Wow, Obama è più bello che pacifico
Il presidente americano Barack Obama ha vinto il premio Nobel per la Pace “per i suoi sforzi straordinari volti a rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli”. “Wow”, ha commentato la Casa Bianca. Doppio wow, in realtà, perché se questa è la motivazione ufficiale non si può fare a meno di aggiungerne un'altra, ancorata più ai fatti che alle intenzioni di campagna elettorale: Obama è il presidente che in soli nove mesi è riuscito a non cambiare la politica di sicurezza nazionale americana del suo predecessore George W. Bush.
Il presidente americano Barack Obama ha vinto il premio Nobel per la Pace “per i suoi sforzi straordinari volti a rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli”. “Wow”, ha commentato la Casa Bianca. Doppio wow, in realtà, perché se questa è la motivazione ufficiale non si può fare a meno di aggiungerne un'altra, ancorata più ai fatti che alle intenzioni di campagna elettorale: Obama è il presidente che in soli nove mesi è riuscito a non cambiare la politica di sicurezza nazionale americana del suo predecessore George W. Bush. Ormai se ne sono accorti tutti, di qua e di là dell'oceano, tranne i giurati di Oslo.
La copertina dello storico settimanale della sinistra britannica New Statesman, solo per citare l'ultimo esempio, è titolata “Barack W. Bush”, ma sono ormai centinaia le dichiarazioni di intellettuali, editorialisti e militanti della sinistra liberal convinti che il primo mandato di Obama sia una versione politicamente corretta del terzo di Bush.
La presidenza Obama è decisamente più bella che pacifica: dall'Iraq non è ancora andato via un soldato e quando gli americani cominceranno lentamente a ritirarsi lo faranno secondo un calendario deciso dal governo iracheno e da Bush. In Afghanistan, il neo premio Nobel per la pace ha raddoppiato il contingente militare rispetto agli anni di Bush e, in queste ore, sta valutando l'ipotesi di mandare altri 40 mila uomini che si andranno ad aggiungere ai nuovi soldati chiesti ai paesi della Nato e, forse, anche alla Cina. Di sicuro, non ci sarà una riduzione di truppe né un disimpegno da quella che Obama ha definito “guerra giusta”.
Obama non ha soltanto aumentato la forza di fuoco americana in Afghanistan, come peraltro aveva promesso senza che a Oslo se ne accorgessero, ma ha esteso e ampliato le operazioni belliche al Pakistan. Da quando il pacifico Obama è diventato presidente degli Stati Uniti gli attacchi missilistici sui villaggi tribali del Pakistan sono stati quarantadue, con 460 morti accertati, compresi gli oltre novanta uccisi durante il bombardamento sul funerale di un leader talebano.
E anche sull'Iraq, la cosiddetta guerra “stupida” che Obama non avrebbe mai intrapreso (ma nel 2002 non era ancora senatore), il neo Nobel ha precedenti non proprio pacifisti: nel maggio 2005 ha votato a favore del finanziamento da 82 miliardi di dollari per la guerra, così come nel giugno 2006, quando ha approvato la richiesta di Bush di 94 miliardi e mezzo di dollari. Stesso voto, “sì”, alla richiesta del settembre 2006 di finanziare le attività del Pentagono con 448 miliardi di dollari, compresi 70 per le operazioni militari in Iraq e Afghanistan. Nell'aprile del 2007 ha dato l'ok ad altri 90 miliardi, ma con la richiesta di ritirare obbligatoriamente le truppe (Bush ha posto il veto). Soltanto nel maggio del 2007 è arrivato il primo “no”, mentre all'ulteriore richiesta del dicembre 2007 ha preferito astenersi dal voto. Nel 2008, Obama ha detto ancora “sì” alla guerra e alla legge speciale del Senato che affidava ai militari altri 162 miliardi di dollari, assieme a vari altri provvedimenti sociali e d'emergenza.
