Prima parte
Nemico pubblico
Uno può anche dire “gentile pubblico”, ma come faccia a pensarlo non si sa. Pubblico è parola che chiama cerimonie, untuosità, sacralità, adulazione, omissione: “Meraviglioso pubblico”, “pubblico affezionato”, “nel giudizio del pubblico”, “secondo il voto del pubblico”. Sono frasi che si pronunciano per ragioni pubblicitarie, politiche o diplomatiche, di educazione o di umana compassione, e che finiscono per coprire la verità: l'unico aggettivo che spesso si vorrebbe associare a “pubblico” è il (non gentile) aggettivo “beota”.
Uno può anche dire “gentile pubblico”, ma come faccia a pensarlo non si sa. Pubblico è parola che chiama cerimonie, untuosità, sacralità, adulazione, omissione: “Meraviglioso pubblico”, “pubblico affezionato”, “nel giudizio del pubblico”, “secondo il voto del pubblico”. Sono frasi che si pronunciano per ragioni pubblicitarie, politiche o diplomatiche, di educazione o di umana compassione, e che finiscono per coprire la verità: l'unico aggettivo che spesso si vorrebbe associare a “pubblico” è il (non gentile) aggettivo “beota”. Parola orribile, si pensa. Rozza. Classista, persino. Come mi permetto? Chi sono io e chi sei tu per dirlo? E allora non la si dice. Magari ci si vergogna anche solo a pensarla, ci si sente snob anche solo a immaginarla, ci si autocensura e addirittura si abiura in caso di incauta sincerità. Il pubblico pare sempre meritevole di complimenti (falsi) perché tanto “non è colpa sua”, così almeno recita la tiritera prevalente tra i difensori dei pubblici tutti. E però purtroppo non vengono in mente molte parole gentili, a osservare con attenzione – e da vicino – il pubblico.
Il cronista, a ogni modo, si è fatto per qualche giorno pubblico. Ha distolto lo sguardo da chi sta davanti (sul palco, sul giornale, sullo schermo, al comizio, al microfono, sulla copertina del libro, sul divanetto del talk show – gente che può piacere o non piacere, ma è un altro discorso) e ha buttato l'occhio su chi sta in platea, in piazza, in sala, in studio, fuori dallo studio, all'edicola, al telefono, al computer e in salotto. Il medesimo cronista si è messo poi a origliare, intervistare e pedinare pubblico televisivo, pubblico di eventi mediatico-politico-culturali, pubblico da casa e dal vivo, pubblico retribuito e non retribuito (e spesso non c'è una grande differenza di opinioni, interessi e formazione tra i due), pubblico “lumpen” e pubblico d'élite, scaldapubblico, cercapubblico e riempiplatea. Infine ha interpellato vari osservatori di pubblico: professori, conduttori, critici, semiologi, sociologi e intenditori. E insomma il più delle volte il pubblico non è né gentile, né meraviglioso, né sapiente né tantomeno puro come si vorrebbe far credere quando si santifica “il giudizio del pubblico” – il quale pubblico, invece, televisivo e non, è spesso fatto di orde ululanti, volubili, sommariamente giudicanti, ebbre di certezze epidermiche (quando non sono imbesuite, imbesuenti e dunque ancora più disperanti).
Sono orde che guardano un film e sanno dire solo che era “simpatico”, com'è accaduto per ben tre volte sabato scorso, davanti alle telecamere della trasmissione “Cinematografo”. Sono orde non necessariamente ignoranti ma sicuramente terrificanti che comprano migliaia di bottigliette d'acqua, riempiono buste di stoffa (dove c'è pubblico apparentemente “consapevole” c'è busta di stoffa), si schiacciano su una transenna per ore e applaudono chiunque passi sulla passerella del Festival di Venezia, un po' a casaccio un po' per convinzione: va bene Clooney e va bene Chávez, uno che, come si poteva udire nei pressi di quel tappeto rosso, “lotta contro gli americani per i poveri” (dittatore o attore, tiranno o salvatore pari sono, evidentemente).
