Blair fa il perfido regista del reality sulla fine del suo regno

Paola Peduzzi

Doveva essere una successione annunciata, di quelle noiose e prevedibili, una lacrima qui e là al massimo, ma soltanto da parte dei più nostalgici. Era tutto talmente già scritto che avevamo imparato a far finta di niente: un giorno ci sveglieremo e Tony Blair non sarà più il premier britannico. Al suo posto arriverà il delfino prescelto, e siccome è unto da Blair ci piacerà pure lui, un po' meno magari, ma insomma dieci anni possiamo pure farceli bastare. La rassegnazione a questo destino ineluttabile aveva preso il sopravvento.

    Dal Foglio del 31 marzo 2007

    Doveva essere una successione annunciata, di quelle noiose e prevedibili, una lacrima qui e là al massimo, ma soltanto da parte dei più nostalgici. Era tutto talmente già scritto che avevamo imparato a far finta di niente: un giorno ci sveglieremo e Tony Blair non sarà più il premier britannico. Al suo posto arriverà il delfino prescelto, e siccome è unto da Blair ci piacerà pure lui, un po' meno magari, ma insomma dieci anni possiamo pure farceli bastare. La rassegnazione a questo destino ineluttabile aveva preso il sopravvento.

    Poi però è successo che il giochetto del predestinato si è rotto
    e noi ci siamo ritrovati lì, con il fazzoletto in mano, a piangere per il leader che se ne va e non si sa più perché, visto che sono ben più numerosi gli inglesi che si rimangerebbero tutto quel tam tam per cacciare Blair dei tifosi del delfino. L'unico sollievo al piagnucolare ininterrotto che ci accompagna da settembre – da quando cioè Tony ha detto che entro un anno se ne sarebbe andato e parlava come uno che potrebbe restare per sempre – è lo spettacolo maestoso che il premier uscente ha messo in piedi, una riedizione di quel che successe dieci anni fa, con lui con la metà dei capelli e il doppio delle rughe a fare ancora da spavaldo e perfido regista. Naturalmente la speranza è che la barca dei successori di Blair vada a sbattere contro la scenografia in un novello Truman Show e che il premier non possa più andar via, altrimenti chi lo scrive il finale del tutti felici e contenti e blairiani? Non andrà così, e la crisi dei quindici ostaggi inglesi nelle mani di Teheran potrebbe cambiare da un momento all'altro il clima leggero che si respira a Londra, ma intanto va in onda la trama del perfido regista.

    L'antefatto al reality che è stato messo in piedi all'insaputa dei protagonisti
    è più o meno questo: dieci anni fa Blair promette al suo amico Gordon Brown che diventerà premier dopo aver arricchito l'Inghilterra facendo il cancelliere dello Scacchiere. Non fissa un termine, non dice il giorno, ma suggella a un tavolo del Granita il patto. Nel frattempo giocano la partita della corsa elettorale anche John Prescott e David Blunkett, e i quattro – tra odio e amore – procedono insieme, accompagnati anche da Peter Mandelson e Alistar Campbell. Blair vince la prima rielezione, poi anche la seconda e fa un'altra promessa: nel 2009 non mi candiderò più. Intanto Brown ha riempito i portafogli degli inglesi, la City applaude e rifulge, e grazie a questi successi anche il premier tiene duro, nonostante la sua immagine sia irrimediabilmente scalfita dalla campagna irachena e dalla “sudditanza” alla leadership americana. Di fatto se Blair è riconfermato nel 2005 per la terza volta consecutiva lo deve all'amico (a questo punto decisamente scocciato) Gordon. Nel 2006 scoppia la rivolta laburista contro Blair e lui annuncia l'addio. Il predestinato gongola, Tony dice che Brown è il più adatto a guidare l'Inghilterra, ma non si lascia mai andare a un endorsement degno di questo nome. Piano piano la successione si fa incerta, i mass media che avevano fatto i browniani fino a quel punto cominciano a chiedersi se un grande cancelliere dello Scacchiere sappia essere anche un grande premier e alla fine, tra sondaggi e toni allarmati, concludono che la risposta è no. I conservatori nel frattempo sono riusciti a scovare un leader giovane, dinamico, coccolato dai giornali, David Cameron, e il povero Brown appare ancora più grigio di quel che è.

