Kabul mundi

Toni Capuozzo

Giovedì mattina, mentre eravamo all'inaugurazione di una scuola di sartoria per donne, in un quartiere periferico di Kabul, si è sentito, netto, il rimbombo di un'esplosione. La cerimonia del taglio del nastro era terminata da poco, dopo il lungo rituale dei discorsi. Aveva parlato per primo  il vice comandante del 186° reggimento paracadutisti, il colonnello Vaira, e poi i rappresentanti del consiglio del distretto. Parole di circostanza, ma che qui, inevitabilmente, hanno un sapore diverso.

    Giovedì mattina, mentre eravamo all'inaugurazione di una scuola di sartoria per donne, in un quartiere periferico di Kabul, si è sentito, netto, il rimbombo di un'esplosione. La cerimonia del taglio del nastro era terminata da poco, dopo il lungo rituale dei discorsi. Aveva parlato per primo  il vice comandante del 186° reggimento paracadutisti, il colonnello Vaira, e poi i rappresentanti del consiglio del distretto. Parole di circostanza, ma che qui, inevitabilmente, hanno un sapore diverso. Il colonnello aveva detto le sue cose, ricostruito la laboriosa realizzazione del progetto, finanziato dalla Provincia di Siena e dal Monte dei Paschi. Aveva ribadito la convinzione che la ricostruzione e la sicurezza sono due percorsi intrecciati, e che aiutare gli afghani a cavarsela da soli è un obiettivo che non passa solo attraverso un esercito e una polizia afghana autosufficienti, ma anche attraverso la possibilità, per le donne, di imparare ed esercitare un lavoro.

    I discorsi, tradotti da un professore che ha trascorso un lungo periodo in Italia, insegnando storia e cultura afghana, avevano si' il sapore dei discorsi inaugurali, ma tutto ha preso una piega diversa quando ha parlato una donna, la direttrice dei corsi di taglio, cucito, ricamo. Perché dietro di lei, in un angolo del cortile, c'era un gruppo di una trentina di donne, strette le une alle altre, e intente a schermirsi dai nostri obiettivi e dai nostri sguardi con gli angoli dei veli e con i quaderni delle lezioni teoriche. Poi, tagliato il nastro tra un timido applauso, distribuite le caramelle che riempivano un vassoio, gli uomini si sono appartati in una stanza per il the, e le donne si sono messe alle macchine per cucire. E' stato in quel momento che si è sentita l'eco dell'esplosione, e qualcuna ha avuto un sussulto.

    Stavo cercando di parlare, aiutato da una ragazza più giovane delle altre, e più abile a cavarsela con l'inglese, con una donna sul cui volto il velo faticava a nascondere i segni di una vasta ustione. Non è facile fare certe domande, ma mi ha risposto con semplicità: una bomba, diciassette anni fa, quando era bambina. Quando siamo tornati verso camp Invicta, le notizie hanno incominciato a riempire quell'eco: un'autobomba guidata da un terrorista suicida, che ha provocato, a un primo bilancio, sette morti tra i civili, due tra i poliziotti afghani, settantaquattro feriti tra i civili, due tra i poliziotti. Sto qui a Kabul con un obiettivo semplice: raccontare la fine missione di quel reggimento di parà che ritorna senza sei dei suoi uomini.

    E' passato quasi un mese e quel lutto si è riempito di lavoro quotidiano, di pattuglie, di una routine vigile e tesa, e qualche volta innervosita dalle dichiarazioni che arrivavano dall'Italia, perché far intendere che un attentato può sollevare richieste di abbandono è un ovvio incentivo a far ripetere gli attacchi. Ogni notte, ogni mattina, ogni tramonto, ogni volta che un gruppo di uomini si prepara a uscire a bordo dei Lince, il breve briefing ai piedi dei mezzi è un lungo elenco di warnings, di allarmi e pericoli segnalati lungo il percorso. E del resto anche il telefonino di noi civili riporta ogni giorno qualche messaggio dell'Ambasciata, che invita a evitare questa o quella zona. Decisivo, da quando i cancelli del campo si aprono, è il ruolo del rallista, l'uomo che sporge dal tettuccio del Lince. Il dito sull'arma, lo sguardo alla strada, ai vicoli, ai mezzi che incrociamo, ai bordi della strada, ai segni di un cavo, o di un mucchio di terriccio smosso, o un pezzo d'asfalto intenerito dal gasolio e scavato e imbottito di esplosivo e poi ricoperto. La testa che deve ragionare velocemente, memorizzare targhe e tipi di veicoli, capire se quell'auto che sembra piena in realtà possa essere proprio l'auto del terrorista, che viaggia solo, accompagnato da manichini rivestiti con un burqa.

    Dall'Italia stanno per giungere dei Lince attrezzati con una torretta che protegge l'uomo in ralla, ma gli uomini sul campo hanno già detto di preferire il vecchio sistema, che lascia libertà di movimento al rallista ed è una garanzia per tutto l'equipaggio: è il rischio di quell'uomo all'aria aperta che ha salvato tutti, molte volte. La fine missione, stavolta, è diversa dalle altre, e non solo per quel vuoto, i sei che mancano. Il fatto è che dal prossimo contingente, gli uomini della Sassari che danno il cambio alla Folgore, gli italiani spostano tutti i loro reparti a Herat, dove già opera il grosso della missione. Qui a Camp Invicta resteranno duecento uomini destinati a fare da supporto agli italiani che lavorano al comando Isaf, nel centro di Kabul. Camp Invicta passa ai turchi, e dunque chi non esce in pattuglia lavora giorno e notte a sistemare mezzi e materiali che rientrano in Italia o vengono portati a Herat da giganteschi Antonov, a svuotare uffici e magazzini.

    Ma il passaggio di consegne più significativo non è quello che avverrà sul piazzale di camp Invicta, ma quello che è già avvenuto a Musahi, la valle a qualche decina di chilometri dalla capitale, che gli italiani hanno lasciato dopo cinque difficili anni. La base avanzata nella quale si sono alternati tanti reparti è adesso affidata agli afghani, affiancati da qualche americano. Quella che era una valle infestata da incursioni talebane adesso è un po' più sicura, ci sono scuole e un ospedale, pozzi e colture agricole che prima erano abbandonate. Non è il paradiso, ma almeno, un purgatorio solo afgano. Quanto basta, ai parà di ritorno, per dire missione compiuta. Sull'aereo, poi, o a Pisa, o al rientro a Siena, ecco quello sarà il momento difficile, quando sembrerà che questo mese non sia passato per niente.