Obama ha votato “no” al “surge” in Iraq, la nuova strategia politico-militare che ha di fatto chiuso i combattimenti in Iraq, ma poi ha riconosciuto che è stata “un successo al di là delle più rosee aspettative”. Il ministro della guerra di Obama è lo stesso di Bush, il repubblicano Bob Gates. Il generale che sovraintende le operazioni militari è l'eroe di Bush, David Petraeus. Così come il capo di stato maggiore, Mike Mullen. Anche il generale che guida la guerra in Afghanistan, Stan McChrystal, è uno di Bush, tanto da aver guidato le operazioni speciali in Iraq.
Guantanamo è ancora aperto e la promessa di chiuderlo entro l'anno non sarà rispettata. Una volta che il carcere nell'isola di Cuba sarà chiuso, ammesso che capiterà mai, i detenuti verranno trasferiti in supercarceri in territorio americano meno confortevoli della “base della vergogna”. Il campo di Bagram, in Afghanistan, dove da anni finiscono i detenuti della guerra al terrorismo, è apertissimo e Obama non ha intenzione di chiuderlo, anzi ne ha ordinato l'ampliamento. Obama ha vietato le “tecniche di interrogatorio avanzato” elaborate dalla Cia di Bush, ma le pratiche più controverse, come l'annegamento simulato (“waterboarding”), erano state abbandonate già nel 2003 e in totale sono state applicate soltanto su tre detenuti.
Le extraordinary rendition, ovvero i rapimenti clandestini dei terroristi in paesi stranieri, continuano di buona lena. Il Patriot Act, che aveva fatto gridare allo stato di polizia, è pronto per essere rinnovato, su esplicita richiesta di Obama. L'espansione del potere esecutivo segue la tendenza “imperiale” inaugurata da Bush e Cheney e per i detenuti di al Qaida non cambia nulla rispetto all'epoca precedente: alcuni saranno trasferiti in paesi terzi, altri processati nelle corti militari speciali, create da Bush, mentre i superterroristi, come prima, saranno rinchiusi senza processo e a tempo indeterminato.
L'approccio internazionale di Obama, guerre a parte, è diverso rispetto a quello del Bush del primo mandato, sia in termini di toni usati sia di disponibilità a trattare con i nemici. Il nuovo presidente ha promesso un'apertura all'Iran, un accordo con la Corea del nord, grandi sforzi diplomatici in giro, un mondo denuclearizzato, un impegno formidabile contro il surriscaldamento terrestre (anche se da senatore dello stato dell'Illinois aveva votato contro il Trattato di Kyoto). Ma nonostante un uso delle parole più conciliante rispetto al predecessore, “la spina dorsale della politica americana espressa da Obama resta simile a quella dell'Amministrazione Bush” (New York Times, 24 settembre 2009).
Di pace, nemmeno l'ombra. Nove mesi dopo l'Iran ha represso nel sangue l'opposizione, ha condotto test missilistici e continua ad arricchire uranio, anche in strutture segrete scovate dai servizi occidentali. C'è stato un colloquio a Ginevra che segue quello dell'anno scorso alla presenza di un inviato di Bush, William Burns, che è esattamente lo stesso scelto ora da Obama. Il Pentagono, intanto, sta intensificando la produzione delle speciali bombe anti bunker, inutili in Iraq e Afghanistan, ma decisive contro i siti nucleari iraniani. La Corea del nord ha condotto un paio di test nucleari e missilistici, mentre l'America continua a inquinare più del resto del mondo, senza che la Casa Bianca riesca a far approvare un taglio delle emissioni in tempo per i prossimi trattati.
Il comitato del Nobel ha ammesso che per alcuni osservatori l'assegnazione del premio a un presidente neoeletto potrebbe essere “prematura”. Caustico il commento dell'Economist: “Non si applaude mai il tenore quando si schiarisce la voce”. Qualcuno, a sinistra, suggerisce a Obama di rifiutare il premio, “perlomeno fino a quando non finisce le sue due guerre”. Lo stesso Obama, un po' imbarazzato, ha detto che non lo considera un riconoscimento per ciò che ha fatto, ma un invito a un maggiore impegno. E, a proposito di imbarazzi, per rispetto del regime cinese, un paio di giorni fa Obama ha rifiutato di incontrare il Dalai Lama, ora suo collega Nobel per la pace.
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