    E' qui che il reality ha inizio. Alimentato dal divertimento e dalla speranza di chi non sa immaginarsi il postblairismo. I tempi sono strettissimi. Voci sempre più insistenti dicono che l'8 maggio sarà la data dell'addio di Blair, tanto che è stato già definito il “legacy day”. Secondo il Financial Times, questa è la data perché il 3 maggio si vota in Scozia e, stando alle previsioni, i laburisti si prenderanno una scoppola sonora. Così Blair, che è il regista perfido, ha pensato: chi meglio di uno scozzese potrà spiegare agli scozzesi che il Partito laburista resta il più figo di tutti? Ecco trovato il primo atto per Brown. Secondo l'Independent (che da quando si è pentito sulla cannabis non è più quello di una volta), l'8 maggio diventerà operativa la nuova idea, lanciata alla fine di questa settimana, che si è fatto venire il regista perfido per non farci crollare nella disperazione: far diventare John Reid, attuale ministro dell'Interno e papabile sostituto di Brown nella corsa al dopo Blair, il “security supremo”, lo zar della sicurezza inglese, spacchettando la parte della giustizia (chissà a chi andrà, chissà se il regista ci ha già pensato) e lasciando a Reid il ruolo di vero combattente contro il terrorismo. In più, per non trascurare la parte autocelebrativa, l'8 maggio sarà anche il giorno in cui si insedierà il primo governo a due croci dell'Irlanda del nord, quello dell'unità tra protestanti e cattolici, quello su cui Blair ha lavorato per un decennio e che ora è riuscito finalmente a definire.
    Se l'8 maggio è veramente il “legacy day” – e molto dipende dalla liberazione degli ostaggi in Iran – i tempi sono stretti. L'unico a poterne beneficiare è Brown, ma non dorme certo sonni tranquilli: ogni giorno si vede attaccato da qualche parte, che sia lo storico “nemico” Peter Mandelson – che ora ha deciso di dare le dimissioni da commissario europeo e tornerà a occuparsi di politica inglese, cioè a dar fastidio a Brown – o il nuovissimo rivale David Miliband, il ministro dell'Ambiente che piace tanto a tutti quelli che non tollerano il cancelliere dello Scacchiere, in particolare all'ex ministro dell'Interno Charles Clarke, che un giorno sì e l'altro pure dice o fa dire che se Brown diventa premier i laburisti possono scordarsi di tornare a Downing Street per i prossimi cent'anni.

    Poiché dal patto della granita una decade è comunque passata,
    l'ambientazione del reality è un po' cambiata: i nuovi accordi che si stanno chiudendo in questi giorni non si sanciscono più a Islington – il quartiere nel nord di Londra in cui è nato il blairismo – bensì tra le terrazze vittoriane di Primrose Hill, il quartier generale non soltanto della nuova generazione laburista, ma anche di Kate Moss e Sienna Miller, tanto per dirne qualcuna, e diventato famoso per i party sesso-droga-rock'n'roll che si tenevano da quelle parti. In quest'atmosfera bella e maledetta si è formata la cosiddetta “Primrose Hill gang”, la banda di Miliband e compari, che ben si contrappone all'altra grande gang, che è quella altrettanto chiccosa di Notting Hill, capitanata dal leader conservatore Cameron.

    Miliband è il capetto della banda, il più premierabile di tutti,
    uno che fin da quando fu individuato da Blair nel 1997 – quando David aveva 32 anni ed era già a capo dell'unità politica di Downing Street – si porta addosso il soprannome che gli ha dato Alastair Campbell: “Brains”, dal genio-ingegnere che aiuta le supermarionette Thunderbirds a salvare i buoni dai cattivi sulla terra e nello spazio. La faccia pulita, il fare da secchione un po' alla Harry Potter, il sorriso sempre pronto e il sogno nel cassetto (di quando era piccolo) di diventare autista di autobus hanno fatto il resto. Miliband piace. Ha un'esperienza di governo – ha ricoperto diversi ministeri nei tanti rimpasti di Blair – abbastanza solida da non farlo sembrare un neofita, ma neppure troppo radicata, il che lo rende agli occhi dei “vecchi” del partito del tutto malleabile. Piace alla sinistra del New Labour che in questi anni si è vista smantellare dal governo un bel pezzo di welfare perché il papà di Miliband, Ralph, scappato dal ghetto di Varsavia nel 1940, è un professorone marxista notissimo, e non può che aver dato un'impronta indelebile al giovinetto tale da farlo tornare nell'alveo tradizionale del corso laburista.