Sono orde che cercano sempre il prossimo Savonarola, uno che faccia il falò delle moderne vanità (corruzione? partiti canaglia? premier indesiderati? scandali finanziari? inquinamento globale?), ma sono pronte a buttare nel fuoco il predicatore al primo miracolo mancato – e Savonarola, nella Firenze medicea e repubblicana, vide in fondo questo: moltitudini adoranti che diventano mortalmente accusatrici al suo tentativo di evitare l'ordalia del fuoco.
Il fuoco purifica, devono aver pensato Michele Santoro e Maurizio Costanzo, all'inizio degli anni Novanta, quando bruciarono una maglietta con scritto “mafia made in Italy” nei giorni duri dei processi e della lotta alla criminalità organizzata – e c'è chi vede nelle successive intimidazioni mafiose contro i due conduttori una risposta a quel gesto. “Michèèèèèle, il Sud ha sèèèète”, gridava qualche anno dopo un uomo dalla piazza di Santoro, intravedendo in “Michèèèle” una sorta di re taumaturgo. E non è solo, “Michèèèle”, ché Massimo Cacciari è adorato come un guru imperatore da eserciti di pubblico con pretesa intellettuale. Al Festival della Filosofia di Modena gli chiedevano cose che nemmeno a “Quèlo”, il profeta finto di Corrado Guzzanti, anche noto per la frase “la seconda che hai detto”. A stare in mezzo al pubblico, a Modena, si poteva ascoltare addirittura la frase “professore, lei mi ha cambiato la vita, ma io ho paura del diverso, che devo fare?”, frase pronunciata da una quarantenne nerovestita dagli enormi occhiali scuri. E al professore toccava persino sforzarsi di rispondere qualcosa di sensato, tipo “devi interrogare la realtà”, mentre guadagnava la via della stazione, inseguito da insegnanti di liceo innamorate pazze – “Massimo ti prego giraaaati”, dicevano signore cinquantenni in scarpe da ginnastica d'argento, e intanto scattavano foto isteriche come al concerto rock, fino a che lui, Massimo, non si girava, tampinato da giovani barbuti (intenti, fino a due minuti prima, non ad ascoltare il Cacciari che parlava di xenos e filos, ma a sventolare, in mezzo agli avanzi di piadina, il libro “In questo progresso scorsoio, conversazione con Marzio Breda” di Andrea Zanzotto).
Il fuoco potrà purificare ma il pubblico, oggi, il fuoco purificatore lo utilizza spesso a sproposito, a casaccio, a sbafo, a ufo. Ed è un fuoco non antimafia ma antitutto: antipartito, anticasta, antiberlusconi, antidalema, antipd, antiguerra, antiinquinamento. E' un fuoco che si è acceso negli anni di Tangentopoli, si è propagato fino a oggi e ha impresso nella mente di vari pubblici – televisivi, teatrali, cinematografici, radiofonici, politico-culturali – un modo estemporaneo di essere pubblico ghigliottinante (e osannante: basta vedere tutti quelli che, poco esperti di letteratura, accorrono al Salone del Libro di Torino soltanto per sentir parlare uno o più magistrati, come se si trattasse, di nuovo, di un messia, di un imperatore, di un Papa, di un attore di Hollywood, il che è lo stesso, a giudicare dagli applausi tributati a Torino indistintamente ad attori, giudici e scrittori socialmente utili).
