevo non venivo”, dice il signor Enzo, aggiungendo un “questi vanno in limousine e i giornali non lo dicono, sono tutti di parte” – e si capisce che la marea anticasta è arrivata fino a qui (o è partita da qui?). Poco distante, un figurante pagato se la prende con un carabiniere che non vuole farlo passare. Guarda le signore in piedi da un'ora, ne avvicina una, le dice “tanto vale farsi pagare”, e poi spiega al cronista che lui “ha fatto così”, da pubblico semplice è passato “alla categoria pubblico retribuito” (e da come lo dice sembra che abbia raggiunto l'obiettivo di una vita).

    Meno male che, a sollevare gli animi abbattuti
    dalla vista di una simile umana desolazione, giunge l'assordante “pestare i piedi” del pubblico di X Factor. Frastuono che appare al cronista come un paradiso in terra: almeno là, appena sopra la testa del Dj Francesco, ci sono i “fan club” – gente che disegna striscioni e si scalda per amici, figli e nipoti impegnati nella gara canora, gente che il professor Calabrese non potrebbe mai definire “persone in cerca di successo senza merito” nella generale “degenerazione dello spirito del capitalismo”, semplicemente perché – per la maggior parte – sono lì soltanto per tifoseria.

    Non si avverte lo spirito triste dell'apocalisse mentre si parla
    con la mamma della giovane cantante Ornella, una mamma peruviana italianizzata che ha fatto indossare a tutti una fascia con il nome della prediletta. Non si pensa “che cavolo ci fanno questi qui?” mentre gli “amici del pub” della band Luana Biz, vestiti mezzi dark e mezzi no, dispiegano il loro striscione. E anzi ci si sente sollevati a sentire che le fan del giovane Silver non vogliono fare né le cantanti né il “pubblico pagato a vita”, come dice Roberto da Nepi mentre, poco prima di entrare in uno studio dove si registra un varietà, arrotola il golf in vita e sparisce dietro a un riflettore.    (2. continua)

    • Marianna Rizzini
    • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.