Maria Angiolillo

Stefano Di Michele

E  chissà quante portate e bicchieri e posate e tovaglie e tovaglioli. E inviti e telefonate e saluti – il garbo del benvenuto, la consuetudine dell'arrivederci. Sul mejo cucuzzolo di Roma, quello che splende da Trinità dei Monti, un mondo intero si è consumato in inviti e chiacchiere garbate e soddisfatte curiosità. Tre tavoli, trenta invitati, al massimo trentasei, tre bicchieri e chissà quante forchette, maggiordomi in livrea, persino il cuoco una volta prestato dalle cucine della meglio nobiltà capitolina.

    E  chissà quante portate e bicchieri e posate e tovaglie e tovaglioli. E inviti e telefonate e saluti – il garbo del benvenuto, la consuetudine dell'arrivederci. Sul mejo cucuzzolo di Roma, quello che splende da Trinità dei Monti, un mondo intero si è consumato in inviti e chiacchiere garbate e soddisfatte curiosità. Tre tavoli, trenta invitati, al massimo trentasei, tre bicchieri e chissà quante forchette, maggiordomi in livrea, persino il cuoco una volta prestato dalle cucine della meglio nobiltà capitolina. In un fruscio di tovaglie in fiandra, tra scialli leggeri e scarpette con gli strass e borsette rosa, Maria Angiolillo all'improvviso se n'è andata. Mentre si pettinava, dicono, che mai in disordine si è presentata da alcuna parte, e figurarsi a questo decisivo incontro – e giusto una volta si ritrovò in vestaglia con Prodi, raccontano, ma solo perché era arrivato per errore con ventiquattr'ore d'anticipo.

    Conosceva quasi tutti, la signora Angiolillo – la sora Maria
    romanamente intesa, e c'era insieme qualcosa di beffardo e qualcosa di affettuoso nell'evocarla così nelle cronache giornalistiche – ma non proprio tutti, e in ogni modo una vera Signora è sempre pronta, tanto per invitare quanto per rispondere a un invito. Decenni e decenni a riflettere su incroci umani e ingredienti culinari e la frase appropriata – perché poi una Signora anche questo sa fare – e la strategia della seduta intorno ai tre tavoli – detti Alba e Meriggio e Tramonto, e al sorgere e al calare è faticoso alludere anche solo cenando – tra gessati e tonache, vecchi incontri abituali e nuovi habitué. Era la scacchiera della sua (quasi) perfetta partita con la conflittualità del mondo esterno, il salotto della Signora, dove ricomponeva e smorzava, sfamava ed esortava. Alla Signora sarebbe piaciuto un mondo perfetto come la composizione floreale al centro dei suoi tavoli, come la millimetrica perfezione del posizionamento della forchetta sulla tovaglia.

    Appena uscita dall'ospedale (anzi, dall'ospedale era voluta uscire), dopo una difficile  operazione, si era subito messa al lavoro per cercare di organizzare una cena con Berlusconi – e figurarsi l'abisso tra le serate nel Villino e quelle a Palazzo Grazioli, ma certo molto patisce il premier, e comunque la Signora detestava le smagliature del mondo quanto i gomiti sul tavolo, c'è da pensare. Ha attraversato i tanti anni – dalla gloria di una Repubblica al mesto tramonto di un'altra (tavolo in fondo, per piacere): la convinzione e l'illusione di far argine a ogni possibile disordine, doloroso prima ancora che estetico. Come certi orrendi turisti che a volte bivaccavano vicino la porta di casa, e qualcuno in quei pressi persino pisciò. E' il mondo, Signora: non tutto è Letta, non tutto è Vespa. Ora avrà lo stesso il suo utile e bel da fare: le (ultime) cene, Lassù, non sono mai riuscite troppo bene.