Come si fa a dire “gentile pubblico”, ci si chiede, a un pubblico che si fa inconsapevole clone di Madame Defarge, la tricoteuse de “Le due città” di Dickens, la donna del Terrore francese che si appaga nel vedere colare il sangue. Infinite schiere di tricoteuse siedono davanti ai teleschermi, in attesa di sangue sentimentale, politico, culturale, musicale (ma a volte le si è viste persino sotto ai fin troppo placidi palchi delle feste del Pd: appena qualcuno nomina Francesco Rutelli si sente un grido “via, fuooori”, come notava lo stesso quotidiano Europa, qualche tempo fa). E non basta, perché al suddetto Festival della Filosofia, per sentire un boato di “sìììì”, bastava dire “corporation” o “Coca Cola” – parole pronunciate dall'ecologista indiana no global Vandana Shiva davanti a una platea osannante come di fronte a un alieno salvatore. Seguiva, poco dopo, un coro di “noo, pagliaccioooo, viaa”, gridato all'indirizzo di un assessore colpevole di aver lavorato a un progetto per l'autodromo – orrore degli orrori, peggio di Wall Street, altro nome di luogo che richiama riprovazione unanime e applausi per chi grida contro la finanza e i finanzieri e lancia in aria pile di giornali finanziari presso platee apparentemente democraticissime (sorte riservata, sempre a Modena, a una mazzetta di copie del Sole 24 Ore).
E chissà se all'assessore in questione venivano in mente le donnette che sferruzzavano davanti alle ghigliottine robespierriane, mentre udiva i “pagliacioooo” di quegli emuli moderni, pronti a vomitare litanie di “vatteeene, buuuh” su chi non considera le automobili il diavolo reincarnato su metallo. Sferruzzare davanti all'abisso: è solo questo, perché di riflettere sullo spettacolo sanguinolento, passato l'attimo, agli emuli delle tricoteuse non importa nulla di nulla. Passato, visto, finito. Rissa politica o sentimentale che sia, il meccanismo è lo stesso: cerco, trovo, guardo e cambio (canale, piazza, giornale).
E insomma il pubblico, se non è “il” problema, è parte del problema.
Lo storico Giovanni Sabbatucci è però paradossalmente “sollevato” (detto con ironia), di fronte al fatto che “lo spettacolo della punizione cruenta, che ha sempre avuto un pubblico partecipe, si svolga ora davanti ai teleschermi” e non con un linciaggio fisico, “con metodi da Piazzale Loreto”, dice ricordando le folle intente a scagliare oggetti, sputi o peggio sui cadaveri del dittatore Mussolini e della sua amante Claretta Petacci. “Consideriamolo un progresso”, dice infine, un po' amaro, il professor Sabbatucci, convinto che siano “le istituzioni” a dover scongiurare il proliferare di linciaggi mediatici.
Ad Aldo Grasso, critico televisivo del Corriere della Sera e semiologo, le platee sommariamente giudicanti della tv ricordano invece “le atmosfere gogoliane di ‘Taras Bulba'” – tempi bui di cosacchi, polacchi e piazze trepidanti per l'imminente impiccagione.
L'applauso, nato per dire “bravo”, non ha più nulla di solare e di gratuito (e non solo perché viene a volte “pagato” e ordinato nelle trasmissioni tv che richiedano un pubblico di figuranti). Anche se disinteressato, l'applauso suona cupo, punitivo. Punitivo appare quello di Ballarò, nonostante l'intenzione di aggregare un pubblico “scelto” che sostenga con applausi consapevoli tesi di centrosinistra e di centrodestra, e nonostante Ballarò, a differenza di molte trasmissioni Rai, mantenga oggi un pubblico prevalentemente convocato “a titolo gratuito” (quello che sta dietro i super-supporter della prima fila, di solito ospiti dell'ospite) e autorizzato ad applaudire autonomamente. E' un pubblico che un po' si autosegnala e un po' è scelto da due reclutatori, ragazzi interessati alla politica, tra persone che si dicono “interessate alla politica” (“blandamente di destra” o “più o meno di sinistra”, così si definiscono due convenuti del martedì sera, alla fine dell'aperitivo offerto dallo studio – tramezzini e aranciate, ed è un po' come andare a teatro, perché la politica interessa, sì, ma soprattutto come scontro spettacolare). E' un pubblico che sulla carta è ideale ma che di fatto spende applausi sottolineando (in buona fede, ma il risultato è lo stesso) la frase che dice qualcosa “contro” e non quella che dice qualcosa “per”. Contro quello dell'altra parte, contro il nemico pubblico del pubblico – che ci si illuda, così, di essere coinvolti in prima persona, a sinistra come a destra?, che l'applauso catartico taciti l'ansia generalizzata per il futuro?