    Piace alla base perché ha scritto il manifesto del 2001
    del New Labour e ha un'ortodossia blairista quasi invidiabile, dal momento che fin dal primo giorno dell'avventura di Tony lui c'era e ha spesso collaborato – come ricercatore presso i diversi think tank che hanno accompagnato il premier – alla stesura dei documenti più innovativi del governo Blair. Piace persino ai brownisti perché suo fratello minore, Ed, è stato per il cancelliere dello Scacchiere quello che Miliband è per Blair: un consigliere della prima ora. Nonostante siano schierati in squadre avversarie, i due fratelli non si sono allontanati e anzi, nella loro gang di Primrose Hill, hanno sempre appianato le fratture, aggregando intorno a loro giovani laburisti che poco si appassionavano allo scontro Blair-Brown. Il che significa che questa nuova generazione sarà con tutta probabilità anche quella della definitiva riconciliazione delle correnti laburiste (ci sarebbe da mettere mano al fazzoletto, non fosse che c'è sempre la pura e devota fiducia nella fantasia del perfido regista).

    Grazie al fratello Ed, David è molto in confidenza con una delle coppie più di moda al momento, schierata nel campo di Brown ma pronta a dimenticare le rivalità: Ed Balls e Yvette Cooper. I due Ed – la stampa li chiama “Eds” – sono i consiglieri economici più longevi del cancelliere dello Scacchiere, mentre Yvette è una delle guru politiche di Brown: si è fatta le ossa negli Stati Uniti seguendo nel 1994 la campagna elettorale di Bill Clinton e poi ha importato molti dei modi schietti e sbarazzini che si portano tanto bene a Washington. Della partita fanno parte anche altri esponenti della nuova generazione laburista, come Patrick Diamond e Douglas Alexander, oltre che gli “amichetti” di Miliband che, secondo tutti gli analisti, si faranno onore anche nell'eventuale premierato di Brown, come Andy Burnham, James Purnell e Liam Byrne. Tutti giovani, carini e occupatissimi.
    Partecipe defilata della banda è invece la strariservata moglie di David Miliband, Louise, violoncellista alla London Symphony Orchestra. I due si sono incontrati su un aereo da Roma a Londra, David l'ha aiutata a sistemare il violoncello e quell'episodio è diventato – come ha poi raccontato lui – “la cosa più bella che mi sia capitata per lungo tempo”. Si sono sposati nel 1998 e nel 2004 hanno adottato un bambino – Isaac James – in America. Louise è cresciuta negli Stati Uniti (è rientrata in Inghilterra a vent'anni) e ha la doppia cittadinanza, quindi ha il diritto di adottare bambini oltreoceano. Quando si venne a sapere che i due erano partiti per portare a termine l'adozione, molti avevano gridato allo scandalo – perché non hanno scelto un bimbo inglese? – ma né David né Louise hanno mai dato seguito alle critiche e in breve la diatriba è morta lì. I ben informati dicono che i due sono molto affiatati, anche se tendono a non occuparsi degli affari professionali uno dell'altra: lei perché non ama la notorietà, lui perché è stonato come una campana.