Fatto sta che Bersani che parla del congresso del Pd prende un applauso di circostanza, Casini che invita alla ragionevolezza sull'Afghanistan pure, Tremonti che fa battute con Bersani pure (e c'è persino gente vestita da sera che distrae e chiacchiera sottovoce in ultima fila, zona sinistra, e in terza fila, zona destra, nonostante la diretta in corso). E invece applausi caldissimi e silenzio bipartisan ricoprono Concita De Gregorio che litiga con ogni esponente dell'opposizione visibile sugli schermi, con la faccia di una che sta veramente litigando – sguardo corrucciato, non un sorriso, frasi altrui troncate perché le tocca pure “dire cose che nessuno dice”, come spesso dice in tv.
Gli spettatori da studio di “Matrix”, in compenso (tutti figuranti pagati tranne gli ospiti degli ospiti), non dicono neanche per idea “mi interesso di politica”, e di sicuro pensano che non sia affare loro, nonostante vadano tre pomeriggi a settimana, per lavoro, a sentire un programma di approfondimento. Non sarebbe meno noioso sforzarsi di ascoltare, qualche volta, in modo da mettere a frutto le ore altrimenti perse in quel modo?, si pensa mentre ci si confonde tra il pubblico pagato che attende di entrare in studio, assiepato alla bruta accanto alle macchinette del caffè, nella sede romana di Mediaset. Ma lì si parla d'altro. C'è il figurante che ha scoperto che “a fare il morto ammazzato” a Cinecittà, due pose in un giorno, si guadagnano trecento euro, molto meglio di Matrix. C'è quello che vede passare Maurizio Gasparri e dice “ah, ma questo chi è? quello dei soldati?”. “No, quello è La Russa”, gli risponde un altro. Che cosa pensano mentre fanno finta di ascoltare, in studio?, ci si chiede mentre si osservano alcune pettinature e mise improponibili per un programma serio di terza serata – zazzere traslucide, cofane biondissime, giacche con spalline desuete già negli anni Ottanta. Pare che Enrico Mentana, forse allarmato dalle espressioni facciali non sveglissime del suddetto pubblico stipendiato, si divertisse a chiedere, durante la pubblicità, “chi è Eisenhower?”. E se per caso ci si consola pensando che non è necessario che un figurante sappia la risposta, e che appunto quelle sono comparse, persone che magari vogliono sfondare in tv, persone che arrotondano, persone che si annoiano, poi si scopre che i non pagati non si differenziano così tanto dai pagati – e infatti a volte i non pagati si iscrivono all'ufficio figuranti Rai o alle società che portano pubblico a Mediaset.
Il signor Leonardo, militare, in servizio a Roma del Sud, quest'anno non è più fisso nel pubblico di Porta a Porta perché Porta a Porta ha deciso di ricorrere ai figuranti. Per anni ha seguito in studio la trasmissione, “tra una guardia e l'altra”, “per curiosità e poi perché ci si affeziona” e ha coinvolto poi altri colleghi militari – nel quartiere Prati ci sono molte caserme, e chissà, forse andare alla Rai è il diversivo più comodo. La politica gli interessa “dal vivo quando c'è un caso particolare”. Anche la signora Anna, impiegata, ricorda di essere stata varie volte a Porta a Porta per “vedere dal vivo”, anche se confessa di “non essere stata mai molto attenta all'argomento”. Dal vivo chi? “Chiunque”, dice senza ombra di dubbio. Per “chiunque” Anna si sottoponeva alla tortura dello studio – silenzio per ore, niente telefonino, niente cena.
Gli applausi non si fanno come ti pare, a Matrix e a Porta a Porta, sono previsti per copione, ma sono meno tristi dei tristi applausi non retribuiti degli operai, degli impiegati, degli studenti e delle pensionate sessantenni che si affollano per ore, due o tre volte alla settimana, negli studi Mediaset e Rai, in attesa di un programma contenitore, per poi farsi strapazzare da un animatore di pubblico che chiede “quante donne single ci sono?” “quanti uomini single ci sono?”, giusto per fare l'ora di andare in onda e ordinare il primo battimano, con gesti perentori che nemmeno il professore di ginnastica. Tristi, e non per colpa degli ignari conduttori, sono le risposte alla domanda “perché siete qui?” e cioè: per “vedere Barbara D'Urso” o “per vedere Lamberto Sposini”, detto come se i due fossero punti di riferimento esistenziali, due dispensatori di felicità. Triste suona anche la motivazione “siamo qui per passare il tempo”, addotta da due convenuti a trasmissioni degli opposti poli televisivi, un operaio trentacinquenne separato e una giovane nonna il cui anzianissimo padre defunto “aveva come ultimo desiderio che io venissi qui, ma come concorrente”. E' un pubblico spettatore che sempre più vuole farsi (senza speranze) attore “o addirittura autore”, come dice Carlo Freccero a proposito dei “filmati informativi dal vivo su Sky-Io reporter”, lodando la “competenza mediatica” dei reporter per caso (e di sicuro è lodevole iniziativa, quella di permettere a tutti di filmare un evento e mandare una mail alla redazione, ma purtroppo l'ego del “pubblico autore” è straripante, e c'è chi ci prende gusto e invia di tutto, persino la nevicata dietro casa).
L'applauso, anche quando è sincero, può essere abusato, scriveva Massimo Gramellini, il 22 settembre, sulla Stampa, in un pezzo sull'insostenibile peso del lutto (per i soldati morti a Kabul) in un paese in cui “le immagini hanno preso il posto delle parole e le emozioni quello dei sentimenti”. “Fu inventato per sottolineare un'approvazione”, scriveva dell'applauso Gramellini, “mentre oggi si direbbe che la sua funzione principale consista nel coprire i baratri aperti dal silenzio, questa brutta bestia che ci induce a pensare, quindi fa paura e va rimossa come la morte. Le persone che fuori dalla basilica applaudivano le bare erano convinte in buona fede di esprimere solidarietà. In realtà stavano scacciando il dolore che passava dinanzi ai loro occhi, temendone il contagio…”.
Quando uno risponde “simpatico” quando ti chiedono “com'è il film?”, il problema dov'è?, ci si chiede. Nel film, nell'intervistatore, nell'intervistato o nel professore o genitore che non hanno insegnato a quell'uomo “del pubblico” a parlare un linguaggio meno pigro? Renzo Arbore, mettendosi le virgolette da solo, parla della larga fetta di pubblico “non attrezzato culturalmente” invitando a guardare i dati Istat, su cui vengono modellati i campioni Auditel, “per rendersi conto dell'enorme numero di semi analfabeti” (Freccero cita il Censis: 17 milioni di semianalfabeti). Chissà, forse non aiuta il dilagare dei quiz a risposta multipla – un tempo quasi solo alla scuola guida ora pure alle elementari e all'università, sul giornaletto e sul test attitudinale: scegli a, b oppure c. Dì se la figura a pagina tre ha l'aria triste, corrucciata o simpatica. Simpatico, appunto. Dev'essere colpa della risposta multipla se uno sente parlare di Prima guerra mondiale e dice “era quella del quindici o del diciotto?” – accade oggi, settembre 2009, a Roma, nel retrostudio di una trasmissione d'informazione. (1.continua)
Il Foglio sportivo - in corpore sano