    Nelle intenzioni del perfido regista l'alternativa più credibile di Brown
    è proprio Miliband, o almeno così pare a giudicare dalle continue indiscrezioni che filtrano sui giornali dallo staff di Blair. Ma per evitare un calo di tensione – che si tradurrebbe facilmente in nostalgia e quindi in lacrima – il regista non ha lasciato neppure Miliband sguarnito di possibili rivali: sia mai che si riveli ancora più noioso di quello che è, sia mai che sia un astro che si brucia in fretta, come molti già insinuano, paragonandolo al “fenomeno Obama” che ha già contagiato e mezzo stancato l'America. Il primo di tutti i rivali è John Reid, il quale ha per l'appunto appena incassato l'onore di veder approvata una rivoluzione all'interno dell'Home Office, dicastero rimasto identico negli ultimi trecento anni. Reid è uno tosto, non un ragazzino della Primrose Hill gang. Diventato ministro dell'Interno un anno fa dopo che il suo predecessore Clarke era stato travolto da uno scandalo su presunti terroristi rilasciati, ha gestito con piglio da premier (anche perché il premier era in vacanza con la moglie Cherie e il suo costume celeste a pois e non si è neppure sognato di rientrare d'urgenza) il tentato attacco ai cieli dell'estate scorsa, quello che doveva far esplodere almeno dieci aerei partiti dall'Inghilterra e diretti in America. Nel giorno in cui c'è stata la retata e l'attentato è stato sventato, sono stati gli occhi piccoli, gelidi e azzurri di Reid a vigilare sul paese. Con il suo accento scozzese, ha detto che l'attacco era un messaggio per chi “don't get it”, per chi non capisce qual è la vera minaccia del terrore. Ha citato i politici che si opponevano a tutte le misure antiterroristiche, i giudici europei che avevano pronunciato il “Chahal judgement” (che non permette di far sapere all'Home Office se coloro che sono stati espulsi hanno raggiunto o no i loro paesi d'origine) e i mass media che “apparentemente danno più importanza alle opinioni dei terroristi islamici più che ai musulmani eletti democraticamente, come Karzai in Afghanistan e Maliki in Iraq”.

    Un manuale di blarismo impegnato nella guerra al terrorismo
    come mai si era sentito prima. E infatti da quel momento Reid si è conquistato la fiducia incondizionata del premier, tanto più che con lo scozzese Brown non corre per nulla buon sangue e così si abbassa il rischio che poi tutto vada a schifio con un accordo inaspettato. La riforma del ministero dell'Interno non è che un suggello di questa rinnovata alleanza tra Blair e lo scozzese dagli occhi chiari.

    A completamento del reality c'è niente meno che il riscaldamento globale: la variabile più perfida che il perfido regista potesse inventarsi. E' successo infatti che proprio mentre si giocava il passaggio ultimo di testimone, in Inghilterra s'è cominciato a parlare soltanto di clima. Al di là delle strumentalizzazioni, della noia, degli allarmismi, degli Oscar e della quantità abnorme di energia consumata a livello personale da chi si professa ecologicamente corretto, il tema appassiona gli inglesi (è un po' come i libri di ricette che sono sempre in testa alle classifiche, un mistero tutto britannico). Il conservatore Cameron ne ha fatto ormai uno stile – bicicletta e obrobriosa pala energetica da installare sul tetto – e così Blair è corso ai ripari. All'estero si è rilanciato come il leader che porterà quei cattivoni inquinatori degli americani a mettere giudizio, all'interno ha fatto sì che si preparasse un pacchetto di leggi ecosostenibile, con tanto di tasse ecologiche. E chi ha lavorato spalla a spalla al progetto? Il ministro dell'Ambiente e il cancelliere dello Scacchiere. Miliband e Brown. I due rivali costretti insieme allo stesso tavolo per decidere e salvare il futuro verde del paese.

    Non c'è che dire, il regista è proprio bravo.
    Ora spera di trovare la stessa intuizione per capire – sulla scena internazionale – dove sia meglio lasciare lo zampino. Intanto si gode lo spettacolo casalingo. Anche se sa che poi la realtà potrebbe essere ben più noiosa del previsto, perché molti già discutono del patto che Brown e Miliband avrebbero siglato, con il beneplacito riottoso di Clarke e Reid: basta con le lotte fratricide, concentriamoci sul nemico. Miliband non si butterebbe adesso nella mischia, Reid si accontenterebbe di essere il primo zar della sicurezza d'Inghilterra e Clarke avrebbe un posto nel prossimo esecutivo guidato da Brown. Il plot rischia di sgonfiarsi sotto i colpi di un banalissimo inciucio, mentre ormai è certo che la prossima generazione si è già lasciata alle spalle il duello tra blairisti e brownisti. In più ora ci sono le crisi internazionali a complicare l'intrico, soprattutto quella con l'Iran che sta mettendo a dura prova il Foreign Office e si sta trasformando in uno scontro duro, sia a livello diplomatico sia a livello commerciale. La fiducia nel perfido regista resta indefessa, i fazzoletti sono pronti.

    • Paola Peduzzi
    • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi